Geolier è Napoli. Ma se venisse a mancare il secondo elemento, per sua stessa ammissione, non potrebbe esistere neanche il primo. Così, quando l’altro giorno ha presentato la propria partecipazione al 74esimo Festival di Sanremo con la canzone I p’ me, tu p’ te, più che del brano in gara ha parlato della profonda napoletanità che lo pervade e di quanto sia inscindibile il fattore musicale da quello sociale e umano con la città. Tanto che ha ammesso candidamente: «Mi sento una bandiera». E lo ha detto senza spocchia, anzi, partendo dal basso dei rioni e dall’immedesimazione che sente fortissima verso la sua musica. Non a caso porterà una canzone in dialetto napoletano e anche nella serata dei duetti ha scelto di pescare «nella storia del mio mondo».
Intanto la scena cresce e lui sente di aver posto un altro tassello nell’evoluzione del rap come fenomeno popolare: «Sicuramente la partecipazione di Lazza lo scorso anno ha influito sulla mia di quest’anno, ma io influirò su quella di altri. Spero che Marracash e Guè facciano Sanremo e che il rap venga sempre più rappresentato all’Ariston». E anche se il suo brano è un rap addolcito nel pop, non crede di aver tradito il proprio stile: «Ho la fortuna di cantare in napoletano e quindi posso fare qualsiasi cosa. Il mio brano, come Cenere di Lazza, non è fuori dalle mie corde. Se questo pezzo non lo portavo a Sanremo lo mettevo lo stesso nel prossimo disco. Se invece lo avessi cantato in italiano mi sarei snaturato. Porterò sempre il napoletano, per adesso non riesco proprio a cantare in italiano. È il mio mondo».
Così, dopo aver messo in guardia i colleghi da possibili dissing («Sarò molto sincero: non ho paura dei dissing perché a me non mi devono mai dissare visto che sono il più bravo. Sono davvero fortissimo a fare rap, non me lo fate!»), ha ricordato che non era scontato cantare in dialetto a Sanremo: «Quando Amadeus mi ha concesso di portare il napoletano sono corso in studio a scrivere un pezzo d’amore che ha un messaggio importante. I p’ me, tu p’ te significa io per la mia strada e tu per la tua. Vuole rappresentare il rispetto che si deve al partner quando non c’è più l’amore e non deve andare avanti per inerzia, per abitudine, dopo la separazione». Ha poi ricordato che già ci aveva provato, ma non era andata bene: «Avevo presentato Chiagne l’anno scorso. Non era il periodo adatto, mentre adesso, dopo tutto quello che ho fatto, è perfetto».
La conferenza stampa è stata anche l’occasione per conoscere meglio questo ragazzo di 23 anni che, partito da Secondigliano, lo scorso anno con l’album Il coraggio dei bambini ha conquistato cinque dischi di platino. «Io mi sento un giornalista. Racconto quello che c’è in strada. Mio padre mi ha insegnato a vedere il finale del film e non il mentre. I film di mafia parlano del potere e dei soldi, ma nessuno si accorge che alla fine è sempre morte o carcere. Così mi sono impegnato sul finale, che è quello che conta».
Dopo aver spiegato che per lui «l’arte non ha una responsabilità educativa», ha aggiunto che non crede alla negatività in assoluto di serie come Gomorra o Mare fuori: «Dall’esterno sembra che Napoli sia solo quelle serie, che ho visto e mi piacciono. Ma penso che abbiamo anche cose più belle da raccontare. Il problema è chi le guarda e crede che ci sia solo questo». Poi largo spazio alla napoletanità e a quanto influisca sulla sua musica: «I miei maestri sono i Co’Sang, che per me fanno parte della storia della musica napoletana insieme al sentimento di Pino Daniele, la melodia di Gigi D’Alessio e la schiettezza di Massimo Troisi. Ho imparato da tutti. Così come dalla canzone neomelodica». Non gli dispiace neppure che artisti non napoletani utilizzino il suo dialetto: «A me fa piacere. Lucio Dalla diceva: “Se potessi rinascere, vorrei rinascere napoletano” e ha scritto Caruso».
Quello che sembra premergli di più, riguardo alla partecipazione a Sanremo, è però far capire che non si sente solo e che ha una responsabilità collettiva: «Per me è già una vittoria. Adesso può succedere di tutto, ma quello che dovevo fare l’ho fatto. Sento la responsabilità di portare sul palco la mia città. Napoli ha sempre seminato, adesso stiamo raccogliendo i frutti. Sembrava che qualcuno non se ne fosse accorto». Responsabilità verso la sua storia e verso la sua gente: «Noi siamo un sacco, dietro di me ci sono tante famiglie. Quando vinco vinciamo tutti, quando cado cadiamo tutti. Se io vado male, loro si chiedono: come mangiamo mo? Siamo un collettivo di 50 persone. Una famiglia. Io sto sul palco, ma con me ci saranno anche tutti gli altri, da Luchè a Vale Lambo».
Ancora, ha elogiato Amadeus per essere riuscito ad aprire a tutti il Festival: «Ha fatto un lavoro incredibile. Ricordo che io Sanremo lo guardavo di fianco ai miei genitori, invece adesso tutti i ragazzini accendono la tv per vederlo». Ha provato a spiegare perché la politica è così distante dai giovani: «Non credono più nella politica e nelle religioni, solo negli artisti e negli sportivi, perché non si rispecchiano in qualcosa che è lontano, che non gli somiglia. I giovani si rispecchiano in me perché gli sto sempre vicino. Un giorno un amico mi disse: “Non prenderti la Ferrari, altrimenti non sei più come me”. Nei video delle canzoni ci sta, la affittiamo e la restituiamo, ma nella vita io sto sempre nei rioni, voglio che i ragazzi pensino che se ce l’ho fatta io possono farcela anche loro». E ha chiarito perché si sente un simbolo: «Sono una bandiera. Le vendite e il successo sono importanti, ma abbiamo iniziato per un altro scopo e lo abbiamo raggiunto». Quale? «Vivere di musica e uscire dalla strada. La musica è stato il mio rifugio. Il mio obiettivo era creare un futuro per me e per quelli che non ce l’avevano. Togliere i ragazzi dalla strada e ho la responsabilità della mia famiglia».
Altri artisti in passato hanno scelto di lasciare la città perché si sentivano soffocati dall’affetto del pubblico, lui non ci pensa nemmeno ad allontanarsi. «A Napoli mi trattano come una persona di famiglia. Troisi diceva che i napoletani si sentono proprietari di quello che esce da Napoli e io, quando ci parlo, lo sento che mi hanno creato loro, quindi c’è un rapporto di gratitudine». Crede infatti che spezzando questo legame si potrebbe spezzare anche la sua ispirazione: «Io respiro perché sono a Napoli, se vado via finisce la mia artisticità. Mi faccio ispirare da tutto, dalle cose belle e meno belle. Stiamo cercando di creare le condizioni anche per altri di rimanere. Come alle major, alle quali dico: le riunioni, su dieci facciamone sette a Milano e tre a Napoli. A me piace questo amore dei napoletani». E poi una cosa che gli ha detto Gigi D’Alessio: «“Quando ero giovane io, per sapere se ero una brutta persona ci voleva tempo”. Adesso basta un video sui social e lo sanno tutti».
A riprova di questo amore sconfinato per la città, i tre concerti allo stadio Maradona – primo artista di sempre a raggiungere questo obiettivo – saranno veri e propri eventi cittadini: «Voglio incentrarli sulla festa di Napoli. Come dedica per l’entrata a Sanremo a tutti quelli che hanno creduto in questo progetto. L’emozione per gli stadi è inquantificabile. Ora non provo sensazioni particolari perché è troppo grande, tutto troppo assurdo. Faremo anche pre-party e post-party, sono tre date ma durerà un mese. Come dopo lo scudetto».