A New York, più precisamente a Greenwich, dove vive, sono le 11 di mattina di un’ennesima giornata di quarantena causa coronavirus, ma la voce di Rose Villain risulta allegra e squillante, in netto contrasto con il personaggio un po’ inquietante in cui si trasforma ogni volta che è sul palco, in studio o davanti all’obbiettivo. Nata e cresciuta a Milano, vive da ormai undici anni in America dove ha mosso i primi passi nell’industria discografica arrivando a un passo dal diventare una pop star internazionale, per certi versi anticipando l’ondata di cantanti dall’estetica dark e fuori dai canoni che sta dominando il panorama attuale. «Sono una persona molto solare, ma nella mia arte c’è questa vena un po’ oscura che prende il sopravvento: di solito nella vita di tutti i giorni tendo a sopprimerla», racconta. È una fanatica dei film di Tarantino, Fincher, Kubrick, Hitchcock, e ha un debole per i serial killer, tant’è che per un breve periodo ha studiato anche criminologia. «Ho mollato quasi subito, però: nella vita ho sempre voluto fare musica», ride. «Non ho mai avuto un piano B nella vita, fin da piccola ho detto ai miei genitori che finito il liceo mi sarei dedicata a tempo pieno a questo. Per fortuna mi hanno sempre supportato».
Rose Villain (all’anagrafe Rosa Luini, classe 1989) cresce ascoltando i cantautori italiani che ascolta a casa con sua madre e i generi ribelli per eccellenza, il rock e il rap. Comincia a studiare canto a 10 anni, dopo anni di lezioni di danza e recitazione, frequentando alcuni stage estivi all’estero con celebri insegnanti americani, «per imparare a cantare in inglese il meglio possibile». Terminate le superiori si trasferisce a Los Angeles per frequentare il conservatorio, dove si specializza in rock, e dopo due anni si sposta a New York per studiare musical. In California canta in una piccola band punk che fa cover, i Villains, ma quando arriva nella Grande Mela comincia a lavorare a canzoni originali per un progetto tutto suo. «Quando ho iniziato a scrivere, mi è venuto spontaneo puntare sulla musica urban», spiega. «Amo molto i contrasti, nel sound e nell’immagine, ed è un genere che si presta molto bene a tutto questo». La città senz’altro brulica di possibilità, ma anche di concorrenza. La cosa, però, non la spaventa. «Sono ipercompetitiva anche io e credo tantissimo in ciò che faccio», dice con tranquillità. «Venire in America mi ha aiutato a fare un salto di qualità: ho dovuto per forza alzare il livello, perché altrimenti non sarei riuscita a farmi prendere sul serio da nessuno, qui».
In breve trova un management che crede in lei e che comincia a farla partecipare a delle sessioni di songwriting con altri autori e produttori, per sviluppare materiale per un potenziale album. E qui il destino ci mette una mano, come in una favola. «Un giorno sono arrivata in studio a New York e ho scoperto che per quella session mi avevano abbinato a un produttore di cui non avevo mai sentito parlare, un certo Andy. A lui mi hanno presentato come Rose, quindi entrambi eravamo convinti che l’altro fosse americano. A quel punto abbiamo scoperto che in realtà eravamo entrambi di Milano, che quando ancora vivevamo lì abitavamo a pochi metri di distanza e che avevamo tantissimi amici in comune. Pazzesco».
Andy, o meglio Andrea Ferrara, è SIXPM, produttore ed ex membro del pluripremiato team 2nd Roof, che ha firmato una larga fetta delle hit rap degli ultimi dieci anni. I due cominciano subito a collaborare, e in breve si innamorano, diventando una coppia anche nella vita. «Nel privato siamo estremamente legati e affettuosi, e non litighiamo mai. Sul lavoro, però, tutti e due siamo molto perfezionisti e critici, e pretendiamo il massimo l’uno dall’altra, il che può essere stressante», ride. «Si può dire che siamo in una quarantena perenne: viviamo insieme e abbiamo lo studio in casa, quindi ogni giorno è una vera e propria full immersion». Un giorno, tornati a Milano per le vacanze, fanno ascoltare per caso a Slait, uno dei fondatori di Machete, alcuni provini di Rose. «Abbiamo subito trovato una grande sinergia tra di noi, così ci è venuto spontaneo cominciare a fare musica insieme».
Oltre a collaborare per il brano di Salmo Don Medellín, insieme a Machete Rose Villain pubblica anche un singolo a suo nome, Get the Fuck Out of My Pool. «Ricorderò per sempre il giorno in cui è uscito il video», racconta. «Ero a Milano, era il mio compleanno, e all’improvviso ho ricevuto una chiamata da New York. Era un discografico di Republic Records: mi diceva che aveva sentito la mia musica e voleva conoscermi, e se per favore potevo tornare a New York al più presto». Nel giro di poche settimane, Rose diventa la prima artista italiana a firmare direttamente con Republic, la stessa etichetta di Ariana Grande, Florence + the Machine, Taylor Swift, Post Malone e tanti altri. Ma questa volta la favola non è a lieto fine. «Da una parte è stato incredibile: mi invitavano nei backstage o alle feste più esclusive, come l’afterparty degli MTV Video Music Awards, dove magari mi trovavo seduta vicino a superstar come Shawn Mendes». Dal punto di vista musicale, però, viene assegnata a un A&R vecchia scuola che vorrebbe cambiare il suo progetto. «Mi chiedeva di abbandonare la vena dark e trasformarmi in una pop star per ragazzine. Non faceva proprio per me. Ho capito che un musicista dovrebbe pensare prima all’arte, sempre: le persone giuste per veicolarla arriveranno strada facendo».
E difatti finalmente arrivano, stavolta da questa sponda dell’Atlantico, dove nel frattempo Slait è stato meritatamente promosso a direttore artistico di Arista Records, un’etichetta di casa Sony. Rose Villain entra nel roster della label e, colpo di scena, dopo anni di brani in inglese comincia a scrivere in italiano, inizialmente per via di un misterioso e importante featuring che ancora non può essere annunciato. «Visto che il risultato ci soddisfava, abbiamo pensato di sfruttare il momento e di provare a prendere questa direzione», spiega. «Sono molto contenta di averlo fatto, perché scrivendo in italiano mi sono usciti alcuni tra i miei pezzi preferiti di sempre. Non è stato facile, però: è più faticoso risultare credibili nella propria lingua, e di fatto ho dovuto reimparare a cantare, perché l’italiano è pieno di vocali aperte, e quindi l’impostazione della voce è completamente diversa rispetto all’inglese». Il risultato, però, è ottimo: prima con Bundy e poi con Il diavolo piange (l’ultimo singolo uscito, appena qualche giorno fa) riesce a fare emergere gli aspetti della sua creatività che le stanno a cuore, con un piglio insolito e assolutamente rinfrescante che le deriva dal suo particolarissimo background. «Abbiamo già molte altre canzoni in cantiere», svela. «Spero davvero di potervele fare ascoltare presto. È un buon momento per le artiste urban, sia in Italia che all’estero. Credo che siamo finalmente pronte per fare il culo ai maschietti».