Rolling Stone Italia

Sì, si può uscire vivi all’indie-rock ma serve fare parecchia terapia, parola di The Drums

Una famiglia abusiva, i tour che ti bloccano la crescita, la disparità di classe nell'industria musicale («il 97% dei musicisti al contrario di me è benestante»). Con Jonathan Pierce abbiamo parlato di traumi, amori e terapia: l'essenza del nuovo album 'Jonny'

Foto: Qiao Meng

In una piccola baita nello stato di New York, a cinque ore dalla città, Jonathan ‘Jonny’ Pierce scrive e registra le sue canzoni («odio gli studi professionali sempre e solo pieni di uomini etero») e accudisce la sua nuova cagnolina. Attorno l’unico segno di vita è dato da un treno che passa in lontananza mentre stiamo chiacchierando. Dopo tredici anni di carriera – iniziati con l’enorme successo di singoli come Let’s Go Surfing e Money (ritornato in auge ultimamente grazie a TikTok), scritti a quattro mani con Jacob Graham, che hanno segnato l’epoca dell’indie-rock più giovanile – Pierce è arrivato al terzo disco solista a nome The Drums dopo la dipartita di Graham, un viaggio di sol andata nell’intimità del suo mondo interiore.

Jonathan ha lasciato la città ed è entrato in terapia. Ha abbandonato le pretese della vita da indie-rockstar e si è aperto pubblicamente (e discograficamente) su depressione e ansia, in particolare quella legata alla vita in tour («10 anni di tour hanno interrotto la mia crescita come essere umano») e al bisogno di pubblicare musica per sopravvivere economicamente. Jonny, il sesto disco dei Drums, è il terzo episodio di questo diario aperto ma è sicuramente quello più positivo e pacificato, nonostante nasca dalla condivisione di una serie di traumi giovanili, come la situazione abusiva nella sua famiglia, il rapporto con il padre, la povertà.

Quello con cui parliamo è un nuovo Jonny, madre (come ama definirsi) di tutti quei piccoli Jonny traumatizzati e abusati che vivono in lui, nonché «madre di sedici nuove canzoni» (anche qui sua definizione) che danno vita al nuovo disco targato The Drums. Pierce è ora – finalmente – un uomo in pace con se stesso: «Voglio essere bellissimo».

Dal video vedo che sei in un luogo magnifico: è stato d’ispirazione per questo nuovo album?
Sono molto sensibile ai luoghi che mi circondano, intende non sono ai paesaggi, ma anche proprio agli ambienti, alle stanze. Piuttosto che cercare un posto che mi ispiri, cerco spesso un luogo dove possa sentirmi a mio agio. Ho abbastanza idee e pensieri in testa che non ho bisogno di cercare ispirazione, la mia testa non si ferma mai, figurati! (ride) E voglio fare musica in bei luoghi, non mi piacciono gli studi professionali: non mi piace l’industria.

La tua musica è molto personale, dai temi che tratti ai modi in cui la comunichi, posso immaginare perché gli studi non ti ispirino.
Sì, gli studi sono luoghi molto violenti. Negli album ho sempre cercato di fare uscire la mia voce più autentica, la mia anima, e non sono mai riuscito a sentirmi a mio agio nell’industria musicale. Come si fa a prendere qualcosa di puro e bellissimo e portarlo dentro uno studio in cui probabilmente dovrai lavorare con una persona che nemmeno conosci (sicuramente un uomo bianco e etero, tra l’altro)? È difficile non mettersi dei filtri in quel caso. Con me l’idea dello studio non ha mai funzionato; mi sembra che quel mondo, e quel modo di lavorare, uccida una parte della dolcezza del mio lavoro.

Gli studi però sono anche luoghi in cui si fanno contatti, in cui ci si può aprire a nuove connessioni nell’industry: non pensi di aver perso delle occasioni evitandoli?
Sicuramente, sono certo che la mia carriera avrebbe potuto essere migliore. Ma la musica è ciò che faccio nella mia vita – è la mia vita – e quando morirò è ciò che rimarrà di me: voglio essere bellissimo. Voglio essere orgoglioso di quello che ho fatto.

Chi segue la tua carriera da quel primo e giovanilistico disco dei Drums può dire di aver visto un ragazzino scapigliato crescere e diventare uomo capace di affrontare faccia a faccia i demon della vita.
Hai ragione, ero un ragazzino quando abbiamo registrato il nostro primo album, un lavoro escapista, pieno di sogni. In qualche modo facendo quell’album stavo cercando di scappare da me. Tutta quella roba sulla spiaggia… a me nemmeno piace la spiaggia! (ride) È troppo calda, i miei occhi mi fanno male, non va bene per me! A quei tempi era come se stessi indossando un costume per poter raccontare certe storie. Con Portamento volevo invece ritornare a me, e questo è stato un processo portato avanti di album ad album fino ad oggi. E ad ogni disco penso: “Oddio, sono così aperto, onesto e vulnerabile”. Ma ora se riguardo a quei lavori penso che stessi ancora nascondendo tanto di me. Il disco precedente, Brutalism (2019), è stato il primo che ho scritto dopo aver iniziato terapia, per intenderci.

La terapia ha cambiato il tuo modo di scrivere e pensare la musica?
La terapia ha cambiato la mia vita. Ero nel caos. Mi deprimevo ogni volta che dovevo scrivere un nuovo disco perché probabilmente connettevo la creazione di nuova musica al fatto che avessi iniziato a scrivere canzoni per uscire dall’ambiente abusivo in cui sono cresciuto. La terapia mi ha aiutato a separare queste due cose. Ora mi sento una persona nuova, in una maniera che non avrei mai pensato. La terapia, la mia cucciola, la psilocibina, questa mia nuova casa isolata: tutto questo mi ha aiutato. Ma è un lusso, so che sfortunatamente questo non è possibile per tutti.

Mentre eri in tour per Brutalism hai detto una frase che mi ha colpito: «10 anni di tour hanno interrotto la mia crescita come essere umano».
Ho sempre detto: «Quel divertimento non è mai così divertente per me». (ride) Quando la tua unica opzione è aver quel tipo di sfogo, e questo succede quando sei in giro per lunghi periodi, andare in tour può diventare davvero monodimensionale. Sono una persona che vuole esperienze: sono nato in una famiglia molto povera e ho sempre dovuto farmi il mio culo per guadagnare abbastanza per sopravvivere. Il 97% degli altri musicisti (che conosco o meno) arrivano invece da famiglie benestanti e possono pensare: “Oh che bello, andiamo in tour” oppure “Oh che bello, non andiamo in tour e restiamo a casa a scrivere musica”. Hanno un livello di libertà che io non ho avuto per molto tempo e che mi ha costretto ad essere sempre in giro per poter aver i soldi necessari per incidere altri dischi. E questo mi ha portato ad una vita e ad un modo di vivere i tour monodimensionale. Spesso mi sono sentito un fantasma che girovagava per il mondo e sui palchi. E non sai quante amicizie ho perso o non sono riuscito a sviluppare come volessi perché non ero mai a casa.

E oggi hai trovato una soluzione a questo problema?
Per paradosso il covid mi ha insegnato che posso sentirmi a casa in me stesso e che posso rallentare. E che in tour posso portarmi dietro la mia “casa”.

Spiegaci meglio.
La pandemia mi ha fatto rallentare, ho scoperto la calma. Sono cresciuto in un ambiente rumoroso e abusivo, un posto senza amore. È stato un luogo dov’era impossibile crescere, potevi solo imparare a sopravvivere. Per me la vita è sempre stata: stai sveglio, fai, fai, fai, sopravvivi. Ora sono tutto in un altro posto mentale. Vivo in questo luogo bellissimo, mi sono presa una cucciola di cane, che sto crescendo. E ho scoperto che si può rallentare. Sai, è l’opposto di quello che ti dice l’America e il suo turbocapitalismo: vai, corri, prendi tutto, non fermarti mai. È un messaggio che ti circonda, che respiri nel quotidiano. E invece ho capito che mi piacciono le cose piccole, minuscole, lentissime. Prendersi tempo e dare spazio.

E in Jonny questo spazio che si sente. Non solo all’interno dei brani, ma anche proprio nella struttura dell’album.
Nel disco i brani hanno il loro spazio, sia tra loro che nelle singole canzoni. È un album di 16 brani, molte più del solito, ma che ha molto spazio. Per me era fondamentale che ci fosse. Questo album è una lettera d’amore a tutte le versioni più giovani di me stesso che hanno dovuto trovare il modo di sopravvivere e che non avevano tempo di fermarsi, di apprezzarsi ed essere fieri di sé, di vivere il mondo. Per me è una macchina del tempo per salvare tutti questi piccoli Jonny: “Cosa vi serve? Di cosa avete bisogno?”. Avevo bisogno di far parlare tutte queste parti di me: sono la loro madre.

Alcune canzoni dell’album parlano tra loro. Penso ad esempio a Plastic Envelope e Protect Him Always che secondo me rappresentano il momento più riuscito di Jonny.
È come se una canzone rispondesse all’altra come un genitore e una madre fa come un figlio. In questo caso quel figlio è una parte di me più piccola. Come se stessi rispondendo con saggezza e dolcezza a quel piccolo Jonny: “Stai tranquillo, non c’è bisogno di tutto questo caos, sono qui a proteggerti”. Come se una canzone abbracciasse l’altra. Ho come una famiglia dentro di me che si supporta a vicenda, nella vita e in questo album.

Sei un artista che condivide in maniera profonda la propria intimità, anche quella più dolorosa, senza trattenersi. Non solo nelle canzoni, ma anche nell’estetica, penso alla copertina di Jonny in cui ti sei messo letteralmente a nudo.
Quando faccio musica cerco sempre di scavare dentro me e questo mi dà un entusiasmo simile a quello del bambino. Voglio vivere in un mondo dove si possa parlare di ciò che sentiamo dentro. Non voglio indossare un’armatura e far finta che nulla accade: questo è ciò che ci allontana dagli altri e da noi stessi. Ti racconto questo: l’altro giorno ero in un podcast e due o tre volte mi sono ritrovato a dire “oh quanto sono drammatico”. Poi ci ho riflettuto e ho realizzato che dicevo di essere drammatico ma senza sentirmi drammatico: ero semplicemente normale. È il mondo attorno che mi faceva sentire drammatico, io non sono mai stato così in salute. Sono gli altri che spesso sono drammatici, non io. (ride)

In Jonny ci sono cose molto intense – trauma, abusi, depressione – ma è come se a filtrare tutto questo ci fosse un senso di pace che attraverso l’album.
Sono orgoglioso di questo disco e di me stesso – cosa che non mi sarei mai detto prima e che ancora fatico ogni tanto a credere. Nella prima seduta di terapia, oramai tanti anni fa, dopo l’ora di chiacchierata la terapista mi ha detto: “Vorrei che provassi qualcosa questa settimana, vorrei che provassi ad essere gentile con te stesso”. E ho pensato: “Gentile? Essere gentile non fa da me. La mia vita è dura, mi sono fatto il culo per sopravvivere, non sono gentile, sono intenso”. E ho capito che non sapevo nemmeno come si facesse ad essere gentili. Ma ci ho provato, e dopo un po’ è diventata una seconda natura. E infine è diventata parte integrante di me. Ci sono voluti anni, ma ce l’ho fatta. E non vedo l’ora del prossimo disco per vedere quanto gentile e dolce posso diventare.

Un disco che sicuramente non parlerà di indie-rock, ragazzini e spiagge.
Ne abbiamo avuto fin troppo di indie-rock al mondo, non ce n’è più bisogno. (ride)

Iscriviti