Samuele Bersani è tornato. Sono trascorsi sette anni dal suo ultimo Nuvola numero 9, dedicato al suo maestro primo e assoluto Lucio Dalla. Superati i 50 anni, Bersani pubblica un album, Cinema Samuele, che mette a fuoco come mai prima d’ora quella che da sempre è una visione cinematografica della canzone italiana, costruita per immagini quando non vere e proprie piccole sceneggiature dove sta all’ascoltatore la deduzione dell’emozione e a lui, che scrive, una sorta di vera e propria, magica, narrazione.
In sette anni sono successe tante cose, il passato finalmente è passato, l’amore ha ceduto il passo alla fine che ha ceduto il passo, a sua volta, a un momento di vuoto creativo e, infine, a questo gioiello: un disco ricco, completamente distante dal mordi e fuggi della grande parte delle nuove produzioni discografiche nostrane, un disco – come sempre nel caso di questo autore – da ascoltare davvero, anche nelle sue venature più complesse e stratificate e, soprattutto, il disco che restituisce all’Italia del 2020, gran parte del senso di una parola tanto antica, quanto spesso abusata e bistrattata: cantautore.
Con Samuele ne abbiamo parlato a Milano, con le nostre mascherine, un po’ di hangover ereditati dalla notte precedente, tanta voglia di guardarsi negli occhi e parlarci davvero… come si faceva una volta.
Allora, come stai?
Bene, è proprio un momento felice, il disco è uscito da pochi giorni e ho ricevuto veramente un bagno di affetto incredibile e poi c’è sempre quella cosa per cui fino a poco fa queste canzoni le sentivo solo io, a casa, è una bella sorpresa sempre quando smettono di essere solo tue e vanno dalla gente.
Ti fa ancora effetto questa cosa?
Sì, assolutamente, come quando vado in TV e mi fa effetto il fatto di essere lì, per esempio l’altra sera ero ospite da Fabio Fazio e ho cambiato il testo del pezzo che stavo cantando; non me ne ero accorto, me lo ha fatto notare una ragazza su Instagram, a un certo punto ho detto una frase in modo diverso, non ci avevo fatto caso.
Per l’emozione immagino, non era una di quelle cose alla De Gregori in cui cambi il testo per spiazzare un po’, perché ti gira così…
Ma no figuriamoci, proprio per l’emozione, un segno chiaro della mia disabitudine eterna a tutto questo.
Esci dopo molti anni da Nuvola numero 9, hai pensato di rimandare ulteriormente vista la situazione dei concerti e in generale dello stato dell’arte dell’arte, oppure no?
Abbiamo rimandato, a gennaio abbiamo fatto una riunione, era prevista un’uscita che è stata rimandata, ho lavorato al disco per due anni e mezzo, un anno a Milano e uno a Parma, entrambi dedicati al lavoro sulle musiche e poi sei mesi in casa durante il lockdown per i testi, in partenza ho cercato di realizzare il disco a Ginostra. Insomma, era arrivato il momento di lasciarlo andare…
Tu hai sempre fatto dischi, mai troppo ravvicinati, siamo al nono lavoro in studio e il primo è del 1992: è una bella presa di libertà e ogni volta ti tocca relazionarti con un mondo (anche musicale) che nel frattempo è cambiato tantissimo.
In 28 anni non ho fatto tantissimi dischi e mi ci stai facendo ragionare ora: se facessi un disco all’anno farei fatica a mettere a fuoco le cose di cui parlare, sarebbe quasi impossibile, un po’ com’è impossibile trovarsi invecchiati guardandosi ogni giorno allo specchio. Se ti guardi allo specchio dopo tre anni, invece, è diverso. Il tempo che passa mi dà più occasioni per raccontare delle cose nuove, in più c’è il privato che in quel lasso di tempo vivi. In assoluto ho sempre fatto dei dischi quando avevo qualcosa da dire, sembra una frase fatta ma la sottolineo: ci sono dei momenti in cui io assisto, momenti in cui più che fare guardo, ascolto. Da bambino attendevo i dischi dei cantautori che amavo con molta pazienza, nel senso che anche i miei punti di riferimento facevano un disco ogni quattro, cinque, sei anni, quindi ho sempre trovato questi tempi diciamo dilatati in realtà normalissimi.
Oggi però la discografia ha cambiato completamente questi tempi…
Sì, all’epoca si poteva fare, oggi con questo refresh globale, quasi un refrash umano che stiamo vivendo è più rischioso uscire ogni tanto, diventi intermittente, sembra quasi che tu ti sia spento e faccia fatica a riaccenderti. Però questa è la mia natura. Tu parli di libertà e in effetti io mi sento poco condizionato, cerco il più possibile di rimanere proprio su questo binario di libertà senza farmi troppo influenzare dai tempi.
Probabilmente hai fatto parte di un’ultima ondata di artisti italiani che hanno conosciuto una vera discografia florida, oggi arrivi a fare un album se ti hanno prima fatto uscire 10 canzoni che i discografici vorrebbero fossero delle hit piovute dal cielo…
Sì, sai, io ho fatto praticamente parte sempre della stessa casa discografica, ero in RCA che poi è diventata BMG che poi è diventata Sony: io sono sempre lì, ci sono tante figure nuove, di continuo, ma la cosa che permane è che trovo sempre una grande pazienza da parte della discografica, un grande rispetto del mio modo di essere e di lavorare, per quanto insolito o smarcato dai tempi esso sia. Io sono certamente arrivato sul mercato a cavallo del cambiamento anche discografico ma ho potuto continuare a lavorare sempre come desideravo.
Pochi giorni fa in conferenza stampa raccontavi di aver avuto prima di questo disco una crisi d’ispirazione, una sorta di classico blocco dello scrittore.
Sì e penso sia giusto anche raccontare che mi è successo spesso di avere un blocco come questo, perché siamo sempre qui a parlare di quello che facciamo e abbiamo fatto, ma ce ne sono tante di cose che invece non abbiamo fatto e non siamo riusciti a fare. La crisi arriva per ragioni private oppure perché stai cercando di cambiare pelle e ancora non si è srotolata la vecchia, la pelle precedente.
Com’è l’ascoltatore tipo di Samuele Bersani, chi è? Oggi i più giovani non sanno cosa sia un album, un long playing, poi c’è il ritorno del vinile, certo, ma intanto la realtà è fatta di visualizzazioni.
Il disco è scomparso, sì, e sono scomparsi molti negozi di dischi. I ragazzini hanno un altro approccio nei confronti della musica e questo è vero, però io li vedo sempre come portatori di entusiasmo, anche nel farla. Lo stesso entusiasmo che avevo io quando avevo la loro età. Però va detto che siamo in un momento in cui più che altro, forse per imitazione, sembra che si sia ridimensionata la fantasia nel fare canzoni. La figura della donna in queste nuove canzoni che sento è costantemente quella di una prostituta, è tutto un bitch, e mi sembra che il linguaggio sia proprio cambiato. Poi certamente c’è un grande fermento, oltre i talent ci sono scene nascoste con bocche di cannone più piccole ma che cercano di essere comunque creative.
Pensi che il linguaggio della canzone si sia impoverito?
Certo, sì, e in generale. Se ascolti un’intervista fatta negli anni ’60 sembrano tutti dei marziani rispetto a oggi, questo anche nel lessico dell’uomo della strada, quello intervistato da Pasolini: il ragazzino di borgata di allora mi pare parlasse meglio dell’uomo del centro oggi e questo ha riverberi su tutto, anche sulle canzoni. Poi comunque ci sono ancora autori che tentano la strada dello scrivere storie, ritratti, autori con un senso dell’intenzione che secondo me ancora non si è perso completamente.
Tu hai esordito come cantautore in un tempo, gli anni ’90, che erano soprattutto ad appannaggio di band, rock e sammai rap, poi sono arrivati gli anni Zero e il cantautorato è tornato forte, finendo col seppellire oggi la musica cantata in inglese fatta da band italiane. Dal rap… Da qualche tempo qui i cantautori dai nomi bizzarri si moltiplicano. Come hai vissuto tutto questo passaggio e il ritorno in scena del tuo mondo di riferimento, appunto il cantautorato, in ritardo sulla tua esplosione?
A me è dispiaciuto di più non godermi la libertà sessuale quando ero adolescente perché c’era l’AIDS e quindi ci siamo persi il gusto di fare le cose molto liberamente. Dal punto di vista musicale non ho provato frustrazione anche perché quando sto fermo non è che io patisca se arriva… boh… un Calcutta. Certamente quando sono arrivato ho sentito che non era l’epoca dei cantautori, proprio come dicevi tu, il cantautore era una figura un po’ considerata verbosa, poco legata alla scrittura della musica, una figura démodé. Questo secondo me è anche un po’ colpa di certi cantautori per cui in effetti forse la musica era un alibi. Io però anche se c’era Mogol amo considerare anche uno come Battisti un cantautore. Comunque ecco: io godo ad ascoltare le cose belle, mi dà speranza, è anche motivo di ispirazione a volte il pensiero di ciò che di bello ha fatto un altro. Non ho mai sofferto di invidia, ho un sacco di altri difetti, ma non questo, anzi, tendo, forse proprio per come è iniziata la mia storia, a valorizzare chi è più giovane se possibile come è stato fatto con me.
Ovviamente ti riferisci al fatto di aver iniziato con Dalla e di essere stato inserito non come spalla nei suoi tour, ma come artista nei suoi spettacoli (nell’album live Amen, Bersani canta la sua Il mostro, nda).
Sì, dico questo senza paragoni, sia chiaro, anche se lui aveva circa la mia età quando abbiamo iniziato a lavorare insieme: io ho imparato da lui questa cosa, per esempio quando nel 2000 al Premio Recanati ho sentito Le mie parole di Pacifico per me è stato naturale chiedergli non solo di cantarla, ma di entrare nella tournée, gli ho chiesto non di aprire i miei concerti, ma lo mettevo nel mio spettacolo.
Mi racconti come vi siete conosciuti con Lucio Dalla?
Ho tentato di incontrarlo due volte, la prima volta a Bologna organizzava i provini di quella che sarebbe dovuta essere la band che avrebbe dovuto accompagnare live Angela Baraldi, io lessi su Repubblica che organizzava questi provini, presi il treno dalla Romagna, ma non riuscii a fargli ascoltare nulla né ovviamente volevo essere parte della band, anche perché erano tutti dei grandi musicisti, dei veri virtuosi a differenza mia. Poi ci riprovai e ci riuscii quando mia madre mi disse che sarebbe stato a suonare a San Benedetto del Tronto, mi sono presentato lì con un radiolone per fargli ascoltare la mia canzone Il mostro, poi uno dell’entourage mi ha dato la possibilità di incontrarlo, ha ascoltato la canzone e gli è piaciuta tanto: ho firmato subito un contratto editoriale e poi discografico: a quel punto mi sono trasferito a Bologna.
Qual è la prima cosa che ti ha insegnato Dalla?
A tagliare una strofa da quella canzone (ride), è stato il primo consiglio che ho seguito
Cos’ha rappresentato spostarsi a Bologna per la tua vita? Ti senti parte di quella che la storia della musica pop italiana chiama un po’ convenzionalmente dunque sommariamente scuola bolognese e, se sì, in quale modo?
Secondo me non è mai esistita una scuola bolognese, non c’è questo stretto rapporto, o almeno io questa cosa io non l’ho vissuta, è stato come se ognuno avesse avuto la sua stazione con la sua fermata pur vivendo nello stesso posto. Poi di certo ci lega l’aria medievale della città, questa libertà che abbiamo nel vivere lì, è una città ricca di ispirazione in cui costantemente arrivano i giovani, non è una RSA, c’è un ricambio continuo, ma ti ci puoi sentire vecchio, eh… Io sono arrivato a 22 anni e ho visto la città dei balocchi con gli stessi percorsi fatti sempre da giovani nuovi, ma poi col tempo cresci e scopri anche la diversità di questi nuovi arrivi. Di certo vedo colleghi che spesso come me fanno grandi passeggiate solitarie. A ben pensarci ho scritto tutto a Bologna praticamente, anche le canzoni di mare tipo Il pescatore di asterischi, mi sono sentito libero lì per la prima volta e non vorrei vivere in nessun altro posto.
Tu scrivi delle vere e proprie storie, indugi più sulla realtà che sulla poesia, cercando di rendere lirica la realtà, lo fai ancora di più di uno come Carboni o di uno come Guccini che comunque, pur nel racconto, cerca da sempre una dimensione lirica quando scrive: tu la lirica semmai la crei in chi ascolta le tue storie, in effetti sembra una specie di neorealismo, proprio come al cinema. Poi, lirismo o meno, hai sempre scritto tanto d’amore e lo fai anche qui, in parte con una scia d’amarezza (Il tuo ricordo), in parte raccontando l’amore tra due donne, quindi in modo positivo, libero… pensi che in fondo le canzoni siano più o meno tutte canzoni d’amore?
No, e oltretutto penso che le canzoni d’amore si possano scrivere anche a tavolino, solo che in quel caso si vede che non sono scritte con il sangue, si sente che puzzano di bruciato, ho scritto in passato canzoni e a posteriori direi che allora non avevo ancora provato tutto, erano cose sulla carta, non ancora vissute completamente e c’è una grande differenza tra quelle e quelle che poi ho scritto dopo. Poi certe volte capita di viverla una storia di quelle da scrivere, perché è come in Forrest Gump: “shit happens”, il risultato è che se dopo che è accaduta una cosa simile ti rimane qualcosa pensi che forse è proprio per cose così che tutti scrivono tante canzoni d’amore, perché non c’è un argomento migliore di quello in cui gli altri possano ritrovarsi, nulla che generi un’empatia analoga. Poi te lo dico: spesso le mie canzoni preferite dei cantautori che amo di più non sono quelle d’amore: se penso a Battiato non penso a La cura ma a Povera patria, se penso a De André non penso alla Canzone dell’amore perduto, ma a Bocca di Rosa… e anche per Dalla direi lo stesso.
Però sono cantautori, specie De André e Battiato, che hanno raramente scritto d’amore in modo strettamente sentimentale, e anche Dalla a dire il vero, quando ho ascoltato la prima volta il primo singolo di questo tuo disco, Harakiri, ho pensato proprio a Dalla che in Mambo dice “sono andato al cinema e mi han cacciato via perché piangevo forte e mangiavo la tua fotografia”. Questi due versi da soli dirottano verso la canzone d’amore tutto il pezzo.
Sì. beh, quella è una canzone incredibile ed è vero, lui ha questo senso dell’amore un po’ trasversale che dici… io penso alla mia preferita, Meri Luis, anche lì non siamo nella classica canzone d’amore ma poi come dici l’amore lui ce lo mette in quei versi “Meri Luis finalmente ha deciso che l’amore è bello e si è lasciata andare”.
Ascolti molta musica oggi?
No, a volte la musica mi dà fastidio e ci sono molti momenti in cui cerco il silenzio. Leggo, e soprattutto vedo film. Mi piacciono tanto di più le colonne sonore delle canzoni.
Cosa ti ha formato musicalmente?
I concerti brandeburghesi di J.S. Bach, mio padre era un flautista e in casa mia c’era tanta musica sempre, anche tanta classica, così la domenica dirigevo von Karajan con un grissino.
Insomma: hai sempre voluto fare questo lavoro.
Certo, sì. Da bambino volevo fare il menestrello! Da ragazzo a un certo punto volevo fare cinema e sono andato a Roma con mia mamma che mi ha sempre sostenuto, poi quella cosa della regia è passata e sono tornato a pensare solo al fatto di fare musica, di fatto io ho sempre scritto canzoni, anche da piccolissimo… che poi più che canzoni erano tipo, boh, come dirlo? Le mie invenzioni.