«Siamo diventati meno espliciti per arrivare a più gente», la storica intervista dei Clash | Rolling Stone Italia
Now war is declared

«Siamo diventati meno espliciti per arrivare a più gente», la storica intervista dei Clash

Siamo nel 1980. La band inglese ha da poco pubblicato 'London Calling', un disco che diventa subito un successo: è la volta buona anche per conquistare gli States. Qui lo storico reportage del tour americano di Rolling Stone

«Siamo diventati meno espliciti per arrivare a più gente», la storica intervista dei Clash

I Clash

Foto da Rolling Stone US

«Non capisci. Non puoi lasciare quelle sedie lì». Joe Strummer, cantante e chitarrista ritmico dei Clash, è molto agitato. Tira un’altra boccata dalla sigaretta e si avvicina al direttore del Warfield Theater di San Francisco. «Non vedi», continua Strummer in un sussurro urgente, «la gente distruggerà quelle sedie, cazzo, le strapperà via. Vengono qui per ballare, ed è quello che faranno. Non voglio vedere dei ragazzi schiacciati contro il palco davanti a me solo perché non c’è abbastanza spazio per ballare».

Tra poche ore i Clash dovrebbero salire sul palco di questo palazzo art-deco da 2200 posti per la prima data di un tour di nove concerti in dieci giorni negli Stati Uniti. Il tour arriva dopo l’estenuante tour di due mesi attraverso il Regno Unito e poco prima che il bassista Paul Simonon viaggi verso Vancouver, dove inizierà a lavorare con gli ex Sex Pistols Steve Jones e Paul Cook a un film che parla in parte di una rock & roll band di sole ragazze.

Ma nonostante questo programma frenetico, i Clash e la loro casa discografica statunitense, la Epic, si sono resi conto che dovevano colpire adesso. Dopo aver visto i loro primi due album, acclamati dalla critica, essere praticamente ignorati dalle radio e dagli acquirenti di dischi in questo paese, i Clash hanno pubblicato London Calling all’inizio di quest’anno. Più ampio e accessibile dei suoi predecessori, l’album – un set di due dischi che viene venduto a poco più di un disco singolo – è stato immediatamente preso in considerazione dalle radio FM. Dopo sole sei settimane, si trova nella ventesima posizione delle classifiche e ha venduto quasi 200.000 copie. In questo momento, però, i Clash si trovano di fronte a un altro problema: ritengono che alcune delle sale scelte per questo tour non siano adatte a loro; hanno sedie fissate al pavimento, lasciando poco o nessuno spazio per ballare.

«Basta togliere un paio di file», implora Strummer.

«Ma non possiamo farlo», risponde il manager. «È troppo tardi. Inoltre, i ragazzi hanno i biglietti per quei posti. I tuoi fan hanno fatto la fila per ore per avere quei posti».

«Bene», dice Strummer. «Se sono nostri fan, non ci faranno caso, perché vorranno stare in piedi comunque».

«Allora cosa diciamo quando arrivano con i biglietti e i loro posti non ci sono?”.

«Gli dite che Joe Strummer li ha tolti per farli ballare. Se sono arrabbiati, gli daremo una maglietta gratis o qualcosa del genere».

«Ma ci vorranno ore».

«Qui c’è un sacco di gente che può aiutare. Mi metterò io stesso se c’è bisogno».

«Non possiamo proprio farlo…».

Poco più di un’ora dopo, le prime due file di sedili sono state rimosse. E Joe Strummer non ha nemmeno dovuto mettersi a aiutare.

Con la possibile eccezione dei Sex Pistols, i Clash hanno attirato più attenzione e lodi da parte della stampa di qualsiasi altra nuova band negli ultimi cinque anni. Il loro primo LP, The Clash, pubblicato in Inghilterra all’apice del movimento punk nel 1977, è stato salutato da alcuni critici come il più grande album rock & roll mai realizzato. Le quattordici canzoni che lo compongono saltano fuori con un’intensità così feroce da richiedere che l’ascoltatore si alzi e ne prenda nota, immediatamente. Ma forse – ancora più importanti – sono i testi. Mentre i Sex Pistols e altri gruppi punk guardavano al deterioramento della società inglese con una sorta di nichilismo moralista, i Clash lo osservano attraverso un quadro politico militante che offre qualche speranza. Certo, si prospetterà una lunga battaglia, suggerivano, ma forse potrebbe essere vinta.

Considerato troppo crudo dalla Epic Records, The Clash non fu mai pubblicato nella sua forma originale negli Stati Uniti. Al contrario, nel 1979 fu pubblicato un LP compilation che includeva dieci brani dell’album più sette canzoni tratte da singoli ed EP successivi. (Ciononostante, la versione inglese di The Clash è una delle importazioni più vendute di sempre). Quei 45 giri usciti solo in Inghilterra hanno ampliato lo spettro musicale e i testi attivisti del gruppo rendendo chiaro a tutti di trovarsi di fronte a un gruppo di musicisti determinati a lasciare un segno nel rock & roll.

Con il suo immenso suono di chitarra, il loro secondo album, Give ‘Em Enough Rope, registrato con il co-produttore dei Blue Öyster Cult Sandy Pearlman, ha spinto le cose ancora più avanti. L’LP ha portato il critico Greil Marcus a scrivere: «I Clash adesso sono così bravi che cambieranno il volto del rock & roll, e proprio come implica il loro nome, se ne assumeranno tutti i rischi sul palco»

Con London Calling, i Clash sono maturati su tutti i fronti: l’esecuzione strumentale è più abile e rilassata, anche se non meno intensa. Le canzoni attingono a una più ampia varietà di influenze – rockabilly, R&B, honky-tonk, reggae coprendo una più vasta gamma di argomenti, da Montgomery Clift alla guerra civile spagnola al Tao dell’amore. E il senso dell’umorismo del gruppo, che in precedenza era stato sepolto dal loro Sturm und Drang, è più evidente che mai. Parte del merito va al produttore Guy Stevens, un leggendario del music business britannico. Stevens, che tra l’altro ha prodotto quattro LP per i Mott the Hoople, una band che ha influenzato i Clash, ha trovato il modo di catturare tutti i lati dei Clash su disco.

«Clash City Rockers!» grida Joe Strummer, sbattendo l’asta per microfono sul pavimento del Warfield Theater. Mick Jones si lancia nell’intro della canzone con degli accordi potenti, e la tappa americana del Sixteen Tons Tour dei Clash è ufficialmente iniziata.

«Faremo una canzone su qualcosa che nessuno qui può permettersi», dice Strummer appena terminata Clash City Rockers, e la band intona Brand New Cadillac, un vecchio pezzo rockabilly ripreso in London Calling. Da lì si scatenano in Safe European Home dal secondo album; poi il tastierista Micky Gallagher, prestato dai Blockheads di Ian Dury, si unisce a loro sul palco e il gruppo si lancia in Jimmy Jazz.

Come gli Who, i Rolling Stones nel loro periodo di massimo splendore, o qualsiasi altra grande band di rock & roll, i Clash danno il meglio di sé sul palco. La musica, diffusa a un volume da far tremare le orecchie, assume proporzioni impressionanti; per quasi due ore, l’energia non viene mai meno. Strummer, al centro del palco, incarna questa intensità. Basso e ispido, con i capelli unti all’indietro come una rock & roll star degli anni ‘50, assomiglia in modo impressionante a Bruce Springsteen. Quando prende il microfono, le vene del collo e della fronte si gonfiano, i muscoli delle braccia si tendono e gli occhi si chiudono. Sputa i testi con la carica di uomo che cerca di convincere le autorità della sua innocenza mentre viene condotto alla sedia elettrica. La sua chitarra ritmica, descritta da un amico come simile a un tritatutto, non è meno energica.

Ma i Clash trasmettono anche un senso di divertimento, di festa. Quando Mick Jones e Paul Simonon corrono avanti e indietro sul palco e Topper Headon si dimena alla batteria, non si può fare a meno di ballare. Ed è esattamente quello che fa il pubblico, una folla sorprendentemente mista di punk, capelloni, gay ed etero. Tutti sono in piedi. Centinaia di persone sono ammassate e ballano ai piedi del palco, mentre in fondo alla sala la gente si agita sulle poltrone.

Dopo diciotto canzoni, i Clash lasciano il palco. La band torna con Mikey Dread, il cantante dub che ha aperto lo spettacolo (il dub è una forma di reggae resa popolare dai DJ giamaicani che parlano, cantano e cantano su tracce di supporto). La prima canzone del bis è Armagideon Time, il lato B del singolo inglese London Calling. Quando un riflettore bianco trafigge le inquietanti luci blu del palco e si concentra su Strummer, quest’ultimo inizia a intonare il testo: “Un sacco di gente non avrà la cena stasera/Un sacco di gente non avrà giustizia stasera/La battaglia/Si sta facendo più dura…”. Insieme alle graffianti linee di chitarra di Jones, al basso ipnotico di Simonon e ai lenti riempimenti di organo di Gallagher, l’effetto è inquietante. Quando Mikey Dread inizia a cantare “Clash, Clash” verso la fine, l’intera scena assume un’aria di spaventosa profezia. Cinque canzoni dopo, lo spettacolo è finito e i fan iniziano ad andarsene. Fuori, in Market Street, non si può fare a meno di notare il cartellone cinematografico che sovrasta il Warfield. Si legge Apocalypse Now.

«Ecco, ho capito!». Joe Strummer fa scattare l’otturatore della sua Polaroid SX-70 Sonar nuova di zecca e scatta un’altra foto, in questo caso una che avrà le mie sembianze. Appena uscito da una doccia nel primo pomeriggio, Strummer ha accettato di sedersi a parlare con me prima di partire per il soundcheck. Ma al momento la questione più importante è la sua nuova macchina fotografica.

«Ieri sera una ragazza aveva una di queste nel backstage e non potevo crederci», dice. «Ha detto che costava solo 100 dollari, così sono andato a cercarne una dopo lo spettacolo. Nel primo posto in cui sono andato, costavano 500 dollari o giù di lì, decisamente fuori dalla mia portata attuale. Ma poi siamo andati da Thriftimart e costava solo ottantotto dollari. Incredibile!».

Per certi versi, Strummer è il membro meno accessibile dei Clash. «Non ci fidiamo di chi entra in contatto con noi. Mai completamente», ha detto una volta a un altro scrittore di questa rivista, e nel suo caso sembra essere particolarmente vero. Tende a mantenere le distanze quando si trova in mezzo a persone estranee e spesso sembra rimanere in disparte quando il resto della band è coinvolto in qualche tipo di baldoria. Ventisette anni, Strummer (nato John Mellor) è figlio di un diplomatico britannico; il suo unico fratello, membro dell’Unione Britannica dei Fascisti, si è suicidato.

«Sono cresciuto in un collegio a Epsom, quindici miglia a sud di Londra», dice, giocherellando con la macchina fotografica, quando gli si chiede della sua infanzia. «Non c’è molto da ricordare, se capite cosa intendo. Mio padre lavorava all’estero e mia madre lo seguiva. Dopo un po’ non credo di averci più pensato». Strummer ha una parlantina molto sommessa e, dato che molti dei suoi denti sono marci o del tutto fuori uso, spesso è difficile decifrare esattamente ciò che dice. «Ho scoperto che a scuola non avevo speranze», continua. «Era una noia mortale. Prima sono stato promosso in arte e inglese, poi solo in arte. Poi mi sono ritirato. A diciassette anni ho lasciato la scuola per andare alla scuola d’arte. È stata la più grande fregatura che abbia mai avuto. C’era un mucchio di ragazzi arrapati, che fumavano le Senior Service, indossavano maglioni a collo alto, e cercavano di farsi tutte queste figlie di medici e dentisti che si mettevano le minigonne e cose del genere. E dopo aver preso qualche droga, cose del genere cominciano a sembrare piuttosto strane».

«Un giorno qualcuno mi ha dato dell’LSD, sono tornato a scuola e i miei compagni stavano facendo un disegno. Ero davvero distrutto da questa pillola di LSD, e improvvisamente mi resi conto di quanto tutto fosse un grande scherzo. Il professore stava lì a dire loro di fare questi piccoli segni gonfiati, e tutti facevano: “Sì”, facendo gli stessi piccoli segni. E mi sono reso conto di quanto fossero tutte un mucchio di stronzate. Non era un disegno vero e proprio, ma sembrava un disegno. E improvvisamente ho capito la differenza tra le due cose. Dopo di che, mi è scesa».

La nostra conversazione viene momentaneamente interrotta quando Strummer scorge Topolino in televisione. A quanto pare la sera prima aveva fallito nel tentativo di fotografare qualcosa dallo schermo del televisore e l’apparizione di Topolino gli offre un’altra opportunità. Dopo aver provato varie tecniche, come coprire il dispositivo Sonar con la mano, finalmente ci riesce e riprendiamo a parlare.

«Poi ho passato un paio d’anni in giro per Londra, senza trovare un modo per svoltare. Studiavo tutto il giorno questo numero di Blind Willie McTell, poi la sera andavo in metropolitana e strimpellavo qualche penny [da qui il nome “Strummer”]».

«Fu allora che ci trasferimmo in un terreno abusivo. A Londra stanno demolendo tutte le case popolari e tutti questi posti erano abbandonati. La gente ha iniziato a sfondare le porte e a trasferirsi lì, così abbiamo seguito l’esempio. Bisognava ricablare l’intera casa, perché tutto era stato strappato via. Tubi, tutto. Abbiamo preso uno specialista che è sceso in questa grande scatola sotto le scale, si è messo su un tappetino di gomma e ha preso queste grandi cose di rame e ha fatto un collegamento diretto con la centrale elettrica di Battersea. Bang! Bang! Ho visto alcune esplosioni in questi scantinati bui e squallidi che illuminavano tutto».

«C’è un punto della povertà in cui la stessa diventa divertente. Io ero inutile in tutto questo, ma alcuni dei ragazzi che frequentavo erano in grado di fare qualsiasi cosa. Ed è lì che ho iniziato a fare rock & roll, nel seminterrato di uno di quei posti. Ricordo che avevamo una chitarra acustica e un paio di bonghi rotti, e da lì siamo partiti».

Alla fine, una band chiamata 101’ers (dal nome dell’indirizzo della strada dello “squat”) iniziò a farsi un nome suonando R&B nei pub di Londra. Il gruppo registrò un singolo, Keys to Your Heart per la Chiswick Records, prima che Strummer se ne andasse per unirsi ai Clash. «Finché ero nei pub, ero davvero frustrato», ricorda. «Cercavo solo di incontrare qualcuno, cercavo solo di smuovere le cose. E quando mi è stato offerto questo lavoro, ho capito che era l’occasione che stavo aspettando. Il look di Mick e Paul, capisci? L’attrezzatura che avevano…».

«Ho visto Joe per la prima volta nella fila per il sussidio», mi dice Mick Jones. «Non è una bugia. Ci siamo guardati, ma non abbiamo parlato. Poi ci siamo visti per strada un paio di volte; alla fine abbiamo iniziato a parlare e lui è venuto a casa mia». L’incontro avviene nell’estate del 1976. A quel punto Jones aveva già formato il nucleo dei Clash con Paul Simonon e Keith Levine. (Attualmente membro dei Public Image Ltd. di Johnny Rotten, Levine, chitarrista, ha lasciato i Clash molto presto).

A differenza di Strummer, con cui scrive la maggior parte del materiale dei Clash, Jones è un tipo estremamente affabile. I suoi occhi scuri e accattivanti e il suo sorriso caloroso e strafottente mettono subito a proprio agio qualsiasi nuovo arrivato. È così basso e magro che sembra possa essere facilmente travolto. E come la maggior parte degli altri membri della band, ha scelto di indossare quasi esclusivamente abiti in bianco e nero («Più discreto, non credi?») e di portare i capelli castano scuro all’indietro.

Jones e Simonon hanno entrambi ventiquattro anni e sono originari di Brixton, un quartiere operaio e malfamato nel sud di Londra. «È piuttosto squallido, non è un paradiso», dice Jones. «Sai, ci sono un sacco di immigrati e tutto il resto». I suoi genitori si sono separati quando aveva otto anni e lui è stato cresciuto con una nonna. Anche i genitori di Simonon divorziarono quando lui era giovane, venendo così cresciuto dal padre.

Prima di formare i Clash, Jones frequentava la Hammersmith Art School e suonava nei London SS, precursori musicali dei gruppi punk britannici. Simonon, dopo un anno di scuola d’arte, se ne stava seduto «a pensare a cosa sarebbe successo il giorno dopo, a dove avrei preso la cena, a cose del genere». Non aveva mai suonato il basso prima di entrare nei Clash.

«Ci siamo incontrati per caso», racconta Simonon sul suo primo incontro con Jones. Anche se si presenta come il membro più duro del gruppo, Simonon, alto e dinoccolato, con i suoi capelli biondo sporco e i lineamenti cesellati, ha l’aspetto di un idolo del cinema. «Uscivo con una ragazza e lei era amica di un batterista. Mick stava cercando un batterista e invitò questo tizio alle prove. Io mi sono presentato, il resto è storia».

Sotto la guida dell’allora manager Bernard Rhodes (un tempo collaboratore del leader dei Sex Pistols Malcolm McLaren e, secondo quanto riferito, un’influenza chiave nello sviluppo della posizione politica dei Clash), i Clash firmano un contratto da 200.000 dollari con la CBS Records nel febbraio 1977. Il loro primo album, registrato con il batterista Terry Chimes (ribattezzato per l’occasione Tory Crimes), lo seguì poco dopo.

«Quello fu un disco piuttosto speciale», ricorda Jones. «L’abbiamo fatto in tre fine settimana, nove giorni. Uno sprint. È stato così tutto quel periodo: un grande sprint». Il batterista Chimes lasciò il gruppo poco dopo la registrazione di The Clash; al suo posto Nicky “Topper” Headon. Headon, 24 anni, proviene da una famiglia della classe media di Dover e conserva ancora un aspetto abbastanza normale e borghese. Suo padre è preside di una scuola elementare e sua madre insegna. A sedici anni ha lasciato casa e si è trasferito a Londra, dove ha suonato in gruppi che spaziavano dai revival soul al jazz tradizionale, lavorando per un periodo con il chitarrista heavy-metal Pat Travers. «Ho lasciato Londra per unirmi a uno di quei gruppi soul che stavano andando ad Amburgo», ricorda. «Non credo che Mick mi perdonerà mai».

Ma, in realtà, è stato Jones a reclutarlo per i Clash. «Ci siamo incontrati per caso a un concerto», racconta Jones. «Gli chiesi come andavano le cose e lui mi rispose che andava benissimo. Poi gli ho detto che stavamo cercando un batterista e lui ha colto la palla al balzo. L’unica cosa che gli dissi fu che avrebbe dovuto tagliarsi i capelli».

E vado ovunque voglio
E mai dimenticherò cosa ho provato
Quando ho saputo che stavi tornando a casa
E mai dimenticherò il sorriso sulla mia faccia
Perché sapevo dove ti trovavi
E se sei a Crown stanotte
Beviamo una cosa
Ma vacci piano
Muoviti piano
Rimani libero.

«Mi hai fatto piangere là fuori». Freddie, un diciannovenne inglese trapiantato a San Francisco, afferra Mick Jones per le spalle e lo abbraccia. Jones si allontana delicatamente, con gli occhi scuri che fissano Freddie. «Ti ho fatto piangere? Come pensi che ci sentiremo quando ti riporteranno con un buco nel petto?».

Domenica sera, nel backstage del Warfield Theater, i Clash hanno appena concluso il loro esaltante secondo e ultimo concerto a San Francisco. Verso la fine del concerto, Jones ha dedicato Stay Free, una canzone tratta da Give ‘Em Enough Rope, a «qualcuno che conosco e che domani entrerà nei marines». E ora Freddie, quel qualcuno, è venuto a ringraziarlo.

«Oh, dai», dice Freddie. «Smettila. Mi stai facendo piangere di nuovo».

«Dico sul serio», dice Jones, la cui tristezza si trasforma quasi in rabbia. «Cosa cazzo credi di fare? In un modo o nell’altro, non tornerai mai vivo. Ti rovineranno». Jones fa una pausa e osserva il fisico massiccio di Freddie. «Freddie era magro come me», dice Jones rivolgendosi a me. «Lo vedevamo sempre ai nostri spettacoli a Londra. Ora guardalo. Si sta arruolando nei marines, ‘campo di addestramento’, credo l’abbia chiamato».

Freddie, che si sforza di trattenere le lacrime, è ovviamente scosso. «Ma Mick, è un tetto sopra la mia testa e 500 dollari al mese», protesta.

«Cinquecento dollari al mese!”. Jones esplode. «Ti serviranno a molto quando avrai un buco in testa». Jones si ferma e si guarda intorno nel camerino. Scorge Kosmo Vinyl, assistente e addetto alle pubbliche relazioni, nonché esperto tuttofare della band. I due si abbracciano per qualche secondo, poi escono dal camerino.

Alla fine Jones rientra. Chiedo di Freddie.

«Non se ne va», dice Jones. «Io, Kosmo e Joe gli daremo i 500 dollari al mese. Verrà a lavorare con noi».

Poco più tardi, quella sera, incontro Jones in un corridoio durante una festa organizzata per la band dalla Target Video, un’azienda che produce videocassette new wave. «Senti, se vuoi parlare, parliamone adesso», mi dice, appoggiandosi a un muro. «Avrò più cose da dire ora che dopo». Presto ci ritroviamo a discutere della leva militare.

«Se vivessi in America e il governo parlasse di guerra e leva obbligatoria, non me ne starei seduto lì», dice. «Verrebbe da pensare che la gente in America sia più consapevole. Voglio dire, il Vietnam non è stato tanto tempo fa. Dovrebbero sapere di non dover credere nemmeno per un minuto che questa sia una cosa buona. Stamattina sono andato in chiesa e sapete cosa hanno detto? Hanno detto che se il Paese va in guerra, ci andremo. Forse possiamo aiutare qualche ragazzo in trincea. È così?».

Chiedo cosa farebbe se l’Inghilterra reintroducesse la leva obbligatoria.

«Avvieremmo un nostro movimento contro la leva».

Andrebbe in guerra?

«È fuori questione. Questo è un fatto importante: la gente preferisce ballare piuttosto che combattere guerre. In questi giorni dove tutti stanno combattendo, per lo più per ragioni stupide, la gente se lo dimentica. Se c’è qualcosa che possiamo fare, è farli ballare di nuovo».
«Eravamo più introspettivi», racconta Jones. «Eravamo stufi di molto cose. Eravamo anche piuttosto infelici. Londra è un luogo grigio e infelice. Molto opprimente. Le cose lì vanno molto male».

Perché allora, chiedo, l’album sembra più rilassato, più giocoso?

«Beh, in parte è rilassato, ma non tutto. Non definisco rilassati London Calling, The Guns of Brixton, Clampdown, Brand New Cadillac. Non credo sia giusto che la gente dica che ci siamo addolciti».

Ma la musica è più accessibile.

«Ci siamo resi conto che se fossimo stati un po’ meno espliciti, se ci fossimo allargati un po’, avremmo potuto raggiungere più persone. Alla fine ci siamo resi conto che stavamo parlando sempre alle stesse persone. E la musica – tutto un bang, bang, bang – stava diventando come una moglie che ti sta addosso. Quindi se più ragazzi ascoltano il disco, forse inizieranno a canticchiare le canzoni. E se iniziano a canticchiare le canzoni, forse leggeranno i testi e ne trarranno qualcosa».

Gli chiedo cosa sta cercando di ottenere, qual è il suo obiettivo.

«Il mio obiettivo è come una montagna, una montagna molto grande. Ci vorrà molta attrezzatura per arrivare in cima. Sapete come ci si sente? È come sbattere la testa contro il muro. Ci sono delle vittorie, ma sono piccole».

Alla fine le vittorie compensano queste sconfitte?

«Non ne sono sicuro. Penso che stiamo perdendo. Sarebbe bello essere una band su cui la gente non ha tanti preconcetti, una band che non è alla moda. Quando potremo salire sul palco e suonare quello che vogliamo – magari jazz – senza dover fare quello che la gente si aspetta, sarà un grande passo avanti».

Detto questo, torniamo nella sala principale, dove alcune delle grandi canzoni Motown degli anni ‘60 risuonano dal sistema audio. E dove tutti ballano.

Tradotto da Rolling Stone US.