Shirley Manson: «Non sono madre, ma sul palco gli spettatori diventano tutti figli miei» | Rolling Stone Italia
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Shirley Manson: «Non sono madre, ma sul palco gli spettatori diventano tutti figli miei»

I Garbage suoneranno il 26 giugno a Milano. La cantante racconta a che punto è la band, il disco che uscirà nel 2025 e che sarà «un gran finale», l’idea che «tutto è politica» e perché si sente un po’ mamma e un po’ sacerdotessa

Shirley Manson: «Non sono madre, ma sul palco gli spettatori diventano tutti figli miei»

Shirley Manson sul palco coi Garbage

Foto: Sharon Dobson

Negli anni ’60 Muriel Flora cantava in un complesso locale a Edimburgo. Nel resto del tempo era semplicemente la madre di Lindy-Jane, Sarah e Shirley, la più sensibile alle arti musicali delle tre. Da grande, Shirley diventerà la frontwoman di una delle band alternative rock più celebri di sempre, i Garbage, con cui comunicherà le proprie idee al mondo. «La mia famiglia mi ha insegnato a discutere delle cose, ad aprirmi al dibattito, mio padre era un docente universitario e mi ha sempre incoraggiato a difendere le mie ragioni». Lo racconta in questa intervista realizzata pochi giorni prima del ritorno dei Garbage in Italia. La band si esibirà il 26 giugno al Magnolia di Segrate (Milano) e dopo l’estate 2025 pubblicherà un nuovo album. «Come tutti i dischi del nostro repertorio, anche questo rappresenterà un gran finale».

Cosa pensi dello stato attuale delle cose in Europa?
Ho il cuore a pezzi per quanto accade non solo in Europa, ma in tutto il mondo. All’origine di ciò che sta succedendo c’è fondamentalmente la paura che porta gli uomini a comportarsi miseramente. È inquietante e sconvolgente dover constatare che si sta perdendo il filo della storia. Il mondo ci educa e ci incoraggia a pensare soltanto a noi stessi, nelle nostre agende non c’è posto per gli altri. È così in Europa, ma anche nel Regno Unito e in America, l’onda crescente della destra è una realtà ovunque ed è allarmante.

È questo ciò che davvero ti preoccupa del presente?
Sì, perché vedo la sofferenza moltiplicarsi. Se fai del male a qualcuno, presto o tardi qualcuno farà del male a te. E se non ci sarà più nessuno a proteggerti, sarà terrificante.

Con questi presupposti, come frontwoman di una rock band che cosa senti l’urgenza di dire al mondo?
Sono sempre stata una persona schietta e diretta, sono cresciuta in una famiglia che mi ha insegnato a discutere delle cose, ad aprirmi al dibattito, mio padre era un docente universitario e mi ha sempre incoraggiato a difendere le mie ragioni. Al tempo stesso i miei genitori mi hanno educata all’amore verso gli altri, gli animali e la natura. Quegli insegnamenti hanno messo profonde radici in me e plasmato una personalità che non ho mai desiderato cambiare, neanche quando mi sono ritrovata a essere un personaggio pubblico. Tutti si espongono per le cose in cui credono e lo stesso facciamo noi musicisti che non diversamente da tutti gli altri esseri umani abbiamo il diritto di parlare di ciò che ci sta più a cuore. La gente vorrebbe che dicessimo pubblicamente da che parte politica stiamo, ma non comprende come in realtà tutto è politica. Ogni decisione presa, per noi stessi o per i nostri figli, ha delle implicazioni di natura politica. E non mi stancherò di ripeterlo.

Affermare a gran voce le tue opinioni è un modo per dire «ehi, siamo ancora qui» oppure un modo per dimostrarti vicina a chi soffre?
Nessuna delle due, ad essere sincera. È un’espressione di ciò che sono in quanto essere umano. È il mio modo di interfacciarmi al mondo, di comunicare con gli altri. Non parteggio per nessun uomo politico in particolare perché non mi fido dei politici e molti non li rispetto neanche, non milito in nessun partito, ma questo non significa che non mi interessi il mondo in cui vivo e le persone che ne fanno parte.

Quanto ti importa che le tue opinioni vengano udite non soltanto dai fan?
Non mi interessa che qualcuno mi senta, non è questa la ragione che mi porta a parlare. I potenti ci vorrebbero silenti e restii ad esprimere le nostre opinioni, ma io non ci penso proprio a starmene zitta. Mi rifiuto. Per esistere in questo mondo dobbiamo parlare, esprimerci per ciò che siamo, difendere ciò in cui crediamo e amiamo. Prendo parola non perché desidero che qualcuno approvi ciò che sto dicendo ma perché esprimersi significa nutrire la civiltà. È sano. Sarebbe folle pensare il contrario.

Foto: Jen Rosenstein

La storia dei Garbage non è un racconto breve, ma una narrazione che dura da tre decenni. A che punto siamo?
Per essere del tutto onesti, la mia storia come musicista dura in realtà da quattro decenni, da quando ancora non ero una componente dei Garbage. In quanto donna ho potuto rendermi conto di come sia assurda l’industria discografica e di quanto sia difficile farne ancora parte per ovvie ragioni. È una macchina molto competitiva e spietata e mi ritengo incredibilmente fortunata ad aver fatto il mio percorso. Non ho mai dato nulla per scontato, non sono stata pigra e non mi sono lasciata spaventare dagli inevitabili momenti bui, crescendo è diventato tutto più complicato perché ho compreso quanto complesso sia questo lavoro. Adesso vedo tutto con maggiore chiarezza, la giovane artista che sono stata era molto insicura, ma oggi so che una carriera è fatta di studio ed esperienza e solo grazie al tempo può diventare interessante, poiché la creatività fluisce in maniera più consapevole e viva. Essere un’artista è un dono di cui sono immensamente grata. I numeri – che da giovane mi ossessionavano – oggi non mi interessano più.

Stai dicendo che non ti interessa il numero di stream che fai?
È una questione di realizzazione personale, ha a che fare cioè con la comprensione di ciò che sono come artista e gli stream hanno poco a che fare con questo. Non sono certo la migliore cantante del mondo e non ho mai desiderato esserlo, né la più grande autrice o interprete, ma miglioro in quello che faccio ogni giorno ed è una crescita che riesco a toccare con mano ogni volta che metto piede in uno studio di registrazione o su un palcoscenico. È decisamente più appagante delle attestazioni che possono arrivare dall’esterno. Guardiamo ad esempio a quello che sta succedendo a Jennifer Lopez, sono certa lei stia soffrendo terribilmente per questo squilibrio tra vita pubblica e lavoro.

Non sei ambiziosa?
Lo sono, a patto che si parli di musica. La massima aspirazione sta nel saper scrivere un pezzo che riesca a connettere le persone tra loro. Portare un prodotto discografico su un palco significa fare un dono a chi è venuto lì ad ascoltarlo. Sapere che qualcuno ti ha scelto mi commuove ancora. Quando abbiamo pubblicato No Gods No Masters, quasi un paio di anni fa, uscivamo dalla pesante cappa della pandemia. Constatare che il pubblico ha amato quel disco e l’ha compreso soprattutto, nonostante la promozione sia stata un disastro a causa delle restrizioni ancora incombenti, ci ha emozionati. Non avrebbe potuto esserci aspirazione più grande.

Che tipo di performer ti senti?
Mi sento madre. E forse anche un po’ sacerdotessa. Da giovane era diverso, mi interessavano soprattutto la tecnica e lo spettacolo, oggi ho la consapevolezza che reggere il palcoscenico con la mia band al fianco è lo scopo della mia vita. Non ho avuto figli, non ne ho mai voluti, ma quando sono sul palco gli spettatori diventano i miei bambini.

Quando uscirà il nuovo album?
Non c’è una data esatta di pubblicazione, stiamo ancora ultimando le fasi finali della produzione, probabilmente vedrà la luce entro la fine del 2025, di sicuro dopo l’estate. Come tutti i dischi del nostro repertorio anche questo rappresenterà un gran finale, perché come mi ripeto sempre: fai in modo che sia il miglior lavoro della tua vita perché potrebbe essere l’ultima cosa che lasci al mondo.

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