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Sarafine e la carriera dopo X Factor: «Non voglio essere un fenomeno da baraccone»

Il suo primo EP, 'Un trauma è per sempre', arriva a ben un anno dalla vittoria del talent. Un tempo necessario per capirsi («volevo essere mainstream o essere me stessa?») e trovare i metodi per evitare preoccupazioni e non farsi bruciare dall'industria: «La mia carriera non poteva dipendere da un'ospitata in televisione»

Foto press

«La mia più grande paura non è essere una meteora, no. La mia più grande paura è un’altra: è essere un fenomeno da baraccone. Quello sì che mi spaventa»: è più o meno a metà di una piacevolissima ora di conversazione che viene fuori questa frase, frase che taglia come lama e che davvero potrebbe riassumere molto di quello che Sarafine è oggi, soprattutto di cosa oggi vuole davvero, adesso che arriva finalmente al traguardo dell’esordio discografico vero e proprio con l’EP – ma è quasi un album – Un trauma è per sempre.

Riavvolgiamo un attimo il nastro, inquadriamo meglio la faccenda: proprio nel momento in cui tanto si parla di X Factor 2024, a finali appena avvenute e vincitrice appena proclamata in questi giorni, la vincitrice dell’anno scorso – Sarafine, appunto – esce finalmente con una release vera e propria: Un trauma è per sempre. Una sorta di EP lungo o, se preferite, di quasi-album: sette canzoni infatti non sono poche e, onestamente, di riempitivi non ce ne sono, sono tutte creature musicali interessanti e con una certa personalità (unico aiutino furbo ed inevitabile: inserire come traccia finale quella Malati di gioia che è la traccia che l’ha spedita nell’iper-uranio della fama x-factoriana). Sette tracce che arrivano però, come dire?, un po’ con calma: il ferro infatti forse poteva essere battuto prima, per approfittare dell’hype di una vittoria ormai vecchia un anno e sovrastata, nel cicaleccio generale, da quella dell’edizione di quest’anno.

Sia come sia, questa cosa del «Non voglio essere un fenomeno da baraccone» ci è piaciuta parecchio. E appena pronunciata la frase in questione, le abbiamo subito chiesto di approfondirla, approfondire il concetto: sapendo tra l’altro quanto la televisione – che resta comunque il contesto che l’ha lanciata e le ha dato la fama iniziale – sia innamorata dei «fenomeni da baraccone». Era mica per caso una frecciata? Sara ha la risposta pronta: «Ma vedi, mentre ero a X Factor non mi sono mai sentita un fenomeno da baraccone. Mai. E non ho mai avuto paura, mai avuto nessuna preoccupazione». Pausa. «Mi preoccupava però già quello che poteva succedere dopo… Quello sì». Altra pausa, per riprendere: «La paura era quella di essere trasportata in dinamiche che non conoscevo bene, e farmene trascinare».

Ok. Comprensibile. Ed è successo? «Per fortuna, no. Ma forse si potrebbe anche dire: per sfortuna…», e qui scoppia in una risata piena per poi spiegare meglio, facendosi seria: «Qualcuno potrebbe considerarla una sfortuna non essere entrata in un certo tipo di dinamiche, di meccanismi. Perché infatti poi la gente non mi vede in giro e inizia a dire ‘Ma quella? Dov’è? Che fine ha fatto? È sparita’, e non puoi nemmeno dargli torto». No, eh? «No. Ma l’unica cosa che conta è, appunto, è che io non sia mai diventata un fenomeno da baraccone. Ho capito che quella era la cosa che conta davvero. Che poi appaia o meno, non mi deve preoccupare più di tanto: io so che per me ci sono, che posso guardarmi allo specchio, che sto facendo quello che è giusto fare, e intendo – giusto per me. Sono viva, insomma, e non ho niente da rimproverarmi. Sono serena. Poi è naturale che se attorno a te non c’è una risonanza mediatica alta la gente possa correre il rischio di dimenticarti: escono così tante cose oggi ogni giorno che figurati se stanno ad aspettare te… Però vedi: mi sono detta che la mia vita e la mia carriera non potevano dipendere da una ospitata in televisione. No. Non dovevo e non devo ridurmi così».

Onestamente? Non è la prima volta che sentiamo dire questi concetti, men che meno in bocca a chi ha avuto in origine la scorciatoia – vogliamo chiamarla così? – della fama arrivata più dai palinsesti della televisione generalista che dalla gavetta sudata sui palchi: spesso è una perfetta strategia da volpe e uva. Il pattern auto-populista de “la fama facile non mi interessa, voglio restare puro” è cioè spesso una cortina fumogena attraverso cui si cerca di nascondere il panico e la paura per il successo scintillante che non arriva nei termini attesi, o non arriva più, una volta terminata la luna di miele televisiva. Ma se il linguaggio del corpo e l’inflessione della voce giocano un ruolo, ci viene da dire che sì, Sarafine è piuttosto sincera, mentre dice quanto sopra.

«Dopo la vittoria ad X Factor, per un attimo ho effettivamente vissuto con i piedi un po’ in due staffe. Stavo su due binari contemporaneamente, non sapendo o non capendo quale dei due volessi effettivamente seguire. X Factor a modo suo era stata un’illusione, vero. Ma sai perché? Non per il successo in sé. No. Ma perché mi aveva dato l’illusione, temo infatti sia solo un’illusione, che sarei potuta arrivare al successo e ad un pubblico molto vasto facendo sempre e comunque quello che piaceva a me. È solo quando X Factor è finito, e mi sono scontrata con la quotidianità col mondo-di-fuori, che mi sono accorta che ecco, forse non è proprio così. Ad un certo punto mi sono proprio dovuta chiedere: ma io, cosa voglio fare? Voglio prima di tutto essere mainstream, ed arrivare a più persone possibile? O la mia priorità è invece essere me stessa? Credo che la risposta a questa domanda stia proprio in quello che è venuto fuori con Un trauma è per sempre: un disco che, diciamolo, un po’ te lo devi andare a cercare». Cioè? Che intendi? «Per com’è fatto, non credo che possa diventare un successo di massa». Ok.

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Attenzione. Non stiamo parlando di una release sperimentale, assurda, iconoclasta. Ma approfondendo il discorso su riferimenti artistici vari, in effetti – e questo dimostra probabilmente la sincerità d’intenti – Sarafine tira fuori non solo degli ovvi Skrillex (la traccia iniziale Scrolla è palesemente figlia della dubstep skrillexiana) o Chemical Brothers ma anche delle cose non banali, che indirettamente depongono a favore della sua assoluta sincerità, del suo non-calcolo: «Prima ancora che diventassi una musicista per davvero, una vera epifania per me è stato vedere le finali di una gara di beatbox e l’uso creativo della loop station che molti beatboxer facevano. Mi ricordo ancora adesso appena vidi l’esibizione del vincitore di quell’anno, SARO, mi misi letteralmente a piangere, capisci? La sua bravura mi aveva letteralmente ucciso, commosso: solo con la voce, i rumori generati dalla sua bocca e la loop station riusciva non solo a trascinare il pubblico, ma a continuare a sorprenderlo. “Io voglio fare questa cosa qua”, mi sono detta, “Io il pubblico lo voglio stupire, voglio rapirne davvero le emozioni, non solo intrattenerlo”».

Considerato quanto nicchia sia il beatboxing, una faccenda da appassionati terminali di hip hop se fruita consapevolmente (altrimenti, diventa una mera baracconata che non lascia traccia dopo tre minuti…), questa cosa dice appunto molto di Sarafine e del suo approccio non banale verso la musica. «Guardando SARO in azione ho pensato subito che anche io volevo creare quel tipo di empatia col pubblico, con chi mi ascolta, un’empatia basata sulla sorpresa. Io non ho e non avrò mai le sue capacità tecniche, lui è un genio nel suo campo, ma vederlo in azione mi ha aperto davvero la mente».

Parlando ancora in maniera piuttosto tecnica di musica emergono con Sarafine altre cose piuttosto interessanti e non scontate, nella nostra conversazione: «Per ora dal vivo andrò in giro da sola. D’altro canto nel disco c’è più di una traccia che è spiccatamente dance, e quella come diavolo fai a riprodurla con una band? Anche se il mio sogno sarebbe riuscirci. Sai, durante gli anni che ho passato per lavoro a Bruxelles ho scoperto delle band incredibili, tipo gli Echt!, o i Tukan», e qui scatta già l’abbraccio virtuale perché gli Echt! sono un gruppo culto per chi vi sta scrivendo queste righe, «ovvero quei gruppi in grado di fare elettronica, più downtempo, trap e scura nel caso degli Echt! e più dance nel caso dei Tukan, suonando però davvero, suonando strumenti. Riuscirci è difficilissimo». Già: devi proprio pensare la musica in maniera particolare. Vero. «Io devo ancora maturare; ma mi piacerebbe arrivare ad offrire dei live di questo tipo. Sono ambiziosa. La verità è che sono ambiziosa, sì. Ambiziosa, ma al tempo stesso umile: ho obiettivi alti, ma so che ci posso arrivare solo a piccoli passi».

Ambiziosa-ma-umile, simpatica. Perfetto. E comunque, anche auto-ironica al punto giusto: ad esempio quando demistifica. almeno in parte. tutta la narrazione che l’ha resa famosa, quella attorno al fatto dell’aver lasciato un ottimo lavoro nel mondo della finanza pur di inseguire il sogno della musica, storiella molto edificante e molto gettonata in tempi di Big Quit e Great Resignation. «In realtà, quando ho deciso di licenziarmi non avevo la minima idea di cosa sarei andata a fare. Sì, in realtà dicevo già allora in giro che lo facevo per il sogno di diventare una musicista professionista, vero… Ma la verità è che questa era solo una cosa detta pur di dare una motivazione, una qualsiasi: manco io ci credevo troppo. A seguirmi nel mio account social dove tiravo fuori le mie velleità artistiche c’avrò avuto trenta persone a star larghi, in quel momento… A me interessava solo dire basta con quel lavoro. E quando finalmente l’ho fatto, beh, che liberazione è stata. “Va benissimo così”, mi dicevo, “hai fatto la scelta giusta. Anche se ora non hai più nulla di concreto da fare, e sei finita in un limbo”. Invece guarda poi cosa è successo, pensa te, altro che limbo, chi l’avrebbe mai detto…», e qui parte un’altra risata sincera e cristallina.

Auto-ironia al punto giusto e senso delle proporzioni anche quando Sarafine parla di se stessa come musicista: «No, non sono una nerd. Non sono una di quelle persone che perde una giornata di lavoro attorno ad un singolo suono. Sono un’altra cosa: sono una control freak, quello sì». Specifica meglio: «In generale, non sono e credo non sarà mai una di quelle mega nerd dell’elettronica, della sperimentazione: c’è una parte di me che mi porterà sempre verso il pop, verso la semplificazione. Al tempo stesso però sono molto ostinata nel mio voler avere tutto sotto controllo, per essere sicura che quello che faccio sia qualcosa di particolare, di personale. Anche per questo motivo non ascolto tanta musica che possa essere in qualche modo simile alla mia, qui in Italia». Ah no? Volevo giusto chiederti se Cosmo per caso per te era un’influenza, nel mischiare cantato, parlato e stilemi dance… «No, guarda: se mi chiedi qualche artista italiano mi verrebbe da citarti John De Leo e i Quintorigo o, che so, Brunori, gente che quindi fa qualcosa di molto diverso da quello che faccio io». Non è che stai citando Brunori solo perché è un tuo corregionale? Altra risata: «Vuoi dire che sono solo una paracula che vuole promuovere i prodotti calabresi nel mondo?». Eh. «Chissà, magari è così: e manco me ne rendo conto!».

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