Pantaloncini, maglietta e occhi verdi perforanti, Rufus Wainwright mi accoglie nella casa a Laurel Canyon, a due passi dall’Hollywood Bowl. Nel salotto ci sono un pianoforte, un camino acceso, una pelle d’orso come tappeto e un altro orso imbalsamato alto due metri con indosso una tiara. Mi spiega che gli animali sono una passione del marito, e anche a Viva, la figlia di 9 anni concepita con l’aiuto dell’amica d’infanzia Lorca Cohen (figlia di Leonard), «piacciono davvero tanto». La tiara è invece un souvenir da Prima donna (2015), suo debutto nell’opera, un genere che ha perseguito anche con Hadrian. «Ero così ingenuo da credere che il mondo dell’opera fosse un castello fatato. Invece l’ho trovato brutale e snob». Le nuove canzoni di Unfollow the Rules, il nono album in uscita il 10 luglio, nascerebbero proprio come antidoto da quell’esperienza. «Durante le complesse, interminabili prove per l’opera, oppure quando mi capitava di leggere recensioni terribili, scrivere canzoni è diventata la mia arma di difesa e una valvola di sfogo».
Figlio delle leggende folk Loudon Wainwright III e Kate McGarrigle, fratello della cantautrice Martha Wainwright, per Rufus comporre musica è cosa facile almeno quanto respirare. «Unfollow the Rules è la rappresentazione onesta di chi sono realmente a questo punto della vita» sostiene l’artista canadese-americano, che a 46 anni ha già celebrato il 20esimo anniversario di carriera. «Tutto è iniziato a Los Angeles, la prima città che mi ha davvero accettato. E con quest’album chiudo un cerchio, perché solo quando sono tornato a vivere qui quattro anni fa ho capito che avrei voluto fare uno di quei bei dischi di una volta, da cantautore vecchia scuola».
È così che ti senti, un songwriter d’altri tempi?
Sento di essere tornato a Los Angeles per rivendicare un’eredità a cui ho lavorato molto per mantenere. Non mi sento ancora vecchio, però mi sto allenando. Sto per entrare in quello che mi piace definire il secondo atto di vita, qualsiasi cosa significhi. Ma se guardo indietro, amo tutti gli album realizzati finora.
Definirlo un disco pop è limitante: lo spettro sonoro di Unfollow the Rules è molto vario.
Per questo devo ringraziare Mitchell Froom; negli anni ho conosciuto tanti produttori ma con lui l’intesa è stata immediata. Gli ho consegnato una quarantina di canzoni e gli ho chiesto di fare una cernita. Lui è stato molto gentile e rispettoso, è un grande fan della, chiamiamola, “rufusità”, cioè della mia personalità romantica, opulenta e teatrale. Però ha insistito perché il suono avesse una certa chiarezza; non voleva che la produzione offuscasse le canzoni ma che queste funzionassero da sole.
Questo si può fare solo quando si lavora con melodie potenti…
È vero, ma l’elemento della chiarezza è stato fondamentale. Le spiego. Per anni quando dovevo realizzare un album avrei chiamato un chitarrista famoso e insieme avremmo provato 8000 cose diverse. A volte avremmo raddoppiato le tracce, tagliato qui e là e usato altri escamotage. Ma con Mitchell è stato molto diverso: registravamo un assolo e spesso era buona la prima, senza che dovessimo tornare indietro ad aggiustare le cose. È un approccio diretto e comporta un modo di lavorare molto preciso. Per me ha senso: la riuscita di un disco non dovrebbe dipendere da quanto uno può permettersi di spendere in studio.
Però hai lo stesso potuto contare su musicisti fuoriclasse come Jim Keltner, Matt Chamberlain e Blake Mills…
È vero, ho avuto un cast eccezionale, sono amici di Mitchell e anche lui suona molto in questo disco. Abbiamo potuto utilizzare anche il talento di Rob Moose che non solo ha scritto gli arrangiamenti di tutta la sezione d’archi, ma l’ha pure suonata da solo, così abbiamo risparmiato sull’orchestra. È così che funziona il mondo d’oggi, ci sono pochi soldi e dobbiamo abituarci a pensare diversamente. Quest’album l’ho finanziato da solo e in seguito ho firmato il contratto con la BMG. Mi stavo inconsciamente preparando ai tempi duri del coronavirus! Non possiamo più spendere i soldi di una volta e mi va bene così: è un atteggiamento che fa emergere il meglio di te.
Di certo è un approccio drasticamente diverso da quello del tuo precedente lavoro pop, Out of the Game, realizzato con Mark Ronson.
Con Mark ci siamo divertiti un mondo a farlo, ma col senno di poi sono stato ingenuo a pensare che con il suo aiuto sarei diventato una grande star. Lui ha quel potere sui musicisti, fa degli strani incantesimi sugli artisti che produce, crea un’atmosfera eccitante, piena di glamour. A volte funziona, altre no. Adoro Mark, è un caro amico, ma forse mi ero fatto prendere troppo dal suo personaggio e non credo che Out of the Game mi rappresentasse veramente. Tra l’altro l’ho registrato subito dopo la morte di mia madre, quando facevo finta che non fosse accaduto nulla: è un disco nato da uno stato di negazione.
Nel nuovo brano My Little You menzioni il Conservatorio musicale Luigi Cherubini di Firenze, come mai?
Ti confesso che la prima volta che l’ho cantato, ho sbagliato la pronuncia: non sono mica perfetto! Se ne è accorto mio marito e sono tornato in studio per aggiustarlo. Se cito il conservatorio è perché ho “tecnicamente” concepito mia figlia quando ci ho suonato. Lì c’è anche un camerino che per un periodo Maria Callas ha usato spesso e mi sembrava fosse di buon auspicio.
Scrivere musica ti viene facile, dove stanno dunque le difficoltà?
I testi sono il mio punto debole. Ma stavolta sento di avere avuto idee interessanti e sono finalmente soddisfatto. Scrivere i testi per me è sempre stata un’agonia e mi prende parecchio tempo, soprattutto perché mi rendo conto che le parole delle canzoni di oggi fanno davvero schifo. Mi spiace ma è così. Esistono produzioni interessanti, ma i testi rischiano grosso nel cantautorato attuale.
Perché hai deciso di tornare a vivere a Los Angeles?
Stavo facendo una crociera di lusso lungo le coste del Vietnam con alcuni amici tra cui Chrissie Hynde, cosa che con ogni probabilità non mi potrò mai più permettere. Abbiamo parlato a lungo di dove sarei potuto andare a vivere e Chrissie mi disse che non avevo scelta: dovevo tornare a Los Angeles dove viveva mia figlia. Non che volessi starle lontano, ma mio marito lavorava molto a Toronto e New York e noi artisti abbiamo sempre la testa fra le nuvole. Divido la custodia di mia figlia con la madre Lorca che appunto vive a L.A. Insomma, da quella conversazione non ho più avuto dubbi su dove dovessi stabilirmi, ovvero a fianco di mia figlia, soprattutto allora che cominciava a crescere e comunicare, e aveva bisogno di tutta la sua famiglia.
Lo scorso anno hai festeggiato i 20 anni di carriera con un tour. Cantare i vecchi brani ti ha portato qualche epifania?
Ho capito di poter far conto su un materiale davvero buono, ma riascoltando le vecchie registrazioni, soprattutto i live, mi sono reso conto che la mia voce non funzionava ogni volta come avrebbe dovuto. E quando durante il tour ho cantato con la voce di oggi i brani di allora, mi sono divertito un mondo. Penso mi abbiano aiutato anche gli spettacoli in omaggio a Judy Garland alla Carnegie Hall, quando mi sono dovuto concentrare molto sulla respirazione, la pronuncia, il tono. Ora sento di avere perfezionato l’arte del canto, credo di avere più potenza. Non lo dico peccando di ego, ma da fan dell’opera quale sono, è ciò che tradizionalmente succede: i cantanti raggiungono il loro apice durante i qurant’anni, solo allora si lanciano con l’Otello, Tristano e tutto il resto.
A proposito, cosa ti ha insegnato la tua esperienza nel mondo dell’opera?
Non credo di avere conquistato l’opera, tuttavia è stato un successo perché ci sono compagnie che continuano a portare in giro i miei lavori e cantanti lirici che vogliono eseguirli. Potermici dedicare al 100% è stata una buona esperienza sia dal punto di vista artistico che personale perché è un genere che da sempre esercita un’enorme influenza su di me e sulla mia immaginazione musicale. Detto ciò, dopo qualche anno ho capito che la mia vera professione è quella del cantautore: mi viene in maniera così naturale, come fosse un terzo occhio. Guardo il mondo attraverso una canzone. È una tradizione di famiglia e il detour nel mondo dell’opera mi ha fatto rivalutare il posto da cui provengo.
Cosa significa crescere in una famiglia di musicisti?
Per me è stato di grande aiuto. Quando sono arrivato a Los Angeles 20 anni fa, ho conosciuto molti figli di musicisti famosi come Sean Lennon, Harper Simon, Chris Stills e altri. Ammetto di essermi sentito un po’ in colpa perché sono stato accettato da quel gruppo nonostante i miei genitori non fossero superstar, anche se erano molto rispettati e conosciuti tra gli addetti ai lavori. Ma ho avuto la fortuna di non dovere mai fare i conti con il peso di un cognome ingombrante. È stato proprio Sean Lennon che mi ha portato con sé in tour per promuovere il mio primo album: ricordo le file interminabili di fan dopo lo show con in mano gli album dei Beatles da autografare.
Leonard Cohen era il nonno di tua figlia. Ti è mai capitato di riflettere con lui sul ruolo del cantautore?
Leonard manteneva una certa distanza da chiunque, faceva parte del suo mistero. Bisogna essere sempre molto rispettosi nei suoi confronti e non perché fosse cattivo o altro, al contrario era una persona molto sensibile. C’è voluto molto tempo e lavoro perché Leonard Cohen divenisse Leonard Cohen. Oggi ricordo i momenti che abbiamo avuto insieme come molto profondi e intensi. Non parlavamo necessariamente di musica, ma una volta abbiamo ascoltato un mio album insieme: aveva gli occhi chiusi ed era assorto e per me quello è stato già tantissimo. E quando ho pubblicato la mia prima opera Prima donna era davvero orgoglioso di me, era rimasto molto colpito. Mi ha detto: “Rufus, dovresti essere felice di quello che hai fatto”. Leonard ci ha anche aiutato molto i primi anni con la bimba, quando stavamo ancora cercando di capire come organizzarci per crescerla. Quando mia madre morì, lui era già malato, aveva quasi 80 anni e mi disse una cosa che mi è stata di grande aiuto: “Sai Rufus, anche io ero molto vicino a mia madre, ma ora la sento più vicina che mai. Viene spesso a trovarmi”. Mi diceva piccole grandi cose del genere, avevamo un bellissimo rapporto, ma credo fosse in parte perché non lo forzavo in nulla. Non ho mai voluto conoscere i suoi segreti o costringerlo a darmi una sua opinione.
La paternità ha influenzato il tuo modo di scrivere?
Sicuramente. Scrivo sempre di ciò che mi accade nella vita. È buffo perché se penso a Randy Newman, uno dei miei cantautori preferiti, non ha mai scritto di sé, eppure ha creato le più belle canzoni di sempre. Quando l’ho scoperto sono rimasto scioccato e forse anche un po’ triste perché è un metodo così diverso dal mio. Ma non ho altra scelta che continuare per la mia via, terribilmente personale. Forse è una strada difficoltosa perché in qualche modo coinvolge anche altre persone, ma è quella che conosco e la stessa intrapresa dai miei genitori e mia sorella. Così sia: benvenuto mondo reale.