Nella Milano dei primi anni ’70 c’era una band di agguerriti teenager che di giorno studiavano sui banchi del liceo e di notte sognavano di emulare i loro idoli, Lou Reed e David Bowie su tutti. Intanto si facevano le ossa con le cover e mandavano a memoria gli album d’esordio dei Roxy Music e degli Sparks. Il nome della band era Champagne Molotov, utilizzato anni più tardi dal loro cantante per dare il titolo al suo primo album solista. Il cantante ovviamente era Enrico Ruggeri, il musicista più noto di quel gruppo, che dopo alcuni cambi di formazione cambiò anche nome (da Champagne Molotov a Decibel) e fece la storia della new wave italiana.
Il tastierista dei Decibel era Silvio Capeccia, che dopo il primo lockdown ha pubblicato un album di piano solo attingendo dal repertorio della band, seguito di recente da un secondo capitolo. È proprio da questi album che siamo partiti per farci raccontare la sua storia dei Decibel, compiendo un viaggio in un’Italia (musicale ma non solo) molto diversa da quella attuale.
Come è nata l’idea di pubblicare versioni piano solo di molte canzoni del repertorio dei Decibel?
La scintilla è stata il lockdown, così come è successo a molti altri musicisti. Chiusi in casa, abbiamo suonato quello che avevamo a disposizione. Giocoforza mi sono rivolto al piano e ho iniziato a riprendere brani dei Decibel, postando poi dei brevi video ripresi mentre suonavo canzoni come Vivo da re e My Acid Queen. Il riscontro è stato positivo, con un mare di commenti. Parlandone con Enrico è venuta l’idea di fare un discorso più completo, più organico. Nel primo album di piano solo ho utilizzato per la maggior parte pezzi nati al pianoforte, come Contessa e L’ultima donna. In questo secondo album invece ho messo mano a canzoni nate come brani rock, e sono andato a pescare anche da Punk, l’esordio dei Decibel, e dagli album successivi alla reunion.
Qual è il tuo primo ricordo di Enrico Ruggeri? Dove vi siete incontrati per la prima volta?
Fu un incontro molto professionale, anche se avevamo solo solo 14 anni. Giacomo Billone, un mio compagno dello scientifico Einstein che suonava il fagotto e quindi con il rock non c’entrava nulla, aveva velleità di formare una band e contattò questo ragazzo del liceo classico, che studiava al Berchet nella classe ritratta sulla copertina di La rivoluzione. Ci incontrammo quindi in una sala prove, la New Cary di corso di Porta Romana. Lui mi chiese di dargli il “la”. Si vede che avevamo una forte empatia musicale perché da allora non ci siamo più lasciati. In quel periodo sarei dovuto entrare in conservatorio, ma decidemmo di fondare questa band ambiziosa e il mio esame al conservatorio andò a farsi benedire. Avevamo gli stessi gusti, tra il 1975 e il 1976 siamo addirittura andati in Inghilterra assieme per trovare ispirazione, per vedere cosa succedeva, e abbiamo trovato quello che cercavamo. Vedemmo un bellissimo concerto degli Ultravox al Marquee, c’era ancora John Foxx, e uno dei Boomtown Rats. Concerti che in Italia non arrivavano perché c’era una situazione politica molto difficile, spesso i musicisti venivano contestati e allora non c’era una grande propensione a suonare nel nostro Paese.
Questo feeling comune ha cementato l’unione tra me ed Enrico fino alla nascita degli Champagne Molotov. Il primo concerto insieme l’abbiamo fatto proprio all’Einstein nel 1974. Viaggiavamo anche con altri amici comuni ma quelli intrippati con la musica eravamo noi. Adesso ovviamente tutti parlano di David Bowie, Lou Reed… ma a metà anni ’70 in Italia arrivava veramente poco di quel mondo in ebollizione, mentre in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nascevano band a profusione: Ultravox, Stranglers, Talking Heads, Sparks… Noi nel nostro piccolo abbiamo iniziato con le cover: Re-make/Re-model dal primo album dei Roxy Music, Waiting for the Man dei Velvet, Sweet Jane di Lou Reed. Bowie ha iniziato a essere popolare in Italia dopo Scary Monsters: Hunky Dory e Aladdin Sane non erano certo album conosciuti. Lou Reed e i Velvet men che meno. Era bello far parte di una nicchia che cercava di far conoscere una musica poco conosciuta. Il nostro repertorio era fatto di sette, otto pezzi che cercavamo di portare nelle assemblee studentesche, in un ambiente abbastanza tumultuoso.
Prima della nascita dei Decibel, però, tu hai preso un’altra strada.
Per un periodo ci siamo separati. Enrico era entrato in questa band che si chiamava Il Trifoglio, che sarebbero poi diventati i Decibel del primo album. Era una band molto metal, con un grandissimo chitarrista come Pino Mancini. Io faticavo a trovare una mia collocazione anche perché ai tempi nei gruppi metal l’unica tastiera concessa poteva essere un Hammond alla John Lord dei Deep Purple. Dopo lo scioglimento dei Decibel di Punk, avvenuto poco dopo l’uscita del disco, Enrico mi ricontattò per riprendere il percorso che avevamo iniziato. In quel periodo stavo per iniziare a suonare con Fausto Rossi, un artista le cui prospettive in quegli anni erano ottime, una specie di Bowie italiano. Avrei dovuto suonare con lui nella band che stava costruendo, ma ho preferito seguire Enrico. Non ci fu bisogno di grandi discorsi strategici sul tipo di musica da suonare: la musica era quella che già avevamo fatto insieme. In Punk il tastierista non c’era, ma nel frattempo gli Ultravox, gli Stranglers, gli stessi Talking Heads si erano presentati con il tastierista ed erano andati oltre il punk. Anche i Decibel fecero la stessa cosa.
Rispetto alla politica come vi ponevate? Come è nata la vulgata che vuole un Ruggeri di destra?
Succedeva di venire coinvolti sia da destra che da sinistra. Il festival di Monluè, per esempio, era organizzato dalla sinistra antisistema: là abbiamo suonato con le bandiere rosse dietro il palco, perché il punk era musica di protesta. Quando poi siamo andati a Sanremo, non siamo più stati accettati. A un concerto dei Damned al cinema Teatro Orfeo di viale Coni Zugna eravamo tra il pubblico e siamo stati costretti a uscire. Ci urlavano «venduti al sistema» perché due mesi prima avevamo fatto Sanremo con Contessa. Enrico era riconoscibilissimo, tra capelli gialli ossigenati e occhialini con la montatura bianca. Minacciosamente ci hanno invitati a sloggiare. La presunta collocazione di destra di Enrico era dovuta proprio a queste scelte di look. Si vestiva come Lou Reed, che in quel periodo era il suo idolo: il giubbottino nero, i capelli con la sfumatura alta, da cui l’accusa di essere sanbabilino o fascista. In realtà era Lou Reed che vestiva così ai tempi di Rock’n’Roll Animal, uscito qualche anno prima. Ma noi seguivamo semplicemente la moda, non c’erano altre ragioni. Smesse le magliette tagliate alla Johnny Rotten, avevamo la camicia bianca e la cravatta nera, come i Knack di My Sharona.
In quel periodo la situazione politica era tale per cui qualsiasi cosa dicessi rischiava di essere presa male, da una parte o dall’altra. A noi però interessava suonare, accettavamo questi percorsi tortuosi pur di poter fare la nostra musica, i dischi, i concerti. Ma anche prima di fare dischi, della politica ci interessava come può interessare a un ragazzo di 16-17 anni. Assistevamo a quello che succedeva in quegli anni, ogni sabato a Milano c’era una manifestazione in centro, a volte con un morto. Erano tempi veramente molto difficili. La musica è stata la nostra salvezza perché, tra la politica e la droga che cominciava a diffondersi, avevamo trovato la nostra strada. Io ero contentissimo quando potevo portare in cantina una tastiera nuova e provare con gli altri. Tanti ragazzi, anche compagni di classe, sono finiti vittime dell’eroina o fiancheggiatori delle BR. A quei tempi non si scherzava. Noi con la musica siamo andati avanti. E non si scherzava nemmeno ai concerti. Mi ricordo che con Enrico andammo a vedere Lou Reed al Palalido. Peccato che durò solo due canzoni perché venne cacciato dal palco. Aprì con Sweet Jane ma gli tirarono delle lattine. Lui mandò a quel paese il pubblico, questi tizi in particolare, e il concerto finì così, dopo Coney Island Baby.
Eravate tutti d’accordo nel partecipare a Sanremo?
All’inizio abbiamo discusso molto, anche tra di noi. Se ben ricordo fu Silvio Crippa a proporcelo durante un incontro in Galleria del Corso, nella sede della casa discografica. Quello che ci preoccupava era la possibilità che Sanremo arrecasse un danno all’immagine “cattiva” della band. Stavamo registrando il secondo album, era arrivato Fulvio Muzio che aveva scritto proprio Contessa ed eravamo un po’ tutti titubanti. A spingerci ad andare, alla fine, è stata la possibilità di fare il salto, di uscire da quel circuito un po’ chiuso fatto di concerti nelle scuole, nelle assemblee, negli incontri di massa tipo Monluè, per entrare in quello che adesso si chiama mainstream. Una volta là, ci siamo trovati catapultati in un mondo che non era ancora il nostro. Giornalisti, interviste, Sanremo richiamava grande attenzione. Il presentatore era Roberto Benigni, fu l’anno del bacio sulla bocca a Olimpia Carlisi e del “Woijtilaccio”. Noi arrivammo alla serata finale, il che era già un successo, anche perché quelle precedenti non venivano trasmesse in diretta.
Nel frattempo avevamo registrato Vivo da re allo Stone Castle di Carimate, uno studio che costava 100 dollari all’ora. La casa discografica aveva fatto un notevole investimento su di noi. Oggi tutti registrano a casa con Qbase o ProTools ma allora a Carimate incidevano i big: Dalla, la Pfm, Venditti, Bennato. L’etichetta avrebbe benissimo potuto dire: abbiamo venduto solo 10 mila copie del primo album, vi molliamo. Allora il successo significava venderne 3-400 mila. Invece investirono su di noi con quasi sei mesi di sala d’incisione. E poi la copertina, i viaggi, i rimborsi spese. Se fossero stati mollati dopo il primo album, De Andrè, Dalla e Battiato non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto.
Però, dopo l’uscita di Vivo da re, Ruggeri lascia la band. Cosa accadde?
Tra il 1980 e il 1981 abbiamo fatto molti concerti, un tour nelle discoteche prima dell’estate, poi un bellissimo tour estivo in pullman. Con noi c’era Fiorella Mannoia. Nelle serate suonavamo mezz’ora ciascuno. La Mannoia era una ex stuntwoman, sapeva cadere da cavallo… era bravissima a giocare a calcio. Spesso si suonava nei campi sportivi e magari nel pomeriggio, mentre il palco veniva montato, giocavamo a calcio e lei se la cavava davvero bene.
Enrico lasciò per un discorso societario. L’etichetta stava lavorando piuttosto bene: c’erano artisti di successo come Marco Ferradini e Ron. Ma era creata una scissione interna tra le aree di competenza dei tre soci: Silvio Crippa, Alessandro Colombini e Shel Shapiro, che era stato il produttore di Vivo da re. Noi ci siamo trovati in mezzo perché lavoravamo con tutti e tre. Fummo travolti dal successo che ci era piovuto addosso. Crippa e Ruggeri continuarono da soli. Io e Fulvio Muzio continuammo a lavorare con Shapiro, poi anche lui se ne andò e noi registrammo Novecento con un nuovo produttore: Mauro Paoluzzi, che aveva prodotto America di Gianna Nannini. Questa vicenda ci ha disorientato. Eravamo giovani, dei fuscelli in un ambiente di volponi, e siamo rimasti frastornati. Alla fine Enrico iniziò la sua carriera come solista, anche se per problemi contrattuali con Colombini dovette rimanere fermo per un anno mentre noi registravamo Novecento. Non è certo stato un litigio, tanto che abbiamo continuato a vederci e a partecipare come ospiti ai suoi concerti.
Come è possibile che non abbiate detto: abbiamo successo, facciamo la musica che ci piace, restiamo insieme?
È una domanda che resta tale. Col senno di poi, con qualche anno di esperienza in più, ci saremmo messi noi tre da una parte dicendo: cari signori, voi litigate pure ma noi non possiamo rompere un giocattolo che sta andando da dio. Devo dire che a livello societario queste persone avrebbero avuto gli strumenti e l’esperienza per trovare un compromesso o una mediazione.
Come ti sei trovato nelle vesti di cantante su Novecento?
È stata un’esperienza, ma non mi è più interessato ripeterla. Sono una seconda voce, anche se canto A disagio nei concerti dei Decibel. Con Fulvio Muzio, che è medico, abbiamo iniziato un discorso di psicoacustica e musicoterapia che non necessitava della voce. Abbiamo unito l’ambient music con il discorso più scientifico di Fulvio. A miei brani ambient venivano sovrapposte onde binaurali a bassissima frequenza. Questo procedimento fa sì che la persona ascolta in cuffia questo lavoro, musica molto soft, senza influenze ritmiche o percussionistiche, e queste onde provocano progressivamente un abbassamento delle onde cerebrali fino allo stato di dormiveglia o di rilassamento profondo. È un discorso che ha basi scientifiche e viene utilizzato per patologie come l’insonnia e gli stati di depressione.
Nel Sanremo del 2010 siete tornati a suonare con Ruggeri per La notte delle fate. Di chi è stata l’idea?
Enrico ci ha chiamati perché ci siamo sempre visti e sentiti. Il testo era un omaggio a Walk on the Wild Side, anche se nessuno l’ha capito. Vengono infatti citati vari nomi di donna, ognuna con la sua collocazione, anche se ovviamente le donne di Lou Reed non erano donne “tradizionali”. La musica era invece molto Sparks, soprattutto nella versione che abbiamo fatto noi nella serata degli ospiti.
Enrico Ruggeri ha raccontato nel dicembre del 2014 tu, lui e Fulvio Muzio siete andati alla Barbican Hall di Londra a vedere gli Sparks che suonavano Kimono My House e che quella è stata una scintilla che vi ha fatto decidere per la successiva reunion.
Più che una scintilla un concerto degli Sparks è un incendio, riaccende quello che è stato il grande amore della nostra gioventù: scoprire questa musica. Mi ricordo ancora perfettamente quando Enrico arrivò a casa mia con il disco di Kimono My House dicendo: l’ho trovato. Non era facile da trovare, lo mettemmo sul piatto e ci sconvolse fin dal primo brano: This Town Ain’t Big Enough for Both of Us. Non so se è stata quella la scintilla, era una cosa nell’aria. Io e Fulvio abbiamo proposto a Enrico i brani che negli anni avevamo composto e tenuto nel cassetto. Non li avevamo voluti dare ad altri artisti, forse perché inconsciamente pensavamo che saremmo tornati a suonarli e cantarli con Enrico.
Durante la pandemia, Ruggeri ha espresso su Twitter opinioni controverse, certamente non allineate alla verità ufficiale. Cosa ne pensi?
Una volta persino mia madre mi ha detto: hanno parlato di Enrico Ruggeri per via delle mascherine.
Aveva scritto che chi indossava la mascherina all’aperto dopo la fine dell’obbligo era uno schiavo.
Sui social è facile premere invio dopo aver scritto, senza ponderare. Bisogna stare attenti, soprattutto con gli argomenti all’ordine del giorno, come è stato il Covid e poi la guerra in Ucraina. Io me lo sono imposto, Enrico ha un altro stile di comunicazione e una gamma di comunicazione molto ampia. Io sui social parlo solo della mia musica. Lui interviene come opinionista sul calcio, ha scritto libri, ha fatto il presentatore, quindi è un altro tipo di artista. Questo lo porta a intervenire, e oggi intervenire sui social è rischiosissimo. Io penso che la parola “schiavi”, se avesse avuto la possibilità, l’avrebbe corretta. Solo che quando pensi di correggere una parola è troppo tardi. E poi vieni etichettato come è capitato a lui, che agli inizi era di sinistra, poi di destra… Io non sono interessato a divulgare la mia opinione su qualsiasi argomento. È chiaro che le piattaforme social sono un’istigazione a dire la tua. L’anima punk esiste sempre. Io sono nato incendiario con il punk e ora sono pompiere con un disco di piano solo, però questa anima punk un po’ ci brucia e a volte vorremmo essere più schietti. Lui probabilmente ha meno freni di quelli che posso avere io, e questo lo porta a volte a situazioni spiacevoli.
Poi anche lui avrà le sue opinioni, voterà anche lui…
Sì, se capita, se non è in tour come è capitato anche a me.
Nel tuo WhatsApp c’è una frase di David Byrne: la musica contiene la sua ricompensa. Sei stato ricompensato per tutto quello che hai fatto?
Noi siamo partiti per fare musica, per essere conosciuti come musicisti. Che sia punk, ambient, musicoterapia o piano solo è sempre lo stesso fiume di passione che scorre. La linea comune è il piacere di suonare o ascoltare la musica. Questo valeva per me quando avevo 15 anni e vale anche ora che ne ho 65.