In una piccola casetta su un’isola al largo di Seattle, di fronte a una tazza di tè verde Sasami Ashworth ha tirato fuori i suoi riff metal più heavy. Era il febbraio del 2020 e la musicista di Los Angeles s’era rintanata nello Stato di Washington per scrivere.
Le orecchie le fischiavano ancora dal concerto della sera prima. Aveva visto i Barishi, la band metal del Vermont guidata dal suo amico e collaboratore Kyle Thomas dei King Tuff. Mentre il suono devastante del death metal riempiva il bar, Ashworth s’era illuminata. «Mi sono scatenata», ricorda ridendo. «Gli altri erano impassibili, io pogavo da sola».
Il metal non è mai stato al centro dei pensieri di Sasami. È cresciuta suonando il corno francese e studiando musica classica. Ha poi suonato nei Cherry Glazerr e lavorato in studio con artisti indie come Vagabon e Hand Habits. Il suo omonimo debutto del 2019 conteneva pezzi indie e shoegaze intimi, salvo voi cominciare a cercare suoni più violenti e affilati.
«Ho sempre viaggiato in tour con una band tutta al femminile, è sempre una battaglia per convincere i fonici a prendere in considerazione quel che dicevi. Non fanno che ripeterti di abbassare gli amplificatori. E così ti viene da pensare: più cercate di farmi sentire piccola, più alzerò il volume e sarò aggressiva».
Dopo essere «tornata in vita» a quel concerto dei Barishi, Ashworth, che ha 31 anni, si è immersa nei suoni metal e industrial per il suo secondo album Squeeze. Il disco non si limita a usare suoni metal, ma li usa per raccontare la storia di rabbia e furore di chi impazzisce dentro casa mentre il mondo là fuori va a fuoco. L’idea è che l’album convinca anche chi non è abituato a musica tanto aggressiva a sfogare la rabbia che prova. In altre parole, il disco è l’invito al pogo più gentile e miti che abbiate mai ricevuto.
«Stare in lockdown m’ha dato tanto tempo per fantasticare, non facevo altro che scrivere musica», racconta. «La pandemia è stata un massacro, c’erano proteste per ingiustizie estreme e un sacco di devastazione. La musica è benzina per i sentimenti. Così ho deciso di scrivere canzoni per chi si sente marginalizzato, così che possa usarle come benzina per le proprie esperienze e vivere una catarsi».
Meg Duffy degli Hand Habits, amica e collaboratrice di Ashworth, spiega in una e-mail che ammira «la meticolosità di Sasami. Porta sempre in fondo ogni suo progetto. È impressionante. Vedere una persona che sceglie una direzione nuova e ci si butta senza paura mi ispira».
Thomas dice che Ashworth è «la versione satanica di Brian Wilson». «Ha un talento raro: capisce subito qual è l’arrangiamento giusto per un pezzo e lo esegue alla perfezione», scrive in una e-mail.
Per le session di Squeeze Ashworth ha chiamato a raccolta molti collaboratori. Ha registrato e co-prodotto diverse tracce con Ty Segall, mentre il batterista dei Megadeth Dirk Verbueren, il jazzista Jay Bellrose, Pascal Stevenson dei Moaning, il cantautore Christian Lee Hutson, il musicista britannico No Home, Laetitia Tamko dei Vagabon e la comica Patti Harrison le hanno detto una mano (Tamko e Harrison hanno registrato le urla della splendida Skin a Rat). I Barishi – che ora sono la sua backing band – hanno suonato nella cover di Daniel Johnston Sorry Entertainer, a cui hanno contribuito anche Duffy e Thomas («Ho suonato in pochi pezzi, ma è stato divertente tirare fuori parti di chitarra più heavy e suonare ad alto volume», dice Duffy).
Dopo l’uscita di Squeeze ci saranno tante opportunità per godersi in prima persona il pogo scatenato da Sasami. Dopo un tour da headliner a marzo, aprirà le date in Europa di Mitski e poi quelle delle Haim. E anche se il disco rappresenta perfettamente di cosa è capace, i concerti sono il modo migliore per vivere il processo di trasformazione creato da Ashworth. Quando le chiediamo di descrivere com’è stato suonare il materiale del disco durante l’apertura del concerto di Japanese Breakfast un anno fa, scoppia a ridere. «Mi sento come un clown infernale, vado in giro come un giullare con la chitarra in mano. È divertente: perdo il controllo per 40 minuti, alla fine sono piena di graffi e manco riesco a parlare».
Per molto tempo Ashworth ha considerato il metal un mondo lontano anche perché la sua comunità non lo prendeva più di tantoin considerazione. Per non dire del fatto che a volte è musica che trasmette energia «estremamente violenta, che ricorda lo stupro». Anche una canzone che amava, Sugar dei System of a Down, la disturbava per un verso in cui si parla di prendere a calci una ragazza “e allora lei si mette tranquilla”.
I generi, però, non sono monoliti e Ashworth entrata in contatto con la «diaspora di metallari» affascinati dal fantasy e dal mondo naturale. Le è pure sembrato semplice, da musicista con studi classici, apprezzare la diligenza e la pratica costante che servono per padroneggiare tecniche come lo shred.
In più, gli aspetti più estremi e teatrali del genere erano la tela perfetta per esplorare sentimenti come la rabbia e l’aggressività. Ma per riuscire a «demistificare gli aspetti intimidatori di una scena dominata da maschi cis», Squeeze aveva bisogno di una protagonista, «una donna che non è una vittima ma, anzi, una che sceglie la violenza, sia per vendetta che per ragioni casuali». L’ispirazione è arrivata da Nure-onna, uno yokai (un essere sovrannaturale del folclore giapponese) con la testa di donna e il corpo di serpente che risparmia gli innocenti ma colpisce senza scrupoli chi se lo merita.
«Amo l’idea di questa splendida donna che quando si lava i capelli nell’acqua e alcuni marinai aggressivi iniziano a disturbarla, li annienta», dice Ashwhorth. «È un bel simbolo per l’energia di quelle canzoni, parlano di sentirsi figa e di essere violenta». Poi aggiunge: «Il mio segno è il cancro, e lei è una stronza acquatica, così ho pensato: ehi, è la mia stronza! Un cazzo di serpente acquatico, perfetto». La copertina di Squeeze, disegnata da Andrew Thomas Huang, è un mix molto metal e mostra una Nure-onna con le gambe da granchio.
Sasami si confronta con la violenza soprattutto nella title track. La batteria è affilata, puntellata da un rullante che suona come un mitragliatore, e le chitarre tagliano come coltelli. Il ritornello, cantato con una certa dolcezza, è un mantra minaccioso: “Sognare, uccidere, mentire, spogliarsi, leccare, gocciolare, spremere, finché non le fai male”, canta. Le strofe, scritte e suonate da No Home, raccontano secoli di violenza sulle donne.
«Volevo riprendermi quel linguaggio così violento», dice Ashworth del pezzo. «Parla di come la violenza si insinua nella vita di tutti i giorni, come quando qualcuno cerca di palparti sulla metro. Volevo un pezzo aggressivo con un testo aggressivo, ma l’obiettivo è farti sentire in controllo, non oggettificata».
L’approccio vocale di Ashworth è il contrappeso naturale al cuore heavy metal di Squeeze. Non essendo un’urlatrice ha cercato le melodie giuste da accoppiare agli arrangiamenti. Detto questo, nel disco ci sono anche diversi momenti di tregua come il pezzo pieno di chitarre col fuzz su un cuore spezzato The Greatest o il glam di Make It Right. «Quello è un pezzo dei Fleetwood Crass (un gioco di parole tra i nomi delle due band, ndt)», dice Ashworth, «come i Fleetwood Mac ma con un rullante tipo Crass».
Poi c’è un brano decisamente non metal, Tried to Understand, che lei descrive come «una cazzo di canzone pop alla Sheryl Crow». E Call Me Home, un amalgama perfetto di tutto quello che c’è in Squeeze: l’inquietante intro industrial lascia spazio a un leggero country-rock, poi il ritornello è puntellato da chitarre heavy metal. “Voglio che tu sappia che non sei sola”, canta Ashworth. “Voglio dirti che puoi sempre chiamarmi / casa”.
La varietà e la coesione di Squeeze testimoniano il talento da compositrice e autrice di Aswhorth. Ha iniziato a scrivere canzoni a più di 20 anni e l’ha fatto diligenza. È una grande fan dei Beatles e la cosa che l’ha colpita di più di Get Back è rivelatoria: «Come tutti gli altri, hanno scelto un periodo e si sono messi al lavoro. Gli dedicavano tanto tempo. Da brava studentessa coreana lo rispetto molto. Fare arte è un lavoro romantico e stravagante, ma ci vuole impegno».
In quanto alla scrittura, Ashworth ha ascoltato, osservato e fatto pratica non finché si è sentita pronta per provarci, quando finalmente ha «sentito che c’era una canzone che voleva venire fuori». Paragona i generi alle lingue e dice che per parlarle correttamente bisogna ascoltare e suonare finché non ci si sente a proprio agio con quel modo nuovo di esprimersi.
«Ho ascoltato tantissima musica e suonato nelle band di altra gente», dice. «Sono stata tanti organi diversi di quel corpo che è una band. Ora sono pronta a diventare io stessa il corpo intero».
Mentre lavorava a Squeeze, Ashworth si è tenuta impegnata con un altro progetto che aveva a che fare con la storia della sua famiglia. Poco prima della pandemia, la sua nonna materna è tornata in Corea del Sud, e considerando l’età e la distanza, Ashworth ha voluto farle tutte le domande che aveva sempre sognato di porle. Da brava studentessa quale è, però, prima aveva bisogno di «farle giustizia» e studiare la storia culturale della sua famiglia, così da arrivare a quelle conversazioni con la maggior preparazione possibile.
I parenti del lato materno della famiglia di Ashworth sono zainichi, i coreani che abitano in Giappone, marginalizzati e spesso considerati cittadini di seconda classe. Sua nonna è nata e ha vissuto gran parte della sua vita a Tokyo. La madre le aveva raccontato qualcosa del bullismo che subivano i coreani lì, ma era reticente a svelare di più. Le diceva: «Non capiresti» o «non voglio doverti spiegare ogni cosa».
Così Aswhorth ha deciso di migliorare il suo coreano e il suo giapponese e si è messa a studiare la storia lunga e complessa di entrambi i Paesi. È in questo periodo che ha scoperto gli yokai e film giapponesi come Lady Snowblood (una revenge story che ha ispirato Kill Bill di Quentin Tarantino) e il classico horror Hausu. Tutte queste cose, sia dal punto di vista visivo che tematico, si sono collegate col lavoro che stava facendo su Squeeze.
Ha anche letto il romanzo del 2017 di Min Jin Lee Pachinko: è la storia di una famiglia zainichi che l’ha colpita per quanto somigliava a quella della sua. Come molti personaggi del libro, il nonno di Ashworth possedeva locali per il pachinko – un pezzo dell’industria del gioco d’azzardo giapponese che i coreani hanno iniziato a dominare perché esclusi dagli altri lavori – ed è così che ha mantenuto la famiglia e l’ha strappata dalla povertà.
«A casa mia si parlava sempre delle macchine per il pachinko, ma prima di leggere il libro non sapevo cosa fossero», racconta. «La famiglia, persone che non conosceresti mai se non ci fosse di mezzo il DNA, è una fonte interessante a cui attingere per raccontare storie. Tutte le famiglie sono strane, è normale studiarne la storia per alimentare lo strano mondo fantastico che vuoi inventare».
Ashworth aspetta ancora di poter parlare di persona con la nonna, ma grazie a tutto quello che ha imparato le conversazioni con la madre sono parecchio migliorate. Lo studio l’ha anche aiutata a capire perché i suoi genitori si sono uniti e l’hanno cresciuta sotto la Chiesa dell’unificazione, un movimento religioso coreano – negli Stati Uniti si chiamano Moonies, dall fondatore Sun Myung Moon – che qualcuno considera come una setta.
Secondo Ashworth la Chiesa dell’unificazione è la «chiesa suprematista coreana». Per una giovane zainichi come la madre, che si sentiva fuori posto in Giappone anche se era il suo Paese natale, trovare un gruppo in cui era la benvenuta è stata una rivelazione, soprattutto quando a 20 anni si è trasferita negli Stati Uniti in cerca di un nuovo inizio.
Nel caso di Ashworth, che è cresciuta in un quartiere bianchissimo nei sobborghi di Los Angeles, El Segundo, la Chiesa dell’unificazione le permetteva di vivere immersa nella cultura coreana. Ogni domenica andava al catechismo coreano e imparava preghiere e rituali: allo stesso tempo, i membri americani della chiesa erano molto americanizzati e bianchi. La musica era lo specchio perfetto della situazione.
«C’erano un sacco di hippie bianchi e la musica era quasi sempre folk acustico», ricorda ridendo. «Cantavamo Eight Days a Week, ma cambiando il testo in: “oooh, ho bisogno del tuo amore, Signore”. Roba così. Ma c’erano anche canzoni folk meravigliose, con melodie coreane».
Ashworth sta ancora elaborando tutto: il periodo in chiesa, la storia della famiglia, come queste cose sono collegate e come non lo sono. Trovare risposte nette non sembra interessarle. Incoraggiata dalla ricerca, in Squeeze ha abbracciato la sua identità mutevole. È nella musica, nel nuovo amore per il metal mescolato con il classic rock e il pop, e sulla copertina, dove il titolo è scritto dalla madre e in calligrafia coreana.
«Tutte le tue esperienze ti danno il vocabolario emotivo per fare dell’arte. Crescere in un ambiente controculturale cambia le lenti attraverso cui vedo il mondo e la tua vita», dice. «È difficile capire cosa viene dalle istituzioni, cosa dalla tua famiglia, cosa dai tuoi problemi mentali e dall’ambiente che ti circonda. Ma per fare arte non serve capire da dove vengono tutte queste esperienze ed emozioni, basta trovare il filo che le collega e lasciarsi guidare».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.