In gennaio, il cantante dei Dirty Honey Marc Labelle era sul palco del Basement East di Nashville. Cantava Last Child degli Aerosmith e come se non bastasse indossava una loro vecchia t-shirt. Era pure troppo. Del resto questa band di Los Angeles non si fa problemi a dichiarare in modo sfacciato quant’è stata influenzata dal rock anni ’70 e ’80.
È una storia che ha inizio nel 2017 quando Labelle, un newyorkese che si esibiva regolarmente in un bar di Santa Monica cantando cover, ha incontrato il chitarrista John Notto. Quest’ultimo si era trasferito a Los Angeles dal Maine con in testa l’idea di eguagliare il successo dei suoi amatissimi Guns N’ Roses. Labelle non poteva credere a tanta ambizione. «Sembrava un vero personaggio rock’n’roll, era la persona giusta con cui mettere in piedi una band».
Labelle ha abbandonato le cover e con Notto, il bassista Justin Smolian e il batterista Corey Coverstone ha iniziato a scrivere pezzi originali come Fire Away o la ballata Down the Road. Il quartetto ha preso il nome di Dirty Honey dopo che Labelle ha sentito Robert Plant parlare degli Honeydrippers da Howard Stern e ha cominciato a mettere il piedi uno show da portare nei club.
«Lì parti dal basso e il rispetto del pubblico te lo devi guadagnare», dice Labelle. «Il problema dei cantanti che senti a American Idol o a The Voice è che non sono mai passati dai club. Magari hanno un voce incredibile, ma non hanno presenza e sono incapaci di stabilire un legame emotivo con quel che cantano».
Sul palco e nell’EP d’esordio autoprodotto Dirty Honey, Labelle evoca gli stili di Robert Plant e di Steven Tyler, con un tocco di Chris Cornell, mentre Notto suona come i suoi eroi Brian May e Slash, con qualche passaggio di chitarra slide. Labelle ammette che il primo singolo Fire Away era un tentativo di proporre uno stile più alternativo, prima di decidere di sposare un suono tutto chitarroni e ampli. «Al posto di fare quel che ci veniva naturale, cercavamo di battere una strada nuova», ammette.
Seguire il proprio istinto è stata una buona idea. In ottobre il singolo blueseggiante When I’m Gone è arrivato al numero uno della classifica Active Rock Songs di MediaBase; la band ha aperto per i Guns e per gli Who; ha cumulato oltre 14 milioni di stream. I Dirty Honey attirano una fan base che si sente orfana di una certa musica. Molti concerti del tour da headliner ha fatto segnare il sold out e loro hanno incassato qualcosa come 8000 dollari a sera solo di merchandise, una cifra impressionante per un gruppo indipendente che suona rock vecchio stile, non esattamente alla moda.
«L’ho sentito dire un milione di volte: il rock’n’roll non produce stream. E però i gruppi rock vendono un sacco di biglietti e di merchandise», dice Labelle, che non pensa che un’etichetta discografica abbia molto da offrire. «Siamo stati in giro con un sacco di gente, abbiamo parlato con rockstar che ammiro e nessuno mi ha mai detto cose positive delle etichette per le quali incidono».
Non che i Dirty Honey facciano tutto da sé. Sono impegnati nella pre-produzione del loro album di debutto con il produttore Nick DiDia, che nel ruolo di ingegnere del suono di Brendan O’Brien si è fatto le ossa sugli LP di Pearl Jam e Rage Against the Machine. Per registrare l’EP la band è andata nello studio dei DiDia a Byron Bay, in Australia («Una questione di costi», assicura Labelle, «gli studi a Los Angeles sono davvero cari»), ma a causa della pandemia ora collaborano col produttore via Zoom.
La speranza di Labelle è che il primo album dei Dirty Honey riaccenda il fuoco del vecchio rock come anno fatto tempo fa Greta Van Fleet e Rival Sons. «Pensavo che dopo di loro sarebbe venuto fuori un po’ di vero rock’n’roll, ma la scena è ancora poco popolata», dice. «Siamo felici di entrarne a far parte».
Labelle è convinto che i loro accordi a tutto volume alla fine attireranno i fan. «Vai su Sunset Strip o fatti un giro a Nashville. Vedrai gente con addosso magliette di Rolling Stones, Who, Led Zeppelin. C’è fame di rock’n’roll».