Fuori dal container che ospita le interviste in loco al Primavera Sound di Barcellona diluvia. Cerco di riscaldarmi dopo l’acqua presa da PJ Harvey mentre sono in attesa dell’arrivo della new sensation giapponese, il girl group Atarashii Gakko!. Le quattro arrivano scortate dal proprio team, e si presentano con il classico saluto giapponese, con un leggero inchino, portando le mani a contatto con le mie. Lo stupore per la temperatura delle mie mani colpisce Suzuka (24), la leader della girl band, che chiame le sue colleghe Rin (22), Mizyu (22), Kanon (22) a rapporto per confrontarsi. «Cold! Cold!», mi ripetono mentre iniziano a turno a scaldarmi le mani. La situazione è piuttosto buffa – e viene facile pensare a quei caotici momenti dei manga – anche perché le ragazze non parlano inglese e capirsi nell’attesa del traduttore non è semplice. In fondo, nonostante abbiano oltre un milione di follower su Instagram e ben sette su Tik Tok, questa è la loro prima intervista europea, e quindi italiana.
Le Atarashii Gakko! si presentano nelle tipiche uniformi scolastiche giapponesi (il loro nome completo 新しい学校のリーダーズ?, Atarashī gakkō no rīdāzu significa infatti “Nuove leader scolastiche”), un look che le contraddistingue oramai dal 2015, quando la compagnia Asobisystem riunisce le quattro ragazze (ai tempi l’età media delle componenti è 14 anni) per costruire un nuovo progetto di idol (progetti costruiti a tavolino dall’industria giapponese – possiamo paragonarli ad esempio alle nostre boy band e girlband anni ’90 e 2000 – per promuovere la cultura nipponica incarnando modelli legati a una certa purezza). Oggi l’uniforme è bianca e nera con una patch rossa al braccio sinistro, un po’ high school giapponese, un po’ esercito in marcia come viene richiesto dal loro ultimo singolo Tokyo Calling (“Tokyo sta chiamando / sii orgoglioso di andare avanti / la speranza per il futuro è qui / ritagliata dalla nostra storia / Stiamo marciando”) estratto dal nuovo album AG! Calling pubblicato dalla 88rising, l’etichetta americana che segue il gruppo dallo scorso anno.
«Abbiamo deciso di indossare le uniformi perché quando siamo state messe insieme per formare il progetto eravamo ancora a scuola», mi spiegano. «Era qualcosa di riconoscibile, e soprattutto qualcosa legato alla nostra tradizione, ma che in qualche modo poteva essere riconosciuta anche al di fuori del Giappone».
«Abbiamo iniziato come idol circa dieci anni fa», mi raccontano mentre la pioggia fuori dal container sembra infittirsi, «ma non abbiamo mai voluto essere le solite idol che parlano delle solite cose. Certo all’inizio eravamo giovanissime ed era normale parlare di temi più ingenui, più giovanili, ma ora puntiamo più in alto. Siamo molto legate alla nostra tradizione, per noi significa tantissimo ma ora cerchiamo di parlare di temi più ampi, più importanti, che spesso riguardano la cultura del Giappone». Nello specifico, come ci tengono a ribadire in uno slogan: «Ci sforziamo di sfidare una società dalla mentalità ristretta abbracciando l’individualità e la libertà». Le loro divise sono ricoperte di parole, ne chiedo il significato: «Sui nostri vestiti scriviamo parole che sono importanti per noi, parole come autenticità e umiltà».
“Papà è bloccato nella routine, la morsa del lavoro è terribile / Mio fratello è incatenato allo schermo, non sa più che pesci pigliare al college / La mamma fugge dalla realtà diventando dipendente dagli idoli” è il ritratto di un Giappone sempre più complesso raccontato dalle ragazze nel singolo Tokyo Calling. Tutt’altra materia rispetto a quello di cui ci hanno abituato gli idol e il J-pop. La domanda viene spontanea: quanto sono coinvolte le quattro nella scrittura dei propri brani?
«Abbiamo un team con cui lavoriamo a stretto contatto su tutta la filiera, dalla scrittura alla produzione, fino all’estetica. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo iniziato a partecipare in modo sempre più attivo a ogni scelta che riguarda la band, anche perché stiamo crescendo e stiamo imparando molto. Ora possiamo condividere e mettere a disposizione le nostre idee perché non siamo più ragazzine: ora sappiamo chi siamo». La band individua con facilità il momento di svolta nell’esibizione al Coachella dello scorso aprile: «È stata la prima tappa di questa nostra nuova era, lì abbiamo capito quanto potenziale ha questo progetto, e che è il momento di fare un ulteriore passo in avanti».
Un potenziale che era però già stato intuito al di fuori dal Giappone non solo dall’etichetta americana che ha firmato le Atarashii Gakko!, ma anche da una grande popstar sempre attenta ai nuovi fenomeni come Rosalía, che lo scorso anno si era unita alla band per un video diventato ben presto virale in cui la motomami e le quattro replicavano la coreografia del singolo Suki Lie delle giapponesi. Ma la storia è effettivamente più strana, con quel twist che ci si può aspettare da un progetto come questo. «Onestamente non avevamo idea di chi fosse Rosalía», mi ammettono candidamente, prive di imbarazzo, «poi abbiamo cercato chi fosse e abbiamo scoperto la sua musica e ci siamo dette: wow».
Essì, wow. Le coreografie – come dimostrato dall’interesse di Rosalía, una con una certa esperienza sul tema – sono uno dei tratti principali nella definizione estetica della band visto che il suono dei vari album e singoli in questi anni si è divertito a giocare e a indagare vari territori, dal metal-pop da sigla anime al city pop, dall’hip hop old school all’EDM, non andando così a definire i confini acustici del progetto. Non solo nei video (guardatevi ad esempio quello di Nainainai o della già citata Suki Lee) ma anche soprattutto nei live come ci dimostreranno poco dopo l’intervista sul palco del Primavera in una delle esibizioni più divertenti e coinvolgenti dell’intera edizione. «Le coreografie le prepariamo noi, seguiamo l’istinto, non ci sono coreografi, non c’è un lavoro da vere ballerine dietro. Te la spieghiamo così. È un po’ come se ci fosse una reazione chimica: la musica ci smuove qualcosa dentro e noi lasciamo i nostri corpi rispondere come desiderano. Quando un passo ci colpisce, entra in coreografia».
Poco importa l’ostacolo linguistico, anche in Europa, come negli States, il live delle Atarashii Gakko! è 100% follia, tra momenti recitati e coreografie, tra sketch, pop corale e rappati al fulmicotone. Il risultato è che anche un pubblico di curiosi (ma non fan), come quello del Primavera, perda decisamente la testa per l’energia dello show. Ma per loro che sono cresciute con l’adorazione e il fanatismo organizzato tipico del mondo giapponese che circonda le idol, come vedono il pubblico occidentale? «La prima cosa da dire è che è sicuramente più eterogeneo. In Occidente ognuno reagisce alla musica live in modo molto personale. In Giappone invece, soprattutto per la cultura delle idol, il pubblico agisce come un tutt’uno, facendo coreografie e preparandosi al dettaglio. Sono due esperienze molto differenti (che vi consigliamo di sperimentare!)».
Ma un flirt con l’occidente, oltre ai tour e alla casa discografica, è in atto da qualche tempo per le quattro. Prima una versione in spagnolo di Free Your Mind sotto consiglio del loro produttore, l’americano (ma di origine giapponese e messicana) Money Mark, che – giusto per capirci – è stato collaboratore e produttore dei Beastie Boys da Check Your Head del 1992 all’ultimo album del trio Hot Sauce Commitee Part Two del 2011, e poi, per rimanere in tema, una versione ripensata di Intergalactic, proprio dei Beastie Boys, un altro pezzo di cultura occidentale mancante alle quattro: «A Money Mark è venuta in mente l’idea di farci rifare quel brano dei Beastie Boys. Noi non li conoscevamo. Così ci ha mostrato il video e siamo impazzite, per quello abbiamo deciso di replicarlo, ma a modo nostro. E il team dei Beastie è stato entusiasta».
Fuori la pioggia non sembra voler rallentare. Le ragazze sbirciano il taccuino dove il traduttore ha preso appunti finora. Suzuka prende in giro Mizyu, il clima è disteso nonostante tra poco meno di un’ora le quattro saliranno sul palco per la prima data del loro primo world tour, 25 date tra Europa, Asia e nord America. Mentre ci congediamo – e l’attenzione per le mie mani che non sono ancora tornate a temperatura torna ad essere un topic per le quattro – chiedo ancora se sentono un po’ di tensione prima di questo debutto. Suzuka tira fuori la lingua e in un inglese traballante mi risponde nell’unico modo possibile per una band cresciuta nel mondo delle idol: «Assolutamente no, siamo fatte per questo».