New York, è un tranquillo pomeriggio quasi primaverile. Di ritorno da una bellissima passeggiata con tanto di pizza unta e bisunta (buonissima) stile Spontini di Milano, immerso nella tipica cacofonia di suoni della Grande Mela—bestemmie e imprechi in 2mila dialetti—mi accingo a entrare nell’ascensore. Di colpo, come un fulmine a ciel sereno, la vedo. Tutto tace, tutto si ferma, silenzio assoluto, pizza in mano portata ancora alla bocca (non proprio elegante). La guardo, mentre al rallentatore si gira verso di me: Scarlett Johansson. Alta quanto me [ndr, la Bestia sarà sul metro e sessanta], elegante (di più di me), eterea, occhi verdissimi, capelli raccolti, labbra purpuree che si aprono (assicurate tra l’altro per una cifra esorbitante da Lloyd’s of London). Rischio quasi un infarto quando mi sussurra: «A che piano?»
Con quella semplice domanda tutto ritorna al presente, mentre bofonchiando maledico la pizza galeotta che in qualche modo mi ha messo in cattiva luce. Magari senza quell’olio che mi scende dalla bocca potevo avere una chance, specialmente adesso che è single. Sola. Nubile. Well, Fuck it. Andiamo a fare le interviste di rito così vi posso essere utile.
«Sono attratta da progetti concepiti da persone eccessivamente ambiziose, registi che hanno un sogno e lo vogliono realizzare a tutti i costi». Così Scarlett Johansson descrive uno dei motivi per cui ha accettato il ruolo di Motoko Kusanagi nell’adattamento cinematografico di Ghost in the Shell (regia di Rupert Sanders), il manga omonimo dell’artista Masamune Shirow. Un film sci-fi che segue le avventure di Motoko, il Maggiore a capo della Sezione 9, organizzazione antiterroristica specializzata contro i crimini virtuali/informatici. La storia è ambientata in un Giappone futuristico cyberpunk, in bilico tra esistenzialismo filosofico e tecnologico, un luogo davanti al quale è lecito porsi questioni su dove finisce l’umanità e cominciano le macchine, non più robot umani capaci di provare sentimenti, ma anime umane dentro corpi meccanici. Sono anni che Johansson ha imposto la propria (bella) presenza nel mondo fantascientifico, prima come assassina in The Avengers, poi come sexy e letale aliena sanguinaria in Under The Skin; donna virtuale in Lei, e una superdonna in Lucy.
Nel cast figurano anche Takeshi Kitano, Juliette Binoche, Michael Pitt (che adoro) e altri attori. Non ho visto il film, ma solo qualche spezzone che mi ha lasciato soddisfatto, per quanto forse possa mancare di mistery e spessore.
Iniziamo subito dalla controversia che si è scatenata quando ti hanno accusata di aver contribuito al whitewashing del film, di averlo reso troppo bianco.
Major nel manga è Giapponese e, a causa di un incidente gravissimo, il suo corpo diventa irrecuperabile. Il cervello è l’unico organo a non aver subito danni, quindi viene trasferito in una macchina, in una Shell. Per me questo personaggio non ha un’identità definita. Il manga originale è stato adattato molte volte, in anime, televisione e video games, e ognuno di questi ha dato una sua interpretazione di Motoko, diversa dal materiale originale. A volte ha gli occhi azzurri, altre volte arancioni o viola. Motoko non è neanche il suo nome, perché non si ricorda come si chiamava prima di diventare una cyborg. Il punto focale della storia è proprio il fatto che non viene definita dal suo corpo artificiale, ma dalla sua mente. Per lei ogni corpo è intercambiabile, sarebbe facile sceglierne un altro, come cambiare un vestito. Non è neanche così chiaro il fatto che sia donna. La diversità nel mondo di Hollywood per me è molto importante, non interpreterei mai un personaggio che possa essere giudicato offensivo. Ho appoggiato la visione di Rupert che voleva un cast multiculturale, che rispecchiasse la popolazione di una città futurista come quella in cui è ambientato il film.
Nella maggior parte dei tuoi film sei tosta, letale, ti piace spaccare il culo ai bad guys. Il tutto, condito da una buona dose di umorismo. È una scelta precisa, motivata dall’anima da ragazzina che c’è in te?
Credo di sì, anche se non è una scelta che faccio coscientemente. Nel nostro caso, è un film dove Motoko evolve passando attraverso tre fasi: quella di adolescente, che è l’ultimo momento che ricorda prima dell’incidente, quella di donna dove riconosce il suo destino e quella di eroina, un ruolo che è riluttante ad accettare, anche se lo fa per difendere la razza umana. La parte bella ed eccitante del mio lavoro è l’aspetto pratico. Cioè quando si gira un film e devi risolvere i problemi cercando di capire come dare il tuo meglio per completare la scena, quando provi varie opzioni e scegli la versione migliore. In questo caso Motoko vive un’esperienza straordinaria, alla ricerca della propria identità, un concetto universale ed eterno, che in qualche modo rappresenta anche una parte della mia esperienza personale.
Credi che molti di questi ruoli siano importanti per proporti come role model, un esempio da seguire?
Non penso a me stessa come role model. Ho rischiato molto per poter fare questo mestiere, volevo inseguire il mio sogno e non trovo importante che i miei film abbiano un messaggio particolare per la gente. L’importante per me è che le scelte che faccio come cittadina siano socialmente rilevanti, perché non ho paura ad esprimere la mia opinione, a dire quello che penso in pubblico, a lottare per quello in cui credo. Vorrei solo poter lasciare una mia impronta e motivare altre persone a seguire il mio esempio come essere umano. Sono cresciuta in una famiglia politicamente attiva. Trovo che il risultato di queste ultime elezioni presidenziali sia devastante, ma non credo sia la fine del mondo. Abbiamo passato periodi difficili, dobbiamo solo usare questa situazione come un’opportunità per cercare di migliorare le cose insieme, dobbiamo essere uniti.
Qual’è la tua relazione con la tecnologia?
Sono l’esatto opposto di una nerd. Non so nulla. Ci ho messo cinque anni per passare dal Blackberry all’iPhone! Non sono attiva sui social media, non ho tempo da dedicargli, preferisco passare il mio tempo a fare altre cose. E poi sono una persona troppo riservata per esporre la mia vita privata al resto del mondo. Però riconosco che la tecnologia nel mondo di oggi è fondamentale per la nostra evoluzione come razza umana, ed è un soggetto molto interessante da esplorare nei film di oggi, è una nuova nemesi. Una volta avevamo più alieni, spie, russi, mentre oggi siamo più noi in conflitto con il cyber world.
Ci racconti qualcosa del costume?
(Ride) è come una seconda pelle, costruito con un silicone traslucido che mi dava molta libertà di movimento, anche se per entrarci le prime volte è stata dura. È stato realizzato dal Weta Workshop di Peter Jackson. L’unico problema? Il colore. Anche se è fedele all’immagine del manga, il primo giorno che mi sono presentata sul set ridevano tutti, mi hanno soprannominata GIANT CONDOM, preservativo gigante!
Passiamo a cose meno serie. Di recente hai aperto Yummy Pop, un negozio di popcorn nel quartiere del Marais, in pieno centro parigino. Come mai?
Perchè prima di sposarmi con Romain, quando uscivamo andavamo spesso al cinema, ed entrambi siamo ossessionati di popcorn. A me piace molto quello dolce/salato, ne abbiamo uno sul menu che si chiama Chicago mix, con vero formaggio cheddar del Vermont e caramello. È un’avventura davvero appassionante e abbiamo avuto molto successo. Forse ne apriremo degli altri, una scusa in più per tornare a Parigi più spesso.