Bruno Mars e Anderson .Paak s’accendono delle American Spirit con un accendino griffato Gucci. Si godono il sole nel giardino di uno studio di registrazione e intanto ascoltano un canto d’uccelli proveniente dagli alberi e ammirano dei fiori d’ibisco color arancio che crescono su un muro. Un assistente di nome Alex porta una sorpresa perfetta per l’atmosfera rilassata. «Rumrita!», annuncia e poggia tre bicchieri guarniti col sale sui bordi.
«Siamo bravi a nascondere lo stress», dice .Paak prima di bere. Siamo a Los Angeles, è la fine di giugno e siamo agli sgoccioli delle session di An Evening with Silk Sonic, il disco di debutto del superduo formato da Mars e .Paak. I due si sono messi assieme per scherzo mentre erano in tour, ma la faccenda è diventata piuttosto seria tant’è che la loro ballata soul anni ’70 Leave the Door Open è arrivata al primo posto della classifica americana. Dopo appena 20 secondi dall’inizio del pezzo, .Paak (accompagnato da Mars in sottofondo) si vanta dicendo che “bevo vino in accappatoio”. L’immagine evoca in modo perfetto il fascino esercitato dal pezzo, una canzone stravagante, morbida, vagamente intorpidita, con in più un pizzico di ironia. «È il nostro manifesto», spiega .Paak. «È il prologo del nostro libro, ti fa capire quali sono l’atmosfera e il sound. Nel disco ci sono anche cose diverse, ma tutto gira attorno a quel mondo lì».
A sentire quello che ci raccontano bevendo i rumrita, sembra che le cose vadano alla grande per i Silk Sonic. «Siamo agli ultimi ritocchi», dice Mars. «Abbiamo lo scheletro di buona parte del disco, dobbiamo sistemare le parti che hanno bisogno di un po’ di…». Fa una pausa cercando la parola giusta: «di lubrificante».
«Il che potrebbe significare rifarle da capo», dice .Paak. Mars ride e annuisce: «E magari restare qui altri tre anni». Mars, che sforna hit da un decennio ormai, è noto per essere uno che continua a limare i pezzi, anche nei dettagli microscopici che buona parte degli ascoltatori manco nota, almeno non consciamente. «Ma no», continua, «non siamo a quel punto, ci siamo già passati. Abbiamo superato la zona pericolosa. Far uscire Leave the Door Open ci ha messo pressione, le deadline sono importanti, ti costringono a prendere decisioni, a mettere un punto. Altrimenti finisci per lavorare all’infinito e odiare quel che fai». Si spiega meglio: «C’è anche un lato positivo in questo modo di lavorare. Quando cominci a stufarti dei tuoi stessi pezzi significa che ci hai messo tutto l’amore, il tempo e la passione che meritavano». Per quanto riguarda Leave the Door Open, aggiunge che «il bridge ha quasi fatto sciogliere il duo. Ma non sarebbe stato giusto, eravamo tutti d’accordo su questo».
Passate un po’ di tempo con Mars – conversando con lui o ascoltando il suo gran catalogo di hit, dai 12 dischi di platino di Just the Way You Are agli 11 di Uptown Funk (con Mark Ronson), fino a Leave the Door Open – e vi sarà chiara la sua visione tecnica del pop. Secondo .Paak è «un professore di matematica. Soppesa ogni aspetto della canzone, ragiona sulla struttura. Non si tratta solo di trovare il giusto suono di batteria. Significa porsi delle domande: di cosa stiamo parlando? Cosa vogliamo dire? E come facciamo a spaccare col ritornello?».
Il metodo di .Paak, al contrario, «non prevede nulla di tutto ciò». Anche lui, come Mars, è un talento multiforme (canta, rappa e suona la batteria da quand’era un adolescente nella band della chiesa di Oxnard, California). Come Mars, è arrivato allo show business dopo aver suonato nei bar di Los Angeles e ha avuto successo con dischi senza genere usciti per etichette indie come la prestigiosa casa del rap alternativo Stones Throw. Tutto quel lavoro si è ripagato da solo quando Dr. Dre l’ha scoperto e l’ha coinvolto in Compton (2015), prima di metterlo sotto contratto per la sua Aftermath. A differenza di Mars, spiega il batterista, lui preferisce approcciarsi alle canzoni in modo più fluido e intuitivo. «Non mi metto vincoli, penso all’atmosfera, per questo non vedevo l’ora di beccare Bruno e studiare il modo in cui fa le cose». Interviene Mars: «Mi rubi le idee!». I due scoppiano a ridere.
Mars e .Paak hanno un’intesa naturale, si finiscono le battute a vicenda e si prendono in giro – e prendono in giro i giornalisti che si presentano alle interviste con gilet multitasche, scatenando storielle a tema pesca che rischiano di durare ore. Una delle conseguenze di quest’intesa è che, quando ascoltate una canzone dei Silk Sonic che parla di bere vino in accappatoio, oppure quando siete seduti con loro a sorseggiare un cocktail, viene quasi naturale dimenticare che il disco è nato durante la pandemia, nel bel mezzo di caos e disperazione.
È un effetto voluto. «Spero che non fraintenderai quel che sto per dire, non definirci superficiali», spiega Mars. «Ma siamo convinti che quello sia il nostro scopo. Dobbiamo spaccare sul palco, spaventare a morte chiunque suoni prima o dopo di noi, dare gioia a chi ci ascolta. Soprattutto in momenti come questo. Per quanto mi riguarda, non ascoltavo certo musica deprimente. Già eravamo in un momento strano, figurati se mi andava di restare in quello stato mentale». Scuote la testa: «Volevo scappare!».
In un vicolo accanto allo studio è parcheggiata una Cadillac CTS che avrà almeno una decina d’anni. «L’ho fatta lavare quattro giorni fa», dice con orgoglio Mars. In un certo senso, quell’auto è uno dei consulenti musicali più importanti della sua vita. Ha testato i mix di tutti i dischi usciti dopo Doo-Wops & Hoolingans (2010) a bordo della Caddy, replicando lo scenario di ascolto che gli sembrava ottimale: un’auto di lusso americana così vecchia da avere un lettore CD.
La Caddy ha aiutato i Silk Sonic a capire una cosa, spiega .Paak: «Suonavamo troppo forte». Per ricreare il suono tipico del soul e funk degli anni ’60 e ’70, dice Mars, il duo e il fonico Charles Moniz si sono «messi a studiare» per «fare le cose per bene, fino a scegliere le giuste pelli della batteria. Prima di questo disco non avevo capito quanto potesse essere importante suonare col plettro giusto. Con le corde giuste. La tecnica che c’è dietro questa roba è importante».
Dopo aver trovato la giusta strumentazione (consultando alcuni session man e leggendo vecchie riviste di batteria), si sono dedicati all’emulazione di quello stile usando la tecnologia del periodo: uno o due microfoni al centro di una sala piena di musicisti. «I musicisti di quell’epoca ci mettevano un sacco di cautela», dice .Paak, «mentre la musica con cui siamo cresciuti noi ha batterie belle potenti e un basso che picchia duro. E quindi avevamo gli strumenti giusti, ma non riuscivamo a trovare quel suono. E sai perché? Perché picchiavamo come dannati!».
Quando sono arrivati al bridge di Leave the Door Open, racconta Mars, «Andy ha suonato una cosa. Sapeva quel che faceva, ma per qualche ragione continuavo a gridargli che stava suonando troppo forte. Gli ho detto che dovevamo andarci piano, come facevano i vecchi jazzisti». «Suonavano in punta di piedi», aggiunge .Paak.
I due fanno risalire le origini del gruppo al 2016, quando si sono incontrati durante un tour in Europa. «Aprivo le date del tour di 24K Magic», racconta .Paak, «e nel giro di una settimana eravamo in studio». «È successo in fretta», aggiunge Mars. Ci sono andati senza un obiettivo specifico, spinti dall’amicizia e dalla reciproca ammirazione. L’idea era trasformare le battute da backstage in canzoni. Loro le chiamano jibb talk. «Sono cazzate dette sorridendo», spiega .Paak, «parliamo tutto il tempo e facciamo queste scenette. Viene tutto dal cuore, scriviamo delle nostre esperienze e delle nostre relazioni. È raro che due uomini uniscano le forze per parlare d’amore».
«Non facciamo finta di essere persone che non siamo», aggiunge Mars, «veniamo da un mondo in cui si parla un casino».
Per esempio: all’inizio di quel tour europeo, .Paak e Mars hanno inventato la frase “fumare fuori dalla finestra” per raccontare quei tipi stressati che fumano sigarette per combattere l’ansia. Quelle quattro parole sono diventate una sorta di mantra, e arrivati in studio si sono trasformate in un singolo, Smoking Out the Window. «È la prima cosa che abbiamo scritto assieme», dice Mars.
Interpretano il pezzo davanti ai miei occhi:
Mars, cantando: «Musta spent 35, 45,000 up in Tiffanyyyy’s»
All’unisono: «Oh, no!».
Mars: «Got her badass kids running ’round my whole crib like it’s Chuck E. Cheese».
All’unisono: «Oh, no!»
Mars: «Put me in a jam with her ex-man in the UFC — I can’t believe it».
.Paak: «Damn!».
«Poi il ritornello: “fumo fuori dalla finestra, come puoi farmi questo? Pensavo che quella ragazza fosse tutta per meeee”», canta Mars.
Una volta finito il tour, la loro vita è andata avanti e quelle session sono rimaste ferme lì. Fino a febbraio, ovvero poco prima che la pandemia arrivasse negli Stati Uniti, quando Mars ha riascoltato i file. «Hanno toccato le corde giuste, così ho chiamato Andy e gli ho chiesto di venire in studio. E lui mi ha risposto che era ubriaco». «Era il mio compleanno», spiega .Paak, «ma ci sono andato lo stesso».
«È arrivato e stava alla grande», continua Mars. «Abbiamo iniziato subito a scrivere un pezzo». C’erano «sia uno spirito competitivo, sia del cameratismo. Quando uno dei due tirava fuori una figata, l’altro cercava subito di stare al passo».
Ridono. «Ci siamo divertiti un casino durante quella session», racconta Mars. «E quando è finita ci siamo detti: “Che programmi hai per domani?”».
Così i Silk Sonic sono diventati il loro progetto della quarantena. «Non so se l’avremmo fatto senza la pandemia», spiega .Paak. «So che è stata una tragedia per tante persone, sia io che Bruno saremmo stati in tour… dovevamo farlo» (alludono a protocolli di sicurezza stringenti per lo studio e specificano che nessuno dei due è stato contagiato). Per trovare il sound giusto, si sono affidati a quelle che .Paak definisce «le fondamenta: gli anni ’60 e ’70, la vecchia scuola». Mars non ha in mente «un anno specifico. Non guardo le classifiche. Ci beccavamo qui ogni sera, bevevamo e suonavamo la musica che ci piace».
Quando gli chiedo di citare qualche influenza, .Paak tira su la maglietta e mostra un tatuaggio estremamente dettagliato dove ci sono Aretha Franklin, James Brown, Miles Davis, Stevie Wonder e Prince. «Sono gli Avengers», dice. «L’ho fatto in quarantena, quando m’annoiavo a morte». «Quello sarebbe James Brown?», chiede Mars indicando preoccupato il petto dell’amico. «Mi sa che quel tatuaggio te l’ha fatto Stevie Wonder».
Per tutto l’anno si sono ritrovati grazie all’amore per il soul, passando il tempo scambiandosi i pezzi con cui sono cresciuti. .Paak spiegava a Mars cose sulla batteria che non sapeva. «E anche al di là delle percussioni», spiega Mars, «Andy è stato benedetto dal signore con quel timbro, la sua voce è funk in maniera naturale. La ascolto da autore e penso che è come uno strumento, finisco per immaginare tante cose diverse. “Se avessi quel superpotere, farei canzoni così”».
Fuori dallo studio, il mondo era nel caos. .Paak è un artista più esplicitamente politico di Mars, e durante le proteste di Black Lives Matter ha pubblicato un pezzo intitolato Lockdown che raccontava quel preciso momento. La politica e il dolore sono inseparabili, è ovvio studiando la storia del soul, così chiedo loro se hanno avuto la tentazione di parlare nel disco della violenza della polizia o della pandemia. .Paak risponde con una vocetta esilarante: «Sono entrato in studio e Bruno ha detto: “Senti Andy, so che hai fatto un sacco di cose e un sacco di pezzi. È tutto molto carino, ma faremo come dico io, ti devi fidare. Devi dare il meglio ogni sera, faremo musica per far star bene le donne e far ballare la gente, tutto qui. Non intristiremo nessuno”».
La replica di Mars: «Una bella canzone unisce la gente, non c’è bisogno di dirlo anche nel testo. A volte la cosa più difficile è proprio suonare. Non hai bisogno di dire “alzate le mani”, se usi l’accordo giusto succede naturalmente. È con questa mentalità che abbiamo fatto il disco. Se un pezzo ci fa stare bene, allora sarà contagioso e farà lo stesso con gli altri. È questo il nostro lavoro, siamo entertainer».
Nessuna persona vicina ai due è morta a causa del Covid-19. Entrambi, però, nella loro vita hanno affrontato momenti di profonda tristezza e difficoltà. Hanno vissuto in strada per un certo periodo e hanno perso un genitore da giovani: il padre di .Paak è morto in prigione dopo aver aggredito la madre, mentre la madre di Mars è scomparsa inaspettatamente nel 2013, mentre lui si preparava per un tour. È tornato subito nelle Hawaii per stare con lei, ma è morta prima che potesse incontrarla.
«Entrambi suoniamo musica presa bene», spiega .Paak, «credo sia perché abbiamo sofferto e vissuto delle tragedie». «Tutto viene dal dolore e dalla sopravvivenza», aggiunge Mars. «Non vuoi tornare indietro, vuoi andare avanti perché sai quanto male possono andare le cose». Un progetto come Silk Sonic, spiega .Paak, «è il nostro modo per affrontare la situazione, per questo ci mettiamo tanto impegno. Sappiamo che è una questione di vita o di morte, conosciamo la povertà, sappiamo cosa significa perdere un genitore o averne uno che combatte con una dipendenza. Sappiamo cosa abbiamo di fronte, e la musica è tutto quello che abbiamo».
Mars mi racconta una storia: «Avevamo un pezzo che… diciamo che aveva dei contenuti più pesanti. Ho detto a Andy che forse il disco non ne aveva bisogno. Noi produciamo sensazioni, emozioni. Dovevamo dormirci su. Dopo quella session Andy è tornato a casa e io mi sono messo a riascoltare. Quando sono arrivato a quel pezzo mi sono detto che dovevo andare da lui. Ho preso l’auto e gli ho chiesto di uscire. È salito su, ho premuto play e ha immediatamente detto: “Spegni. Quella. Merda. Subito”. Il pezzo è stato cestinato quella sera stessa. Ci avevamo lavorato per settimane, ma è bastato ascoltarlo fuori dallo studio per capire. Mi veniva da dire: io non voglio sentirmi così! Perché mi fate sentire così?».
Finiti i rumrita, arriva il momento di indagare. «C’è un pezzo che non abbiamo ancora finito, deve passare dall’autolavaggio», dice Mars. «Il problema è che prima del ritornello c’è una parte che sembra un pugno in faccia. Devo sistemare quella parte, è troppo robotica, quando inizio a cantare la batteria, il basso e il piano sono troppo appiccicati, non galleggiano».
Entriamo in studio. C’è un grosso open space pieno di strumenti poggiati alle pareti. In mezzo c’è una batteria vintage Ludwig con pelli Remo Ambassador e il logo dei Silk Sonic sulla cassa. («È un kit per le prove», specifica Bruno); le conghe di Giovanni Hidalgo; una tastiera Hohner Clavinet D6; un sitar Danelectro; e un mini-glockenspiel col quale, dice Mars, hanno sparso «un po’ di zucchero» sui pezzi. Su un muro lontano c’è un grosso poster con una nuvola di funghi e le parole: “Operation World Domination”. «È quel che senti in testa quando la radio passa un tuo pezzo», dice Mars. «Ecco il moodboard del disco», aggiunge .Paak. «Questa non è roba da Soundcloud!».
Entrano in regia, dove Moniz, il fonico, sta armeggiando con un banco Solid State Logic da 72 canali indossando un Rolex Submariner che Mars gli ha regalato dopo aver chiuso 24K Magic. Qui ci sono molti più poster, tutti a tema anni ’80 – Whitney Houston nel periodo I Wanna Dance with Somebody, il Prince di Diamonds and Pearls, Captain EO, K.I.T.T. di Supercar. Vicino a Moniz è seduto il produttore, autore e polistrumentista Dernst “D’Mile” Emile, uno dei collaboratori principali di .Paak e Mars. Nell’universo dei Silk Sonic ci sono anche Bootsy Collins, che ha dato il nome al gruppo ed è considerato una sorta di padre spirituale; Dr. Dre, che ha ascoltato i pezzi in lavorazione e dato il suo feedback; e Homer Steinweiss dei Dap Kings, che ha suonato la batteria in un brano.
Moniz suona il passaggio che preoccupa Mars. Il brano è un omaggio esagerato al Philly Soul, con un testo drammatico che parla di tenersi a galla dopo una separazione devastante, accompagnato da una sezione d’archi e il campionamento di una tempesta. «Togli le voci e vediamo che succede», dice Mars.
«Forse dobbiamo cambiare il basso, farlo muovere un po’», dice D’Mile. «Forse è troppo sotto».
Mars chiede a Moniz di isolare tutti gli strumenti, è a caccia della performance che scombina tutto. «La chitarra è troppo rigida?», chiede. «Ehi Chuck, mettimela in solo». Ascolta. «Ora aggiungi il basso… il piano… ora la batteria… aiutami a capire Andy!».
«Forse sono gli accenti sul rullante», dice D’Mile. «Spingerei indietro piano e basso. Il problema per me non è la chitarra».
Qualche minuto dopo, capiscono che è la batteria che non funziona a dovere. «Forse suono troppo forte le ghost notes nel backbeat», propone .Paak.
«Va risuonata?», chiede Mars.
«Sì, possibile», risponde .Paak, che si alza in piedi e va dietro il kit per fare un altro tentativo. Suonando «nella chiesa gospel», mi racconta, «la cosa più importante è stare in the pocket. Devi trovare il sentimento giusto, il groove. Non devi accelerare o rallentare. Qui è la stessa cosa. Anche la batteria deve cantare».
Nei 20 minuti successivi .Paak suona e risuona quei nove secondi all’infinito, ascoltando i consigli minuziosi di Mars e D’Mile. «Questa suona come un cazzotto, fanne un altra», dice Mars. Io riesco a notare solo differenze minime con la registrazione originale, ma alla fine sembra che Mars sia arrivato al risultato desiderato. «Cazzo, l’ultima era grandiosa, forse però hai mancato un colpo». Ascolta ancora. «No, colpa mia, c’era. Ho fatto casino! Bene, ce l’abbiamo».
Dopo altri dieci minuti e qualche take di piano, quei nove secondi suonano giusti, per la soddisfazione di tutti. Chiedo a Mars se dopo tutti questi anni e tante hit sente ancora la pressione, e se è per questo che lavora così duramente anche a passaggi così piccoli. «La pressione c’è sempre, ma viene da dentro. Non penso alla percezione del pubblico, se non mi divertissi non suonerei più. Non mi ecciterebbe». Lavorare con .Paak, dice, «è come stare in garage con un amico. Ho ritrovato la gioia che mi ha fatto innamorare della musica».
Mars ammette che a volte, passando tanti giorni in studio con quella sensibilità ai suoni che è assieme una benedizione e una maledizione, si rasenta la pazzia. «Quante volte riesci ad ascoltare lo stesso pezzo? Quante volte riesci a capire che un charleston non va bene? È un processo che può portati a pensare erroneamente che il pezzo fa schifo, che il gruppo fa schifo».
«È l’effetto domino», dice .Paak.
«Le cose possono precipitare», continua Mars. «Ma devi toglierti di dosso certi pensieri e dire: oh, vai dietro alla batteria». Sorride. «Veniamone fuori».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.