Che ci faceva una cantautrice elusiva, delicata e tutt’altro che appariscente come Anaïs Mitchell nell’elenco delle 100 personalità più influenti d’America compilato nel 2020 da Time Magazine? Se l’è chiesto anche lei, probabilmente, un po’ lusingata e un po’ imbarazzata. Non è mica Billie Eilish, e neanche Taylor Swift. Ma è successo che la sua “folk opera” Hadestown, una rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice nata come rappresentazione teatrale e poi diventata anche un disco, le è sfuggita felicemente di mano diventando un musical di successo a Broadway premiato con ben otto Tony Awards.
Un disco “politico” ispirato alla recessione economica, Young Man in America, e un paio di progetti dedicati alla rivisitazione del repertorio folk britannico tradizionale (uno dei quali, Bonny Light Horseman, accanto ad altre due figure di spicco del mondo indie statunitense, Josh Kaufman ed Eric D. Johnson) hanno chiarito subito dopo le sue intenzioni, un desiderio di continuare a fare musica senza badare troppo alle attese del pubblico e del mercato. La conferma arriva in questi giorni con un album omonimo, il primo con composizioni originali da dieci anni a questa parte, realizzato con Kaufman (anche produttore) e con musicisti abituati a muoversi con nonchalance tra rock, folk, jazz, classica e sperimentalismo come l’arrangiatore Nico Muhly e Aaron Dessner dei National.
È un disco sognante e intimista, nato e concepito in piena pandemia quando Anaïs, in attesa di una seconda bimba, e suo marito Noah Hahn hanno deciso di abbandonare New York per tornare a vivere nel Vermont, dove la cantautrice è nata quarant’anni fa: contiene musica illuminata dalla luce naturale di uno degli Stati più verdi d’America e attraversata da ombre notturne, con qualche cartolina dalla Grande Mela più romantica e bohémienne e molti ricordi d’infanzia e familiari. «Vogliamo rinnovare e allargare la casa in cui vivevano i miei bisnonni, nella fattoria di famiglia», spiega. «Nel frattempo viviamo a pochi minuti di macchina, nella cittadina dove andavo al liceo. Per me è un po’ come chiudere un cerchio».
Quando qualcuno intitola un album a suo nome, di solito lo fa per comunicare che si tratta di un disco molto personale.
Credo sia la prima volta che pubblico una raccolta di canzoni in cui sono sempre io a parlare in prima persona, raccontando me stessa. Non solo in Hadestown, che era un’opera teatrale, ma anche in Young Man in America e negli altri miei dischi precedenti ho spesso assunto le voci di altri personaggi per narrare le loro storie. C’era molto di me anche lì, ma era come se scegliessi in qualche modo di travestirmi. In questo album di travestimenti non ce ne sono. Ci sono sempre io, e anche per questo ho voluto intitolarlo così. Era parecchio tempo che non pubblicavo musica a mio nome: ho voluto dare un segnale e spiegare come diventano le mie canzoni quando ne sono l’unica autrice.
È stato difficile mettersi a nudo come forse mai avevi fatto in passato? Rivelare le tue esperienze ed emozioni profonde?
In realtà durante il processo di registrazione mi sono sentita molto confortata, sapendo di avere intorno persone che si prendevano cura di me. Il nocciolo della band era composto da amici: Josh Kaufman, il produttore, suona con me anche nei Bonny Light Horseman, mentre il batterista JT Bates e Michael Lewis, che suona il basso ma anche il sassofono, non ci hanno pensato due volte ad affrontare un lungo viaggio in macchina, da Minneapolis alla Hudson Valley, per venire a registrare nel momento in cui nessuno se la sentiva di salire a bordo di un aereo. Sono musicisti brillanti, adoro il loro modo di suonare. E mi piaceva averli vicino, nella stessa stanza, per fargli ascoltare di persona il materiale su cui stavo lavorando. Con loro mi sono sentita al sicuro e le session sono state molto piacevoli. Ci trovavamo a un paio d’ore a Nord di New York, in una meravigliosa e strana chiesa chiamata Dreamland che si trova a Hurley, vicino a Woodstock. È uno spazio estremamente vivo, in cui senti riflettersi la tua voce e gli strumenti di chi ti suona accanto. L’esatto contrario di tanti studi dal suono chiuso e ovattato in cui i musicisti sono isolati uno dall’altro: spesso il suono si disperdeva passando da un microfono all’altro ma era proprio quello che volevamo per un disco come questo.
Anche se l’hai lasciata per il Vermont, New York è molto presente nel disco. Andartene via ti ha permesso di guardarla da una prospettiva diversa?
Certamente. Ho cominciato a scrivere Brooklyn Bridge quando vivevo ancora in città. Avevo già l’inciso ma non volevo farne un pezzo troppo romantico, abbandonarmi a una visione troppo idealizzata. Poi, quando me ne sono andata, non ho più avuto remore. Per me New York ha significato tante cose: quando ero una ragazzina e stavo in Vermont la immaginavo come un posto mitico in cui sognavo di andare a vivere. Come tanti, la vedevo come il posto in cui si va in cerca di fortuna, dove gli artisti trovano qualcuno disposto a dargli ascolto, dove i sogni e le ambizioni si possono realizzare. Ma stare a New York, in un certo senso, era anche come essere a casa, è lì che ho frequentato le scuole elementari. Per me era contemporaneamente una città dalle dimensioni extralarge e a misura d’uomo.
C’è luce e c’è oscurità, in queste canzoni. Diverse hanno un’ambientazione notturna, anche se nelle tenebre c’è spesso una stella a fare da guida.
Gran parte del disco parla dell’esperienza del crescere. E racconta un momento preciso: quando, dopo avere vissuto a New York per sette anni lavorando a tempo pieno su Hadestown, mi sono ritrovata pronta a una ulteriore evoluzione artistica ma anche incinta di nove mesi. Proprio mentre il Covid-19 colpiva duro la città, con mio marito abbiamo deciso di punto in bianco di andarcene, abbiamo caricato i bagagli sul furgone e siamo ripartiti per il Vermont ritrovandoci immersi di colpo nella sua quiete e nella sua immobilità. I primi giorni di pandemia per molti sono stati altamente drammatici, ma c’era anche l’altra faccia della medaglia: ho ascoltato i racconti di tanta gente che è stata capace di staccare la spina e di cambiare il suo modo di vivere. Anche noi ci siamo ritrovati con una bimba appena nata, la seconda, in un meraviglioso ambiente naturale. È stata una specie di liberazione, che mi ha permesso di conquistare finalmente una prospettiva sulla mia esistenza: per dieci anni ero andata avanti a testa bassa, facendomi strada a fatica. Cercavo di finire il mio musical, di fare fronte alle nuove responsabilità dettate dall’essere madre… e improvvisamente ho potuto rialzare la testa, guardare verso l’alto. Rivedere le stelle, che in Vermont ti appaiono nitidissime. E incontrare di nuovo la mia famiglia, i miei genitori. Per me è stato un vero spartiacque (Watershed è anche il titolo dell’ultima canzone del disco, nda).
Oggi, alzandomi presto la mattina, posso sentire gli uccelli cantare e per me si tratta di una novità assoluta. Sono nate così queste canzoni che ricordano anni spesi tra ambizioni giovanili, battaglie, viaggi e sogni. Ma il disco parla anche della mia vecchia vita, del lato romantico del far tardi la notte e delle esperienze che ho vissuto a New York: On Your Way (Felix Song) racconta di quando con il mio amico Felix McTeigue ci esibivamo in piccoli club davanti a cinque persone, muovendo i primi passi nell’ambiente con lo stesso manager. Lui è poi diventato un autore e produttore molto richiesto a Nashville, ma purtroppo è morto improvvisamente nell’estate del 2020. Siccome non c’era modo di ritrovarsi con gli amici a condividere il lutto, ho potuto elaborarlo solo scrivendo una canzone. Credo che molti pezzi del disco stiano a cavalcioni tra questi due mondi. Sono un ponte tra la gioventù e la maturità, tra la notte e il giorno.
Mi pare che quel senso di stupore e di incanto indotto dalla contemplazione della natura e da certi ricordi affettuosi si rifletta bene nella veste che avete scelto di dare alle canzoni. Un suono fluttuante, quasi sospeso…
Credo sia il prodotto di due elementi diversi. Quando abbiamo dato vita ai Bonny Light Horseman, io e Josh abbiamo scelto di suonare le nostre chitarre con un’accordatura aperta in re. In quel modo ti basta sfiorare lo strumento per ricavarne accordi ampi e bellissimi, ronzanti come bordoni. E così, nel momento in cui mi sono rimessa a lavorare con un’accordatura standard, come nel caso di Hadestown, mi sono sentita come se mi costringessero a indossare un busto stretto e scomodo. Anche in queste nuove canzoni, dunque, ho preferito suonare spesso con una accordatura aperta in do e il suono che ne è uscito è molto sciolto, rilassato. A un certo punto è entrata in gioco anche la sensibilità particolare di Kaufman come produttore: aveva in testa un’idea precisa, voleva essere sicuro che la voce e i testi fossero il vero motore del disco. Gli strumenti entrano in competizione tra loro sul piano melodico, ma Josh ha voluto creare uno spazio accogliente, grandioso e rigoglioso in cui le parole delle canzoni potessero muoversi in libertà.
Siete un circolo di amici che si ritrova ormai in vari progetti artistici: tu, Kaufman, Aaron Dessner dei National, Justin Vernon e gli altri musicisti del giro Bon Iver. Che cosa vi accomuna?
Devo riconoscere a Justin e ad Aaron il merito di essere sempre molto interessati alle collaborazioni, ad aspetti della creatività artistica che non hanno necessariamente a che fare con il music business e con l’industria. I Bonny Light Horseman sono nati quando io, Josh ed Eric siamo stati invitati a suonare a un festival che avevano organizzato a Eau Claire, in Wisconsin. Si trattava di esibirsi su un grande palco, davanti a tanta gente, e non avevamo neanche un nome. Abbiamo accettato, ovviamente, ma abbiamo dovuto trovarne uno in fretta e inventarci un repertorio da suonare. Sempre loro, all’inizio di quell’estate, avevano promosso una residency artistica a Berlino: hanno chiamato anche noi, offrendoci buon cibo, vino e un posto in cui dormire. «Suoniamo insieme, e vediamo quel che succede», è quel che ci hanno detto: non c’era proprio l’idea di realizzare qualcosa da proporre in pubblico, ma quel senso di libertà ci ha permesso di rientrare in contatto con la nostra creatività con una gioia quasi infantile, tanto che metà dell’album lo abbiamo registrato lì. Justin e Aaron hanno saputo creare una comunità artistica: sono arrivati a un punto della loro carriera in cui, raggiunto un notevole successo in termini commerciali, nutrono la curiosità e il desiderio di espandere la loro identità.
Da dove arriva il tuo interesse per la musica folk britannica? In passato, insieme a Jefferson Hamer, hai anche reinterpretato su disco alcune delle cosiddette Child Ballads, canzoni tradizionali inglesi e scozzesi raccolte dallo studioso americano Francis James Child nella seconda metà del 19° secolo…
Sono cresciuta ascoltando un po’ di quella musica, anche se quando ho iniziato a scrivere ero più interessata all’espressione poetica che ritrovavo nelle mie cantautrici preferite, Ani DiFranco e Tori Amos. A un certo punto, però, non puoi non risalire ai progenitori e alle progenitrici: a me è successo quando a inizio carriera mi sono ritrovata ad andare in tour in Inghilterra, in Irlanda e in Scozia. La gente con cui sono venuta in contatto ha cominciato a farmi conoscere le canzoni della sua tradizione e quei fantastici interpreti del folk delle Isole Britanniche. Per me che sono sempre stata molto interessata all’aspetto testuale della musica è stata una rivelazione. Il primo artista di cui mi sono innamorata è stato l’irlandese Paul Brady, poi ho scoperto Martin Carthy e Anne Briggs. La loro lingua conservava per me un che di esotico, mi sono sentita inesorabilmente attratta dalle storie e dal misticismo di quel repertorio. Mi tocca nel profondo, mi fa sentire come se mi abbeverassi a un pozzo profondo.
In una delle canzoni chiave del nuovo disco, Bright Star, canti della gioia di tornare a casa. Non hai più voglia di viaggiare in giro per il mondo?
Molti di noi hanno approfittato del primo anno di pandemia per darsi una ripulita e rimettere in ordine le proprie cose. Almeno per me, quello è stato l’unico modo di trovare un senso in una situazione terribile. In quel momento, restare a casa per me è stato salutare, una cosa che avevo bisogno di fare da tanto tempo. Ma ora, dopo tre anni, quel senso si è perduto. Non vedo l’ora di rimettermi a viaggiare e di andare in giro con la band che ho allestito per il prossimo tour, chitarra, basso e batteria. Qualunque musicista, dopo che per così tanto tempo non ha potuto farlo, si rende conto che suonare dal vivo è una delle cose che gli procurano più gioia.
Hadestown è stato un progetto di grande successo, partito su piccola scala e diventato via via sempre più grande. Ti ha sorpreso, la reazione del pubblico e della critica?
Se qualcuno mi avesse detto che sarebbe finito a Broadway e avrebbe vinto dei Tony non ci avrei creduto di sicuro, quando ho iniziato a lavorarci. Però ho capito da subito che in quel progetto c’era qualcosa di magico. Che c’era altra strada da percorrere, altri luoghi in cui farlo arrivare. Ci sono voluti anni di lavoro per portare lo spettacolo nel primo teatro off di New York. Poi, prima di arrivare a Broadway, lo abbiamo presentato in Canada e a Londra. Un passo dopo l’altro. Ma non sarebbe durato così a lungo se non avesse avuto in sé qualcosa di speciale.
Tanto che Time ti ha inclusa nella lista delle 100 personalità più influenti del 2020. Che ne pensi? Sei sospettosa, nei confronti della celebrità?
Ho sempre pensato di avere più ambizioni come autrice che come performer. Ci sono persone che ambiscono fortemente alle luci della ribalta, ma io non sono così. E comunque, nel caso di Hadestown, le attenzioni si sono concentrate sullo show più che sugli autori e sugli interpreti. Ovviamente sapere che la gente è toccata dal tuo lavoro significa molto. Ma è anche vero che se ti metti a pensare troppo alle conseguenze diventa difficile seguire la tua musa.
Abitare in campagna, nel Vermont, ha cambiato la tua percezione di cosa significhi vivere oggi negli Stati Uniti e di quanto sta accadendo nel Paese?
Il Vermont è uno Stato agricolo, e quando si pensa all’America rurale si pensa di solito a un’America molto conservatrice. Ma in realtà in questo Stato è in corso una specie di esperimento politico molto interessante; è un posto in cui negli anni ’70 si sono trasferiti molti hippie, compresi i miei genitori, attratti dalla possibilità di coltivare la terra e di stare a contatto con la natura. Ci sono anche famiglie più anziane e conservatrici, certo, legate però ai valori tradizionali piuttosto che alle idee di Trump. Non viviamo grandi conflitti culturali, qui: io stessa ho votato per un governatore repubblicano, Phil Scott, un grande leader neppure troppo conservatore che ha saputo conquistarsi anche i voti di molti elettori democratici. Da queste parti è consuetudine che i membri della comunità si incontrino periodicamente per discutere questioni comuni, che gli abitanti del quartiere decidano insieme i budget scolastici e cose del genere. È un posto in cui, quando nevica forte e un’auto finisce in un fosso, tutti si fermano per dare una mano e tirarti fuori dai guai. Mi sento fortunata, perché per il resto l’America di oggi mi fa paura. Se vivi in Vermont o in una grande città forse non te ne accorgi, ma c’è un sacco di gente che vive facendo affidamento su fonti di informazione diverse dalle nostre. In quelle condizioni diventa difficile separare il vero dal falso.
Eppure molti tuoi colleghi hanno celebrato con gioia l’elezione di Joe Biden. Si è già spento, quell’entusiasmo?
La proliferazione della cattiva informazione è un problema persistente, così come lo è la demonizzazione della parte avversa. Non c’è spazio per il dibattito: succedeva con Trump e continua a succedere con Biden, ora che si avvicinano le elezioni di metà mandato. Ci eravamo abituati al doomscrolling, alla ricerca ossessiva di cattive notizie. Quanto meno Biden ha riportato in circolo l’idea che la politica possa essere una cosa noiosa.