Il rock è morto? Provate a dirlo a Shirley Manson, la leader dei Garbage. Dopo l’album Strange Little Birds del 2016 la band di Stupid Girl, Only Happy When It Rains e I Think I’m Paranoid, esplosa a metà degli anni 90 con un mix di chitarre grunge, beat elettronici e ritornelli accattivanti, sta per tornare. Ci vorrà ancora un po’ per sentire il nuovo disco, dice la cantante originaria di Edimburgo, ma tutto è già deciso: «Abbiamo iniziato a lavorarci un anno fa in California e cominciato a registrare quest’anno, l’idea è di tornare in studio a settembre, salvo imprevisti dovremmo terminare per la primavera del 2020». Nel frattempo il quartetto che accanto alla Manson vede Duke Erikson, Steve Marker e quel Butch Vig tuttora acclamato come il produttore di Nevermind dei Nirvana sarà in Italia il 9 luglio all’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera (Bs) per il festival “Tener-a-mente”. È da quasi 30 anni che suonano insieme e nemmeno Shirley sa bene come sia possibile far durare una band così tanto: le chiediamo il segreto della longevità e per tutta risposta esclama «non ne ho idea!» e scoppia a ridere. Ma insistiamo.
Ci avrai riflettuto qualche volta…
Credo sia stata anche fortuna, tenere assieme un gruppo così a lungo è raro, la maggior parte delle band prima o poi finisce per sciogliersi. Nel nostro caso forse ha giovato il fatto che siamo democratici: ogni componente del gruppo ha sempre avuto la possibilità di esprimersi, di crescere come artista, di sentirsi parte di un progetto comune. Ossia quello di scrivere delle belle canzoni nel nostro stile, canzoni che possano significare qualcosa per qualcuno e durare nel tempo: il nostro obiettivo è questo da sempre. Purtroppo tante altre band non ci sono più anche a causa del modo in cui l’industria discografica si è evoluta, è sempre più difficile sopravvivere.
È anche vero che vi siete presi delle lunghe pause tra un album e l’altro. Con Strange Little Birds, del 2016, siete tornati al sound delle origini, adesso cosa dobbiamo aspettarci?
Non riesco a dare anticipazioni perché non stiamo procedendo secondo una logica vera e propria. In generale tendiamo a buttare giù idee per testi e melodie in modo frammentato e solo in un secondo momento mettiamo più elementi insieme e costruiamo le canzoni in studio, dove qualcosa viene buttato via e qualcos’altro affiora. È un modo un po’ strambo di comporre, credo dipenda dal fatto che abbiamo tutti un background DIY. Non so se ha senso, ma penso sia così.
No Horses, il singolo che avete pubblicato nel 2017, è da considerare un’anticipazione del disco?
Non sono sicura, a me piacerebbe molto inserirlo nella tracklist, ma ne discuteremo più in là. Sarei per il sì, perché è un pezzo che si discosta parecchio da ciò che abbiamo scritto in passato e perché quando lo facciamo dal vivo la reazione del pubblico è incredibile. Vedremo, devo ammettere che come atmosfere è un po’ distante dal materiale che abbiamo tra le mani al momento.
In quel brano intriso di suoni industrial si percepisce rabbia, il testo descrive un futuro distopico.
Il tema di fondo è la distruzione del pianeta. Un giorno, durante un giro per la campagna scozzese, ho incrociato dei cavalli, mi sono sembrati meravigliosi e ho cominciato a pensare a quanto, nel corso della storia, questi animali siano stati valorizzati in vari ambiti. Ma oggi? A cosa serve un cavallo oggi? Quando sono tornata a casa l’ho chiesto a mio marito (il produttore Billy Bush; ndr) e ci siamo detti che perlopiù i cavalli sono diventati animali per ricchi, chi non ha soldi non può certo permettersi di averne uno. Lì ho sentito una sensazione di panico salirmi nello stomaco che mi ha ispirato altri pensieri legati a questi tempi assurdi.
Ossia?
Nell’era di Donald Trump sembra che il valore delle persone dipenda da quanti soldi fanno. E ho iniziato a preoccuparmi per il futuro dei cavalli (Ride).
I cavalli come metafora di una società classista?
Di una società dove la bellezza che non genera denaro viene distrutta. Perché se non dai valore a qualcosa, quel qualcosa si estingue, finisce per scomparire. Mentre io ritengo preziose tantissime cose che non generano denaro: l’umanità, i sentimenti… Ci credo sul serio, al contrario di chi ci governa, che pensa che le persone indigenti o che fanno fatica ad arrivare a fine mese non valgano quanto la gente ricca.
Nel 2018 hai vinto l’NME Icon Award. Ma ti senti un’icona?
(Ride) Non do importanza a certe etichette, ma ammetto che ricevere un riconoscimento da parte di questa rivista in particolare, che da ragazzina adoravo, significa qualcosa per me. Avrebbero potuto premiarmi per qualsiasi cosa, non è il motivo che mi interessa, né prendo seriamente la definizione di icona, anche perché ormai è talmente inflazionata…
Tu stessa, però, hai sottolineato più volte che i giornali non ti hanno sempre rispettata come artista, che si è data spesso più importanza al tuo aspetto fisico che ad altro.
Non credo esista una giovane artista donna che non abbia subìto questo trattamento. A me è successo non solo ai tempi degli esordi, ma nel corso di tutta la mia carriera. Si chiama misoginia e c’è in tutte le tipologie di media. Certo, quando ero agli inizi è stato terribile, poi le cose sono pian piano migliorate e ora grazie al movimento #MeToo credo che i giornalisti stiano più attenti a come parlano delle donne. Ed è giusto così.
Posso chiederti che opinione hai delle cosiddette “riviste femminili”? Non trovi che talvolta ci sia sessismo pure lì?
È un discorso complesso, perché anche quelle riviste sono frutto di un sistema patriarcale in cui tante giornaliste si sono ritrovate a lavorare, pagando un prezzo per la loro realizzazione professionale ed economica. Di fatto vivono una situazione impossibile da gestire diversamente. Ma ora con i social abbiamo altri mezzi per far sentire la nostra voce e per la prima volta potenzialmente tutte insieme da ogni parte del mondo. Questo ha migliorato le cose più rapidamente che in passato e sono convinta che con le nuove generazioni sarà sempre meglio. Negli Usa Trump vorrebbe modificare la legge sull’aborto, ma non ha capito che più oserà andare in quella direzione, più le proteste aumenteranno: ci sta solo facendo un favore, il #MeToo insegna.
Che cosa?
Con quel movimento c’è stata un’esplosione improvvisa di voci femminili che hanno raccontato nel dettaglio storie di molestie sessuali avvenute in tutti i contesti possibili. Il punto è l’educazione, tendenzialmente si è insegnato ai bambini maschi a considerare le donne il sesso debole, espressione non casuale, con tutte le conseguenze che conosciamo. Ci sono anche casi di donne violente, non lo nego, ma le statistiche parlano chiaro, le donne sono perlopiù vittime e i dati sono impressionanti, descrivono un problema sistemico, pandemico. Non siamo solo noi donne a doverci far sentire, però, dovrebbero farlo anche gli uomini che stanno al nostro fianco.
Prima hai accennato ai cambiamenti dell’industria discografica. Oggi chiunque può registrare un disco con un laptop e diffonderlo online. Il che sarebbe fantastico se non fosse che così l’asticella si è abbassata.
Sono d’accordo. Il problema è che Internet e i social hanno spinto l’industria musicale a puntare tutto sul marketing di massa, e quest’ultimo non fa che creare omologazione al ribasso. Perché se devi piacere alle masse devi scrivere canzoni facili da digerire come un pezzetto di cioccolato, brani facili da canticchiare, assimilare e dimenticare velocemente. Quante canzoni escono ogni settimana nel mondo? Le maggiori case discografiche hanno accelerato sempre più questo processo per fare più soldi, di fatto si sono trasformate in società di distribuzione di prodotti di massa.
Qualcuno ti direbbe che è sempre stato così, lo sai, vero?
Ma è ovvio che certi prodotti ci sono sempre stati, ma prima altre forme di musica erano comunque supportate. Abbiamo un mucchio di popstar che si godono i loro 15 minuti di celebrità, per dirla alla Warhol, mentre chi fa musica dal valore artistico resta relegato in un angolo, come esponente di una sottocultura che prima, ripeto, veniva considerata, rispettata, valorizzata. Ora non più, ed è spaventoso.
Intanto hai deciso di rubarci il mestiere, confezionando interviste a Courtney Love, Perfume Genius, Karen O e altri per il nuovo podcast The Jump: com’è andata?
La prima intervista che ho fatto è stata quella a Esperanza Spalding, sono una sua grande ammiratrice, prima di incontrarla ero nervosa! Per fortuna mi ha messo a mio agio. Amo conversare, sono curiosa, mi piace confrontarmi con opinioni e visioni diverse dalla mia, per cui mi è piaciuta quest’esperienza. E poi la musica è la mia passione anche come ascoltatrice, e dato che come dicevamo tanti musicisti sono sottovalutati… Però è stressante fare domande agli artisti!
Hai intervistato anche Courtney Love, di cui hai detto che è stata fraintesa
È stata ed è tuttora ritratta dai media come una sorta di strega! È l’archetipo della rockstar donna e viene addirittura accusata di aver ammazzato Kurt Cobain. Era suo marito, mi sembra davvero eccessivo. Non la conosco bene, ma tutte le volte che l’ho incontrata mi ha dato l’impressione di essere una donna sensibile, dolce, intelligente, solo che è selvatica, vive il mondo con sguardo critico e questo dà fastidio.
In alcune date di questo tour avete Beth Jeans Houghton, alias Du Blonde, come supporter. Molto brava lei, l’avete scelta voi?
Quando possibile ci piace invitare artisti che amiamo a suonare prima di noi e in questo caso sì, è stata una scelta nostra. Adoro Du Blonde, è una musicista straordinaria, con molto talento anche per l’aspetto visuale della musica: oltre a scriversi i pezzi, disegna, crea gli artwork, i video. È un’artista autentica, ma fatica a tirare avanti perché non rappresenta ciò che il mercato discografico cerca oggi. Come dicevamo prima, no?