Forse questi quattro signori, i Rolling Stones, non dovrebbero essere qui, a questo punto della loro vita, a fare questa cosa. E a farla così bene. È un pomeriggio di aprile. Siamo nei dintorni di Burbank, California, in una sala prove grande quanto un garage. Keith Richards è in piedi davanti a Charlie Watts, che lo osserva attentamente mentre suona l’intricato e minaccioso intro di chitarra di Gimme Shelter
con la stessa cura e delicatezza di uno che si fa strada in mezzo all’inferno. Keith riprende l’intro e Charlie Watts lo segue, un’ombra dietro alla sua chitarra, mentre Mick Jagger lancia un ululato spettrale. Una nota alta, che suona come il richiamo di un fantasma del futuro che non vorresti mai ritrovarti di fronte, ma che allo stesso tempo non vedi l’ora di incontrare. E poi tutta la band, ovvero Keith Richards, Charlie Watts, il chitarrista Ronnie Wood, il bassista Darryl Jones, il corista Bernard Fowler e il tastierista Chuck Leavell, si butta dentro la canzone entrando con un rombo minaccioso. Jagger si muove avanti e indietro con mosse feline, senza guardare nessuno, con gli occhi fissi da qualche parte oltre il muro di questa stanza, che la band sembra in grado di attraversare con il suono, e intanto canta la sua invocazione di morte. Oggi, in questa stanza, Gimme Shelter serve a ricordare che questa band non può fare a meno di fare quadrato intorno a se stessa, mentre crea qualcosa di così spaventoso e liberatorio. «Le individualità della band si fondono in una sola, i Rolling Stones», dice il produttore Don Was, «e quando questo succede, amico, viene fuori qualcosa di veramente potente. Non senti più le singole parti, ma un’entità unica. Ed è piuttosto grande e potente».
I Rolling Stones stanno provando il loro primo tour in sei anni, dopo aver fatto alcuni concerti a Parigi, Londra, Brooklyn e Newark nella primavera del 2012 per celebrare i loro 50 anni di carriera. È un traguardo straordinario, per varie ragioni. Poche band al mondo sono riuscite a sopravvivere, e ancora meno a trionfare, mantenendo intatta la formazione iniziale (Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts). Come mi ha fatto notare una volta Charlie Watts, l’unico esempio simile di longevità nella storia della musica del secolo scorso è la band di Duke Ellington, che il leggendario pianista jazz ha guidato per 50 anni dal 1924 al 1974, anche se non ci sono stati membri fissi per tutto il periodo. Questi numeri vogliono dire che i musicisti radunati in questa stanza hanno tutti dai 50 ai 70 anni e stanno suonando un genere musicale che solitamente viene associato alla spavalderia della gioventù.
Nonostante siano invecchiati, continuano a suonare con tenacia e senso del rischio, come se fosse ancora possibile far paura al mondo con la musica. Hanno trasformato questa determinazione in una specie di sfida infinita, per la disperazione dei critici e anche di alcuni colleghi: «Bisogna fare i complimenti ai Rolling Stones, stanno festeggiando i loro 112 anni insieme. Whoopeee!», ha detto John Lennon nel 1980, poco prima di venire ucciso. Nel 2013 i Rolling Stones sono ancora qui, pronti a partire per la serie di concerti più attesa della loro carriera dai tempi delle epocali scorribande in America del 1969 e del 1972.
Uno sforzo che ovviamente verrà pagato molto bene: i biglietti costano tra i 150 e i 2.000 dollari. Kid Rock ha recentemente dichiarato a Rolling Stone: «È ridicolo, ci pagano troppo. La gente ha smesso di andare ai concerti perché i biglietti costano troppo. I Rolling Stones vogliono 600 dollari, sono senza parole. Li adoro, ma non ci vado!».
Chiedo a Mick Jagger se non pensa che ci sia un’incongruenza tra la loro ricchezza di oggi e l’immagine ribelle degli inizi: «Non lo so… non vorrei affrontare l’argomento… mi sembra che sia la solita infinita questione della lotta tra l’arte e la sua commercializzazione e, uhm…». Keith Richards non svia la questione, ma è una cosa che non sembra infastidirlo molto: «Per me le cose stanno così: abbiamo annunciato la nostra intenzione di fare un tour e ci sono arrivate delle proposte. Erano tutte uguali. Abbiamo abbassato un po’ i prezzi, diciamo che abbiamo scelto l’offerta più bassa. Ma sono i prezzi del mercato. Non lo so, non ho altro da dire, se non che vorrei che la gente riuscisse a venire a un nostro concerto senza far morire di fame i propri figli. Tutto qui».
Nonostante le buone prospettive di guadagno, Mick Jagger (che approva personalmente ogni dettaglio dei tour) ci ha messo un po’ a dare l’ok definitivo: «Non siamo pronti», ha dichiarato a Rolling Stone all’inizio del 2012.
Durante questa intervista a Los Angeles, poco prima di partire, mi ha detto: «Ho fatto quella dichiarazione perché ci stavano offrendo un sacco di cose, tipo suonare alle Olimpiadi, e…», fa una pausa, «era vero, non eravamo pronti. Un’ottima scusa per rinunciare a tutte quelle proposte». Il problema, però, è un altro.
I Rolling Stones sono famosi per le divisioni interne, fin dai tempi in cui Brian Jones si sforzava per conquistare la leadership nella band, mentre Richards e Jagger emergevano come principali forze creative. Negli ultimi anni è risultato evidente il disaccordo tra Jagger e Richards sulle intenzioni della band.
Nel 2010 è arrivata l’autobiografia di Richards, Life, e la relazione con Jagger è crollata ai minimi termini. Richards ha scritto cose tremende su Jagger, sulla loro amicizia e sulla sua personalità.
La leggendaria amicizia di Richards con l’eroina e l’alcol, inoltre, ha rischiato di far saltare molti progetti. Nel 2010 è arrivata anche la sua acclamata autobiografia, Life, e la relazione con Jagger è crollata ai minimi termini. Richards ha scritto cose tremende su Jagger, sulla loro amicizia e sulla sua personalità. Poi, man mano che si avvicinava il 50esimo anniversario degli Stones, ha contattato la band: «Ragazzi, mi sta venendo una voglia… a voi?». Ma Jagger non era disposto a scrollarsi di dosso i suoi insulti tanto facilmente.
L’unica volta che ho incontrato gli Stones è stato alla fine degli anni ’80, durante il periodo che lo stesso Richards ha definito: «La terza guerra mondiale». Quando ho intervistato Richards nel febbraio del 1986, girava voce che Jagger avesse già escluso l’idea di andare in tour per promuovere il nuovo album della band, Dirty Work.
Richards ha cercato di fare buon viso a cattivo gioco, ha elogiato l’interpretazione di Mick Jagger nella cover del classico R&B del 1963 di Bob and Earl Harlem Shuffle, che in quel momento era il loro ultimo singolo, e mi ha detto che la sua speranza era riuscire a vedere fino a dove gli Stones sarebbero riusciti ad arrivare invecchiando in pace come una confraternita rock&roll. Nessuno lo aveva mai fatto prima. Era come se stesse esprimendo un desiderio. Jagger però non la pensava allo stesso modo. L’ho incontrato a Londra nell’estate del 1987. Aveva già pubblicato il suo primo album, She’s the Boss (1985) e stava per pubblicare il secondo, Primitive Cool.
La possibilità che Jagger stesse mettendo da parte gli Stones per iniziare una carriera solista aveva fatto infuriare Keith Richards. Si diceva anche che Jagger volesse andare in tour senza la band e questo era un affronto insopportabile per Richards, che aveva espresso il desiderio di tornare a suonare dal vivo già da molto tempo (alla fine Jagger ha fatto un breve tour in Giappone e Australia, ma non in Inghilterra o in America, ndr).
I Rolling Stones sono tornati insieme nel 1989 per registrare Steel Wheels e sono partiti per uno spettacolare tour mondiale. Ma qualcosa in loro sembrava necessariamente essere cambiato, in meglio e anche in peggio. Hanno registrato nuovi album, in cui Mick Jagger ha introdotto una gamma di suoni più ambiziosa, e Keith Richards ha dato nuova forma alla sua visone del blues con un suono ancora più angosciato e solitario. Ma non hanno mai recuperato l’intesa, e non sembrano più uniti da una reale fratellanza.
L’impressione è che, con il passare del tempo, Mick Jagger abbia avuto la meglio: la sua professionalità e la sua scrupolosa cura dei dettagli gli hanno garantito il controllo della band. Richards, alle prese con la droga e l’alcol e il suo status di icona vissuta del rock, non è riuscito a resistere. A volte sembrano uniti solo da un’incomprensione reciproca. «Non entro nel suo camerino da almeno 20 anni», ha detto Richards, «a volte sento la mancanza del mio amico».
Si è scoperto che Keith Richards ha tenuto per anni un diario in cui ha annotato tutto, a volte parola per parola. Insieme al giornalista James Fox, ha messo insieme questi ricordi e molte altre interviste e ha scritto la sua biografia, Life. Ci sono tutte le sfide e i trionfi, le sconfitte e i momenti di dolore e molte rivelazioni sull’evoluzione dell’accordatura esoterica della sua chitarra.
Goddess in the Doorway, la title track dell’album solista di Jagger nel 2001, definito da Richards “Dogshit in the Doorway”
In alcuni punti, però, Keith ha esagerato. Ha definito Goddess in the Doorway, l’album solista di Jagger del 2001, «irresistibile al punto da meritarsi un nuovo nome: Dogshit in the Doorway», e ha detto che Mick è cambiato troppo. Prima era una persona premurosa e accomodante, poi è diventato freddo, ambizioso e ossessionato dal controllo, fino a diventare insopportabile: «All’inizio degli anni ’80 si è trasformato in Brenda, o Sua Maestà. Parlavamo di “quella stronza di Brenda” davanti a lui e lui non se n’è mai accorto».
Richards ha sempre detto di voler mettere l’unione e l’indistruttibilità della band prima di ogni altra cosa, ma con Life ha fatto l’esatto contrario, mettendo tutto in discussione e dipingendo il membro più famoso dei Rolling Stones come un fasullo troppo preso da se stesso. La conseguenza, stavolta, non sarebbe stato un semplice litigio, ma una vera minaccia alla sopravvivenza della band.
Quando Jagger è salito sul palco dei Grammy nel 2011 per rendere omaggio a Solomon Burke con una performance straordinariamente piena di soul che ha lasciato senza parole il pubblico, stava lanciando un messaggio a Keith: sono capace di fare una cosa così sorprendente anche senza di te e senza i Rolling Stones.
Keith era in grado di fare altrettanto? È stato Jagger a prendersi cura di lui, lo ha aiutato ad affrontare i suoi problemi di salute e ha tollerato le conseguenze del suo continuo uso di droghe. È stato Jagger a tenere in mano le redini dell’azienda Rolling Stones, e a gestire gli affari della band negoziando i contratti. Si è ritrovato legato a vita a Keith, l’eroe popolare, e lui in cambio lo ha fatto apparire agli occhi del mondo come un uomo ossessionato dal successo e dal suo ego. Stavolta, prima di cominciare a parlare di un tour per l’anniversario dei 50 anni, Jagger ha messo in chiaro che ci sarebbe stato un prezzo da pagare. I dettagli sono rimasti segreti, ma, come ha detto Ron Wood: «Ci sono stati momenti imbarazzanti e di tensione». Girava voce che persino il suo ruolo di chitarrista fosse in discussione. Si diceva che Richards avesse problemi a suonare per colpa dell’artrite e che l’abuso costante di alcol avesse ormai annebbiato le sua capacità musicali. Fonti vicine alla band sostengono che, quando i Rolling Stones si sono riuniti a Londra nel dicembre del 2011, non lo hanno fatto solo per provare la scaletta del tour, ma, almeno per quanto riguarda Jagger, per vedere se Richards ce la faceva ancora.
Lo scorso aprile ho trascorso un’ora con Mick Jagger in un hotel di Beverly Hills: «Non so di cosa diavolo dobbiamo parlare», mi dice con un sorriso, sedendosi a tavola. Indossa jeans neri stretti e una camicia rosa a maniche lunghe. È incredibilmente magro, quindi parliamo un po’ di come fa a tenersi in forma: «Devo intensificare l’allenamento prima di partire per il tour, ma non devo ricominciare da zero. È importante mantenermi in forma». Gli chiedo anche come allena la voce: «Sul palco non canto solamente, voglio esibirmi. Muovo le braccia, corro, ballo e questo mi porta via la metà del fiato. L’obiettivo è trovare un equilibrio, non voglio certo ritrovarmi senza voce proprio quando arriva il momento di cantare una ballad. Ci sono cose che posso fare a casa per mantenere allenata la voce. Mi esercito con il karaoke, scrivo canzoni e registro dei demo. Sono fortunato, non voglio sembrare presuntuoso, ma canto tutte le canzoni dei Rolling Stones con la stessa tonalità di un tempo. Le note più alte sono tutte ancora lì, anzi forse le canto meglio perché non fumo più e bevo molto di meno».
C’è qualcosa che potrebbe spingere Jagger a scrivere anche lui un libro?
«Soldi», risponde, «Sarebbe l’unica motivazione.
Non ne vedo altre»
Affrontiamo l’argomento Life, e gli chiedo se per caso le scuse da parte di Keith Richards non siano state… «Un requisito necessario per andare avanti?», mi interrompe, e prosegue: «Beh, diciamo che è stata una buona cosa il fatto che si sia scusato. Non voglio aggiungere altro, ma credo che sia stata una buona cosa. Sì, in fondo era un requisito necessario. Bisogna avere il coraggio di parlare di queste cose, non bisogna lasciarle in sospeso. È una cosa tipica degli inglesi, non amiamo affrontare di petto le questioni personali».
C’è qualcosa che ti è piaciuto nel libro di Keith? Hai trovato accurata la ricostruzione degli esordi della band, il racconto della vostra formazione musicale?
«Accurata…», ripete questa parola con una risata amara: «Non voglio parlare del libro di Keith». Gli chiedo come sono i rapporti in questo momento: «Abbiamo un buon rapporto di lavoro.È concentrato e sembra che si diverta a suonare».
Quando Jagger mi dice che non vuole dire altro a proposito di Keith, lo fa con gli occhi bassi, guardando il bicchiere d’acqua davanti a lui. Mi rendo conto che la sua reticenza nasce da una reale sofferenza. Provo a prenderla alla larga, gli dico che sono stati in molti, non solo Richards, a sostenere che negli anni lui sia diventato un po’ freddo e pianificatore. Che ne pensi? «Credo che sia un clichè. Alla gente piace analizzare gli altri, dare giudizi superficiali e mettere delle etichette: Keith è genuino e appassionato, Mick invece è freddo. Non è sempre così, Keith può essere freddo come non mai. Non è una critica, è solo che a volte non si può fare a meno di esserlo. Ognuno di noi ha diversi modi di essere, ed è difficile tenerli separati. Quando si parla di cose che non hanno a che fare con la musica, devo sforzarmi di essere molto analitico, se devo parlare di affari faccio un passo indietro e cerco di considerare il punto di vista degli altri. Non puoi permetterti di essere emotivo. Questo non vuol dire che io non provi la stessa passione di un tempo: mi piace molto occuparmi del design del palco, della grafica del tour e del merchandise. Lo faccio con Charlie Watts e ci divertiamo molto. Nei Rolling Stones ricopro diversi ruoli e poi ho la mia vita al di fuori della band, che è tutta un’altra storia. Non mi piace venire classificato in un solo modo».
Charlie Watts una volta ha detto: «Quei due vivono praticamente insieme da quando erano ragazzini, giusto? Erano vicini di casa, viene tutto da lì. Sono come due fratelli che litigano su tutto. Se ti metti in mezzo sei finito». Lo stesso Keith ha ribadito in una recente intervista: «Siamo come due fratelli molto capricciosi. Quando ci scontriamo ci scontriamo forte, ma poi finisce tutto…».
Anche per Jagger è così? «È quello che dicono tutti, ma io ce l’ho un fratello (Chris Jagger, ndr). Il mio rapporto con lui è un rapporto tra fratelli e non ha niente a che fare con quello che ho con Keith. Lui è uno con cui lavoro, è una cosa molto diversa. Con un fratello ci sono i genitori in comune, le famiglie, io e Keith non abbiamo niente di simile. Lavoriamo insieme. Chi non ha fratelli pensa che suonare insieme in una band sia come essere fratelli, ma è tutta un’altra cosa».
Non è comunque un legame forte? «Certo. Lavorare con qualcuno per così tanto tempo crea un legame forte, ci sono tanti ricordi che ti uniscono, cose che hai vissuto insieme e che di tanto in tanto puoi rievocare e usare come punto di riferimento. È un gruppo piuttosto ampio, perché ne fanno parte i membri della band e anche tutte le persone che ci stanno intorno. Ma non è una famiglia». Hai mai pensato di scrivere in un libro la tua versione dei fatti? Una volta hai iniziato, poi hai abbandonato il progetto. «Soldi», risponde, «lo farei solo per soldi, sarebbe l’unico motivo».
Il giorno dopo incontro Richards in sala prove. Indossa un paio di jeans stretti, una maglietta sdrucita e ha i capelli bianchi raccolti da una bandana grigia. Non si tinge e non ha fatto nessun tipo di intervento per mascherare gli anni che passano, come nessun altro degli Stones. Sono vanitosi, certo, ma perfettamente a loro agio con l’età che dimostrano. Gli chiedo un commento su quanto scritto da Prince Rupert Loewenstein, ex consulente finanziario degli Stones, nel suo libro A Prince Among the Stones: «Un’amica psicoanalista una volta mi ha detto: “Keith è quello che vince dal punto di vista umano, Mick da quello professionale”». Mi aspetto un’obiezione, ma Keith risponde senza esitazioni: «Sì, credo che sia un’analisi giusta». Nel 2008, alla prima del film di Martin Scorsese Shine a Light, qualcuno ha chiesto a Richards se si immaginava la vita senza i Rolling Stones. Lui ha risposto divertito: «Certo». Potrebbe essere vero, o forse no: «Sappiamo di essere grandi», mi dice adesso, «e coltiviamo il folle desiderio di diventare ancora più grandi. Siamo ancora tutti qui, il che non è una cosa da poco. È già un miracolo quando due persone riescono a stare insieme per 50 anni, figuriamoci tre o quattro, non trovi? Comunque non voglio enfatizzare le differenze tra me e Mick, perché se ne è già parlato troppo. Nessuno parla mai del 98% delle volte in cui andiamo d’accordo, ci capiamo e sappiamo cosa vogliamo. Il mio modo di comunicare è la musica. Chiamalo accordo tra gentiluomini o come ti pare, ma il fatto è che quando lavoriamo insieme tutte le barriere che ci sono tra di noi, qualsiasi esse siano, tendono a scomparire».
Richards non si è stupito della reazione di Jagger al suo libro: «No, per niente, so come è fatto. Io però volevo raccontare la vera storia. L’ho detto anche a lui: “Dovresti vedere cosa ho lasciato fuori!”», ride. «E poi so esattamente cosa ha fatto, e gliel’ho detto in faccia: “Hai preso il libro, sei andato a guardare l’indice, hai visto il capitolo “Jagger, M” e hai letto solo quello. Non hai preso in considerazione il contesto, per niente”. Sì, ci siamo scazzati, ma me l’aspettavo e poi l’abbiamo risolta a modo nostro».
Hai dovuto scusarti? «Me l’ha chiesto. Io ho risposto che mi dispiaceva e… vuoi sapere una cosa? Direi qualsiasi cosa per tenere insieme la band, mentirei a mia madre». Gli Stones erano in pericolo? «No, per niente, è stato solo un graffio. Una botta di adrenalina». C’è qualcosa che ti penti di aver scritto? «No, no, no, no», ride, «ho detto tutto quello che volevo dire, punto e basta. Non ritratto niente». Ma c’è stato un momento in cui hai avuto paura che la band fosse finita? «Ci penso spesso: la band è a pezzi, ma si può mettere a posto. Nessuno di noi l’ha mai buttata nella spazzatura definitivamente: “Ok, è rotta, ma con un po’ di impegno la possiamo rimettere in sesto”. Questo è quello che abbiamo fatto nell’ultimo anno, abbiamo rimesso in piedi la band. Adesso è molto più in forma di quello che speravo».
Charlie Watts mi ha detto: «Quando suoniamo, se la musica è grandiosa, Mick perdona Keith e viceversa. È andata così, e anche Keith ha perdonato se stesso per quello che ha scritto. La musica è la salvezza di ogni cosa».
È difficile associare concetti come grazia e salvezza a una band come i Rolling Stones: il cofondatore della band, Brian Jones, è annegato in una piscina nel 1969, nello stesso anno a un concerto gratuito ad Altamont un ragazzo è stato accoltellato a morte mentre suonavano. Altri amici degli Stones, tra cui Gram Parsons e il produttore Jimmy Miller sono morti, forse proprio a causa della loro pericolosa amicizia con la band. Nel 1974 il chitarrista Mick Taylor ha lasciato la band: «Era il caos», racconta oggi. «Eravamo sempre in tour e quando non suonavamo dal vivo facevamo le cose migliori della nostra carriera. Abbiamo fatto sei album in sei anni, è stato incredibile. Loro sono andati avanti, ma io ero completamente consumato».
Taylor è tornato a suonare con gli Stones nei concerti del 2012, ed è salito sul palco come special guest durante Midnight Rambler. Lo farà ancora nel prossimo tour: «Ho capito quanto mi sono mancati, quando mi sono trovato sul palco con loro».
Bill Wyman, il primo bassista della band, se n’è andato invece nel 1993, perché non ce la faceva più a prendere aerei: «Ho deciso di dedicarmi alla famiglia, volevo stare con loro e non volevo più viaggiare in giro per il mondo». Anche Wyman ha suonato con gli Stones l’anno scorso alla O2 Arena, ma non è rimasto soddisfatto: «Le mie tre figlie teenager mi hanno visto con gli Stones per la prima volta, è stato un momento speciale. Ma è durato solo cinque minuti. Per questo non sono andato in America. Perché avrei dovuto? Per fare due canzoni in tre concerti? Mi sono reso conto che dopo tanti anni non si può tornare indietro. I ritrovi tra compagni di scuola, le ex fidanzate, i tentativi di riprovare con la tua ex moglie, sono tutte cose che non funzionano. In una band è lo stesso».
Anche per chi non ha mai lasciato gli Stones le cose non sono andate sempre bene. Keith Richards ha avuto problemi con la droga, seguiti da anni di dipendenza dall’alcol. Al momento ci sta andando piano: «Ma rimanere sobrio sarebbe abbastanza innaturale per me, non trovi? Tutto con moderazione, come si suol dire. È quando ti dimentichi di questo vecchio detto che le cose si mettono male».
Nel 2006 è caduto da un albero alle isole Fiji e ha subito un trauma cranico piuttosto serio. Da allora prende medicine tutti i giorni. Ron Wood si è rotto una gamba in un incidente d’auto nel 1990: «Devo stare attento a non stare troppo in piedi», dice. Ha anche smesso con le droghe e l’alcol, da un giorno con l’altro. E non ha mai suonato meglio in vita sua: «È una specie di magia. Essere lucido mi ha ridato sicurezza. Suono meno di prima, mi sembra che quello che faccio abbia più significato. È un bel risultato. Me ne rendo conto soprattutto per quanto riguarda il mio rapporto con Keith. Ora, invece, cerchiamo di capirci e di chiarire tutto, prima quando eravamo strafatti giravamo la testa dall’altra parte e ci pensavamo dopo». Persino Charlie Watts, il più meritevole di grazia degli Stones, ha avuto problemi di droga: «Ho usato l’eroina per un po’», ha detto in un’intervista nel 2011. «Smettevo ogni volta che tornavo a casa. Ma ogni volta mia moglie si accorgeva che ero diverso».
Nel 2004 gli hanno diagnosticato un cancro alla gola ed è stato operato due volte. Oggi ha 71 anni ed è quello che lavora più di tutti. In un concerto di due ore e mezza, ci sono momenti in cui Jagger può stare fermo davanti al microfono a suonare l’acustica o prendersi una pausa, mentre Keith Richards canta i suoi due pezzi in scaletta. Charlie non può fermarsi mai: «È il destino del batterista. Non c’è niente di peggio che ritrovarti senza fiato o con le mani distrutte a metà del concerto».
Mick Jagger è l’unico che non ha avuto problemi di salute o crisi particolari, a parte quelle con le donne: il suo matrimonio con Bianca Jagger è finito nel 1979 e la sua relazione con Jerry Hall è finita dopo 22 anni nel 1999. Tutto questo per dire che la vita dei Rolling Stones ha avuto un prezzo da pagare, anche se non equamente distribuito. Ma non abbastanza alto da far desistere loro o il loro pubblico. «Perché i Rolling Stones sono durati così tanto?», dice Jagger. «Perché hanno successo e piacciono al pubblico. Noi amiamo suonare, ma se nessuno ci venisse a vedere avremmo già smesso. Però, vedi, se mi chiedi cosa rappresentiamo per un pubblico che tra l’altro è cambiato nel corso degli anni, ti rispondo che non lo so. Credo che la nostra longevità aumenti il nostro fascino. È uno strato che si deposita sopra, la patina del tempo su un mobile antico. Essere in giro da 50 anni ti dà una brillantezza diversa. Ma può essere uno svantaggio, rischi di farci troppo affidamento, sai?».
Per una volta Jagger sta esagerando. Il 27 aprile 2013 i Rolling Stones suonano a sorpresa in un club di Los Angeles, l’Echoplex di Echo Park. È stato annunciato solo poche ore prima e tra le 500 persone che riescono a entrare ci sono ragazzi giovani e gente di 50 anni.
I Rolling Stones fanno affidamento solo sul loro talento e sulla loro voglia. Due cose che non gli mancano. Sono rumorosi e grezzi, la chitarra di Richards è minacciosa ed eterna. Jagger cambia espressione di continuo e, anche se ha cantato queste canzoni innumerevoli volte, le interpreta come se le scoprisse per la prima volta, disperate, gioiose o definitive. Keith smette di suonare per un momento, lo guarda e scuote la testa con un sorriso di ammirazione.
Qualche giorno prima del concerto, io e Richards abbiamo parlato della reunion degli Everly Brothers nel 1983 alla Royal Albert Hall di Londra. Notoriamente i due fratelli non andavano d’accordo e non dividevano il palco da almeno dieci anni, ma a un certo punto, mentre cantavano Let It Be Me, Phil Everly ha fatto un passo indietro, ha guardato suo fratello Don che cantava meravigliosamente e gli ha rivolto uno sguardo pieno di amore incondizionato.
«Conoscono quella sensazione», mi ha detto Richards. «Io e Mick ci arriviamo attraverso la musica. Ci sono momenti in cui dici: “Dio mio, quanto ti voglio bene!”. Sul palco succede spesso, lo guardo e ancora oggi rimango sbalordito. Mi sembra di diventare uno del pubblico, devo stare attento perché quando tira fuori il meglio di sé mi sorprende sempre. È uno dei motivi per cui sono qui».
Charlie Watts ha detto una cosa simile: «Adesso che non ci sono più Michael Jackson e James Brown, Mick è il miglior frontman del mondo. Sul palco è il numero uno. Si impegna al massimo, è in ottima forma, è fantastico, ha tutto quello che serve».
Il bis di stasera, Jumpin’ Jack Flash, è una conferma. Nel 1968 questo pezzo ha trasformato il rock&roll; prima era un insieme di idealismo e ingenuità fatto di canzoni come All You Need Is Love dei Beatles che ci facevano credere che la speranza e l’altruismo bastassero a bilanciare il caos e il pericolo del mondo, poi è arrivata Jumpin’ Jack Flash a parlarci di emarginati e gente perduta che trovava la forza di andare avanti.
Sul palco dell’Echoplex, Jagger interpreta il suo credo puntandosi un dito contro la tempia mentre canta: “Sono stato incoronato con un chiodo che mi trapassava la testa”. Sembra sul punto di cadere morto stecchito. Poi saltella, scuote i fianchi, cammina con aria spavalda verso il centro del palco e proclama: “Ma ora è tutto a posto, in effetti è uno spasso. È tutto a posto, sono Jumpin Jack Flash. È uno spasso! Spasso! Spasso!”. È il ritratto estatico, cattivo e amorevole di un uomo che è sceso all’inferno e poi è tornato indietro. È sempre stato questo il fine ultimo della musica dei Rolling Stones. Il blues è nato per far sopportare l’insopportabile, tra cui il piacere, e tutto quello che le persone fanno a se stesse e agli altri. La musica dei Rolling Stones parla di questo, e anche di come superare la storia, compresa la loro stessa storia. È il modo in cui gli Stones hanno attraversato il tempo e non è un cattivo esempio: a volte non c’è soluzione, dobbiamo semplicemente aiutarci l’uno con l’altro.
Keith Richards mi ha descritto quello che sente nella musica di Robert Johnson, il bluesman del Delta degli anni ’30: «La paura. Quando hai visto la paura in faccia vuoi dire a tutti che si può affrontare. È inutile ignorarla. Anche noi lo abbiamo fatto, per esempio in Gimme Shelter. La paura è un elemento vitale, un’emozione come le altre da usare per scrivere una canzone. Capisci cosa voglio dire? Si può dire che noi raschiamo il fondo di ogni emozione».