Il racconto dei rapper, il loro storytelling per essere più precisi, tende spesso a omologarsi lungo coordinate temporali scandite da singoli e album: un’infanzia difficile, povertà e problemi con la legge, il riscatto attraverso la musica, il successo, i soldi, il conflitto tra il presente e il passato, l’incertezza del futuro. Tocca quindi, per distinguersi ed emergere, lavorare sui dettagli e cucirsi un’identità riconoscibile, soprattutto se si fa parte di un collettivo – quello milanese della crew Seven 7oo – in cui gli altri artisti, Neima Ezza e Rondodasosa hanno già raggiunto popolarità e classifica.
È il caso di Sacky, pseudonimo di Sami Abou El Hassan, che col nuovo album Balordo celebra il suo percorso di redenzione con una sceneggiatura in rima, un dramedy motivazionale in cui il “buono”, in questo caso il protagonista Sacky, affrontando una serie di avversità e alla fine vince.
Ha da poche ore annunciato sui social il suo prossimo live ai Magazzini Generali di Milano il 2 maggio con un video in cui ricorda come i concerti da ragazzino li avesse sempre visti da un’altra prospettiva, fuori e non dal privè, arrivando con il camion scassato di suo padre per vendere merchandise contraffatto e ora invece ci arriverà su un’auto sportiva. Sarebbe già un buon inizio per un film, no? Naturalmente tratto da una storia vera, quella che Sacky mi riassume durante la nostra intervista e che dà il titolo all’album: «Balordo nasce come parola dispregiativa ma io e i miei amici gli abbiamo sempre dato una connotazione positiva: il balordo è chi aiuta il prossimo, le persone del quartiere, uno da ammirare insomma. Un mio amico ha regalato delle tute ai suoi altri amici in carcere? Quella è una balordia».
Gli chiedo subito se sono balordie quindi anche le attività di sostegno al quartiere che Sacky organizza insieme a don Claudio Burgio e Elisabetta Andreis della comunità Kayros, a cui il rapper ha dedicato anche un pezzo, dopo essere passato da ospite della struttura sociale a sostenitore. «Sì. Diamo un aiuto a qualcun altro, quindi è una balordia. Quando ero in comunità parlavo spesso a Don Claudio dei ragazzi della mia zona perché dove sono nato non ci sono mai stati dei riferimenti, un’associazione che fosse presente. Un giorno è venuto con me a San Siro e abbiamo avuto l’idea di creare qualcosa che potesse aiutare questi ragazzi con corsi di musica, o per prendere la patente, fare i compiti di scuola, giocare a calcio».
Un po’ un ritorno alle origini dell’hip hop, cinquant’anni fa, Afrika Bambaataa e la sua Zulu Nation, con la speranza che qualcosa nel quartiere cambi: «Non è cambiato nulla. Noi abbiamo fatto venire a galla una realtà che fa schifo ma stiamo ancora aspettando fiduciosi che qualcuno faccia qualcosa per il degrado del quartiere».
Per ora ci sono solo telecamere in più, quelle dei talk show che cercano lo share nel degrado delle periferie, delle baby gang, della delinquenza: «Non tutti i giornalisti fanno bene il loro mestiere. Avranno le loro motivazioni, forse lo scopo è solo fare numeri. I loro servizi funzionano perché nei commenti un sacco di ragazzi scrivono “ma che cazzo state dicendo?”. Ma più commenti ci sono e più loro continuano a fare questi servizi». Di sicuro le telecamere di questi talk non darebbero spazio ai messaggi “buoni” di Sacky come quello, sempre via social, in occasione dell’uscita del suo album in concomitanza con l’inizio del Ramadan, in cui invitava i fan a silenziare il suo profilo: «Il Ramadan è un mese in cui bisogna cercare di essere la persona più pura possibile per dedicarsi alla religione e a Dio. Ci vuole purezza, non si possono vedere donne nude, o ascoltare musica, soprattutto durante il digiuno diurno, perché distraggono dalla preghiera e sarebbe un reato. Perciò ho invitato tutti i musulmani a silenziare il mio profilo perché ci sarebbero state tutte queste cose che ti ho detto, con lo scopo di promuovere il mio disco. Io lo seguo, cerco di essere un buon musulmano, ma ci sono cose come la promozione da cui non mi posso astenere».
Un’altra scena del film di Sacky è il suo arrivo al liceo Galileo Galilei di San Siro per promuovere il disco con un giornalino creato ad hoc: «Qualche anno fa ero uno di quei ragazzi quindi mi sarebbe sempre piaciuto un sacco che il mio artista preferito venisse a fare un’iniziativa fuori dalla mia scuola. Ho pensato a cosa avrebbero voluto i miei fan, è la scuola della mia zona, sono uno di loro».
L’identità positiva di Sacky, sempre mixata con un’alta percentuale di street rap, traspare anche dal pezzo dedicato alla madre (immancabile in ogni album delle nuove generazioni hip hop): «Le nostre madri sono donne immigrate straniere che hanno passato una vita in un posto che non era il loro, affrontando ostacoli e subendo ingiustizie, trovando sempre la forza per prendersi cura di noi. E adesso dobbiamo ricambiare perché la generazione prima della nostra – che magari faceva fatica a esprimersi e parlare in italiano – ha affrontato molte più difficoltà di noi». C’è anche nel disco il tentativo di parlare di se stessi – attraverso tappe sentimentali di vita come La prima volta e Le donne – cercando di smarcarsi dal machismo che spesso caratterizza il rap: «Avevo paura di cadere nel cliché del maschilismo, invece sono riuscito a trovare un modo personale di elogiare le donne. E infatti è un pezzo che ascoltano più le ragazze dei ragazzi. Non è scontato in un mondo oggi dove i rapper sono visti un po’ come scacciafighe».
Ma se l’obiettivo, come per artisti suoi coetanei, è sempre quello di «dare una vita serena alla mia famiglia senza la paura di tornare povero» il percorso per raggiungerlo è tutto suo, dalla scelta non convenzionale dei featuring – oltre agli amici Rondo e Baby, ci sono anche Luché e gli Slings – alla ricerca di collaborazioni internazionali, come quella col francese Lacrim: «Ci siamo conosciuti su Instagram. Ho visto nelle story lui che ascoltava la mia Bimbi soldato e muoveva il labiale cantando. Gli ho scritto e gli ho chiesto subito, con una gran faccia tosta, una collaborazione. Lui è stato gentilissimo, mi ha sempre trattato come un nipote e quindi adesso quando lo sento lo chiamo zio».
Ecco Sacky, il nipote balordo, in senso positivo, pronto a scrivere ancora molte scene del suo film, ispirandosi a Gué («mi sono ritrovato nella sua musica, non ce n’è uno migliore») e inseguendo sempre il sogno di libertà e rivincita che è quello di tantissimi suoi coetanei.