Sam Smith sentiva tutta la pressione. In The Lonely Hour, il suo debutto del 2014, è uno degli album più venduti del decennio (12,5 milioni di copie), e gli ha fruttato ben quattro Grammy Awards. È stato subito etichettato come l’Adele-maschio e si è ritrovato, nel giro di un paio d’anni, a suonare nelle arene di tutto il mondo. All’inizio del 2016, però, è tornato a Londra creativamente paralizzato.
«I primi due mesi sono stati davvero difficili», dice. Non riusciva a scrivere nemmeno di sé stesso, e «ho capito di non piacermi granché». Passava la maggior parte delle sue serate a bere, «e quando bevi un sacco, quando sei sempre in giro, le giornate successive non sono mai uno spasso. E quando sei ipersensibile come me, è un modo di vivere pericoloso».
Alla fine è riuscito a incanalare tutta questa oscurità nel suo secondo album, The Thrill of It All, in uscita quest’autunno. È un’espansione del neo-soul del debutto, certo, ma tematicamente più ampio: insieme alle solite breakup songs ci sono storie di religione, di ansia e di scoperta della propria sessualità. Il suo timbro da tenore è sempre impressionante, ma non è mai suonato così malandato (“I’ve been smoking … more than 20 a day”, canta in uno dei brani).
«In the Lonely Hour ha un suono grazioso», dice. «Ma non voglio fare la stessa cosa con il nuovo album. Voglio che The Thrill of It All sia più crudo. Voglio che suoni invecchiato, fuori posto. In The Lonely Hour è un gin tonic con gli amici. Il seguito è un whiskey bevuto a luci spente, in quelle stanze dove ti ritrovi a pensare alla tua vita. Mi sono avventurato in un posto oscuro. Non credo che ci tornerò mai, perché sono sceso davvero in profondità».
Smith racconta che il grande successo di Stay With Me, la mega-hit del 2014, l’ha «spaventato a morte». Si è allontanato dalla famiglia e dagli amici, «riuscivo a vedere mia madre solo dopo i concerti, ecco a che punto sono arrivato». In tour ha preso molto peso: «di solito chi firma un contratto discografico spende i suoi soldi per comprarsi un sacco di roba. Io li ho spesi tutti in formaggio».
Nel 2016 ha vinto un Oscar per Writing’s on the Wall, la canzone scritta per il film Spectre. La sua esibizione durante la cerimonia degli Oscar l’ha frustrato («il peggior momento della mia vita»), ed è stato duramente attaccato online dopo aver dichiarato di essere il primo uomo apertamente gay a vincere il premio. Da quel momento in poi ha evitato le luci della ribalta e si è trasferito a casa della sorella minore, a Londra, per scrivere il nuovo album.
Ho capito che sprofondare nella mia oscurità è stata una scelta giusta
Si è rimesso in forma, una combinazione di dieta e palestra che segue ancora regolarmente, «non mi piace per niente, ma mi costringo a farlo», dice. Ha anche trovato il tempo per costruire una relazione, ma dopo sei mesi si è reso conto che non era pronto. «Lui è la persona più adorabile del mondo», racconta. «Ma non ero abbastanza. Ed è OK. Uscire da quella storia mi ha fatto capire che ho ancora parecchia strada da fare, devo imparare ad amare me stesso».
Con il tempo, e con l’aiuto del produttore Jimmy Napes (con cui aveva già lavorato a In The Lonely Hour), Smith ha superato la paralisi delle prime session. Ha scritto pezzi come Burning e il singolo Too Good at Goodbyes, tutti e due dedicati al peso di una relazione spezzata. Racconta che andava in studio verso mezzogiorno, e continuava a lavorare fino a notte fonda. «Poi uscivo con i miei amici, il classico gay-clubbing londinese».
Il suo umore si è rasserenato, e lo stesso è successo alla sua musica. Un paio di brani, come Baby You Make Me Crazy, sono inequivocabilmente allegri, un soul con lo sguardo rivolto verso gli anni ’60. «Quando leggerai il testo, però», spiega Smith, «ti renderai conto che sono canzoni disperate, tristi. La chiamo “dance and cry music”, e la amo». Smith definisce le session come la sua terapia. «Raccontano di come ho imparato ad amare me stesso». Adesso non esce più così tanto, deve prepararsi a un tour che lo terrà lontano da casa per due anni. «Voglio suonare al massimo della forma», dice.
A settembre ha pubblicato Too Good at Goodbyes, il suo singolo più essenziale. È entrato subito nei primi cinque posti di tutte le classifiche, registrando più di 110milioni di stream solo su Spotify. Quando parla di come si è sentito leggendo le recensioni (positive), la sua voce trema, è emozionato. «Ho pianto come un bambino, la pubblicazione del pezzo mi terrorizzava», dice. «L’accoglienza che ha ricevuto il singolo mi ha reso molto felice, perché ho capito che sprofondare nella mia oscurità è stata una scelta giusta. Ne valeva la pena».