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Sinceramente, Meg

L’esperienza in Inghilterra, le occupazioni a Napoli, i problemi di droga e non solo nei 99 Posse, il senso di libertà provato da solista, il nuovo EP ‘Maria’. Il punto su 30 anni di carriera in un’intervista senza reticenze

Foto: artwork e rielaborazione di Dadá Di Donna da una foto originale di Elisabetta Claudio

Ogni tanto ci sono delle interviste che sono il compitino, album-in-promozione-buongiorno-buonasera, e ogni tanto ci sono invece quelle che diventano una sorta seduta dall’analista. Qui in teoria si giocava facile, in quanto a vastità di amarcord: un tour da raccontare creato proprio per celebrare i 30 anni di attività, cosa di meglio di aprire l’album degli aneddoti?

In realtà con Meg di solito non va così. Per due motivi: artisticamente, è sempre stata proiettata verso il presente e verso il futuro; come persona, è sempre stata molto riservata e sobria. Due fattori perfetti per stroncare la ricognizione in profondità sul passato. Potevamo insomma limitarci quindi a quattro cortesi chiacchiere di circostanza sulla carriera di Maria Di Donna alias Meg, magari come viatico per raccontare l’essenziale dal punto di vista promozionale, ovvero – lo sveliamo qua in anteprima assoluta – l’uscita dell’EP Maria il prossimo 21 marzo. Di quest’ultimo abbiamo pure parlato, svelando dinamiche interessanti. Però sarà solo una parte del tutto. Un tutto molto vasto, molto sincero, molto vivido. E anche, se ce lo permettete, molto emozionante.

Allora Maria, con ‘sta storia del tour celebrativo per i 30 anni di attività ti sei messa un po’ nei guai da sola, fattelo dire: perché per buona parte della tua carriera da solista, direi soprattutto all’inizio, ma in realtà non solo, questa cosa della fu appartenenza ai 99 Posse nel periodo di maggior successo ti ha sempre perseguitato, con tutti quanti a chiederti «Ma quindi? Tornerete assieme? Come mai ti sei separata da loro? Che è successo?». Potevi levarti questa seccatura celebrando l’anno scorso un ventennale, visto che il tuo primo disco da solista è del 2004, sarebbero stati vent’anni tondi; invece no, hai voluto festeggiare un trentennale. E ovviamente, c’è poco da fare, per arrivare a 30 bisogna includere anche i primi dieci o quasi con la 99: quindi ora ti tocca parlarne, qui con me.
Ma figurati, certo, nessuno problema.

Perfetto.
Sì, sono trenta: trent’anni da quando si è aperta per me una porticina per fare musica. E io in questa porticina ci sono entrata eccome, con tutta me stessa, visto che il mio sogno fin da bambina era sempre stato il fare la musicista.

Benissimo. Partiamo allora da questa porta che si apre. Quando si apre, come si apre, perché si apre.
Già. Anno accademico 1994/95. Napoli. La facoltà di Lettere e filosofia occupata.

Chiaramente so che in quel momento tu non potevi immaginarti che quella porticina ti avrebbe portato ad un percorso lungo trent’anni e ancora felicemente in divenire…
Ovvio!

Secondo me nemmeno ti aspettavi quello che effettivamente è successo subito varcata la soglia. Ok, erano anni particolari, si sentiva un’energia particolare sia nella musica che nella sfera politica e sociale, e anzi queste due dimensioni interagivano parecchio, certo; però ecco, quanto è successo fin da subito, e l’intensità con cui è successo, penso abbia sorpreso pure te, no?
Assolutamente. Io ero appena tornata dall’Inghilterra, dove avevo fatto un anno di Erasmus. Volevo fare una tesi di laurea sulla filologia dantesca, e proprio questo è il motivo che mi aveva portato in Inghilterra: avevo scoperto che lì c’era un dantista particolarmente bravo e insomma, avevo fatto di tutto per poter fare l’Erasmus nel suo dipartimento… Anche se poi, una volta arrivata lì, scoprii che i dantisti di Napoli erano in realtà ancora più bravi e preparati di lui. Ma mentre ero su in Inghilterra, parliamo quindi dell’anno accademico precedente, il 1993/94, mi ero ritrovata a camminare per le strade di Londra ed ero stata letteralmente rapita dalla musica incredibile che sentivi ad ogni angolo: la drum’n’bass, anzi, si chiamava ancora jungle, poi i Prodigy, Tricky, Björk, i Massive Attack. Mi si aprì un mondo. Io avevo ascoltato tantissima musica fin da piccola, per carità, ma lì veramente mi si aprì un mondo. Tant’è che ad Erasmus finito, l’idea era di preparare subito le condizioni per tornare a stare in Inghilterra: trovavo tutto incredibilmente stimolante, volevo assolutamente vivermelo in prima persona, essere lì.

Comprensibile.
Però succede che torno in Italia appunto per provare a fare un po’ di carte per poter prolungare la mia permanenza accademica in Inghilterra, ma a causa degli scioperi e delle occupazioni l’attività burocratica della mia facoltà a Napoli era praticamente paralizzata. Non riesco quindi a concludere niente da quel punto di vista, almeno non nei tempi brevi che credevo. Però nel frattempo, mentre ero in questo limbo, inizio a farmi risucchiare dalla vita che c’era lì, a Napoli, in facoltà, nei chiostri, nelle occupazioni. Vita che era altrettanto emozionante e altrettanto viva, seppur diversa, rispetto a quella che avevo trovato per le strade di Londra; e aveva un sapore particolarissimo che già sapevo che in Inghilterra non avrei trovato. In mezzo a questi dubbi, che faccio? Mi ritrovo a partecipare alle occupazioni attivamente, dormo negli spazi dell’università, inizio a conoscere tutte queste persone magnifiche e incredibilmente interessanti coinvolte in questo movimento, molte delle quali avevano per quanto riguarda la musica – e non solo la musica – i miei stessi interessi. E questo, credimi, nelle università inglesi non lo trovavo. Lì era solo studio. Non c’era questo tipo di interscambio.

No, eh?
Una cosa paragonabile era l’energia dei rave, ma quella ovviamente non la trovavo nella vita di facoltà. In Inghilterra era un fenomeno diffusissimo e al tempo stesso stranissimo, un fenomeno ai miei occhi quasi magico. Le notizie circolavano solo tramite passaparola, e tramite dei pizzini che passavano di mano in mano su cui c’erano dei numeri di telefono: cercavi una cabina telefonica, facevi quel numero, scoprivi così tutte le coordinate per una festa da inseguire. Tutto misterioso, sotterraneo, incredibilmente affascinante. Ecco, l’occupazione della mia facoltà in Italia se ci penso col senno di poi aveva alcune caratteristiche simili.

Cioè?
Cioè, ti dovevi trovare nell’illegalità. Una illegalità in qualche modo necessaria, per entrare in contatto con ciò che era alternativo, controculturale, con ciò che era arte ma al tempo stesso era in grado di comunicare dissenso politico. Non era solo questione di esprimere malcontento generico: no, occupando, manifestando, facendo delle azioni concrete, tu avevi l’impressione – e spesso era proprio così – di poterle cambiare davvero, le cose. Ti faccio un esempio molto concreto: in seguito alle nostre proteste, a Napoli, effettivamente poi le tasse universitarie non vennero proprio alzate. Capisci? Era una delle nostre rivendicazioni, e abbiamo ottenuto quello che volevamo. Proprio questo credo manchi ai ventenni di oggi: gli è stato fatto credere che qualsiasi cosa facciano o dicano sia irrilevante, tanto non otterranno nulla…

E non è così?
Non lo so, sai. Pensaci: se fosse davvero così, perché allora varare dei decreti sicurezza come quelli che sono stati varati recentemente contro i rave e contro le manifestazioni?

Eh.
Se si danno la pena di legiferare in questo modo, allora vuol dire che in qualche modo li temono, i ragazzi: no? Hanno paura che possano cambiare l’ordine prestabilito. Sì che ce l’hanno. È che spesso chi ha vent’anni oggi pare che di questa cosa non se ne accorga. Se mi posso permettere di dare un consiglio ai ragazzi di oggi, è questo: tenetevi il più lontano possibile dai telefonini, non perdeteci sopra così tanto tempo. O meglio: usateli, sì, ma per informarvi, per organizzarvi, per fare qualcosa di concreto. E se scendi in piazza, se sei convinto di quello che fai e di quello in cui credi, non è per nulla detto che tu non ottenga qualcosa: è quello che ti vogliono far credere, il fatto che scendere in piazza sia inutile, ma loro per primi sanno invece che non è così – vedi appunto le legislazioni e i decreti partoriti recentemente. Ma stiamo divagando?

È una divagazione molto importante e significativa; ma sì, torniamo al punto. Torniamo a te. Alla tua porta che si apre.
È durante queste occupazioni che conosco Luca e Marco della 99 Posse (Luca ‘Zulù’ Persico e Marco Messina, nda), anche loro iscritti a Lettere in quel periodo. A un certo punto viene fuori praticamente per caso che io cantavo anche. Allora mi invitano in studio, io canto, e poi dopo una settimana mi fanno: «Abbiamo un concerto domani, in un centro sociale, a Salerno: vuoi venire anche tu sul palco con noi?». Io, terrorizzata: «Ma come, ma cosa dite, non abbiamo nemmeno fatto delle prove…». Loro: «Eh vabbuo’, che vuoi che sia. Dai, vieni!». Era così, in quegli anni: tutto molto improvvisato e spontaneo, davvero improvvisato e spontaneo, ma tutto sentito, tutto fatto con cuore. A quel punto, iniziando a girare con la 99 scopro che non solo a Napoli c’era una situazione di un certo tipo: no, tutta l’Italia era in realtà era piena di persone come me, coi miei ideali, coi miei interessi. Ed erano per giunta persone che si sbattevano per offrire tutta una serie di servizi e opportunità per chi ne aveva bisogno: sale prova se avevi un gruppo e volevi suonare, il doposcuola per i ragazzini che non sapevano bene dove stare, le palestre. Tutto quanto ad offerta libera: davi quanto potevi. Eppure, diciamolo chiaramente, anche stando così ai margini dalle dinamiche di mercato si sono formate delle professionalità eccezionali, vedi un po’. Pensa solo ai fonici, a chi monta i palchi e noleggia gli impianti, tanto per stare nel nostro campo: ne sono usciti tantissimi dalla palestra degli eventi negli spazi occupati. Insomma: non era solo protestare, era una vera e proprio fucina di arte, lavoro e cultura. Chiaro, questo è il lato positivo. Poi c’era anche quello negativo. Che è quello che poi mi ha fatto allontanare da tutto questo circuito…

Beh, sai che ora devo chiederti: e quali erano quindi questi lati negativi?
È ovviamente un discorso complesso. Non so nemmeno quanto sia utile parlarne, onestamente.

Proviamo.
Prima di tutto: giravano un sacco di droghe pesanti. Che piano piano distruggevano la testa delle persone. Credimi, non c’è nulla di più brutto di avere un tuo amico e una persona a cui vuoi bene in down da cocaina. Un amico che a un certo punto ti ruba i soldi dalla borsa, che diventa paranoico e aggressivo, che pensa sempre che ce l’hai con lui. La paranoia inizia a diventare la regola. E la paranoia è una dinamica orribile. Rende le persone improvvisamente distanti, ostili, lì dove invece prima c’era amicizia e la voglia di fare musica assieme.

Senti, ti chiedo in maniera molto diretta: il problema era solo la circolazione di droghe pesanti o c’era anche altro che non andava?
Era soprattutto quello. Ma sì, c’era effettivamente anche altro. Diciamo che io sono entrata in una situazione e all’interno di una serie di dinamiche che si erano strutturate già prima che io facessi il mio ingresso nel gruppo. Parte di queste dinamiche erano saltate proprio a causa del mio ingresso; altre restavano e, a dirla tutta, non mi convincevano al 100%. Diciamo che almeno mi sarebbe piaciuto poterne discutere, trovare un compromesso, una soluzione che andasse bene a tutti… Però davvero, non so quanto mi va di parlarne, soprattutto non so quanto sia utile parlarne oggi. C’era del nonnismo, sì, e c’era anche un po’ di maschilismo, di infantilismo. E poi sai cosa? C’era troppa ideologia. Sia chiaro: per me, nella mia visione personale, la politica è sempre stata una componente molto importante della musica, e sempre lo sarà. Un conto però è la politica, che è sana, è vitale, un conto è l’ideologia. L’ideologia è qualcosa di meccanico, granitico e monolitico che non ti dà la possibilità di pensare e agire in maniera elastica. In una cornice così rigidamente ideologica, chiunque provasse a mettere in discussione anche solo un singolo aspetto era subito a rischio di essere espulso, di essere allontanato: «Ma tu chi sei? Ma che vuoi? Se parli così, allora non sei davvero dei nostri». Che ansia… Tanta, tantissima ansia. Difficile vivere così. Molto difficile.

Ti posso chiedere un esempio concreto?
Va bene. Ecco: la SIAE. Come regola assoluta si divideva sempre tutto in parti uguali, per quanto riguarda la SIAE. Come principio, giustissimo; poi però succedeva che nel gruppo c’era chi non veniva in studio, non faceva nulla, era sempre in giro preso dai suoi problemi, dalle dipendenze che ormai lo stavano consumando sempre più… C’erano canzoni su cui io avevo lavorato parecchio, sui cui poi magari Luca c’aveva aggiunto qualcosa, ma per principio quel pezzo diventava comunque di tutti. Di tutto il gruppo. Come se tutti ci avessero lavorato allo stesso modo. Anche chi in realtà non aveva mosso un dito. Vuoi un altro esempio?

Vai.
Le canzoni d’amore. A un certo punto mi viene detto: «Non possiamo più scrivere canzoni d’amore». Ma come? E perché? «Eh, la canzone che hai scritto tu ha avuto troppo successo, e noi non possiamo rischiare di diventare un gruppo pop. Quindi, basta canzoni d’amore». Guarda, questo tipo di censura mi ricorda proprio l’altro tipo di schieramento: quello che giustamente sentivamo come completamente opposto a noi.

Bel paradosso.
Mi viene da dire che l’ideologia spesso forse serviva per mascherare debolezze molto più umane, più terra terra. Ma, sarà perché eravamo giovani, in quel momento era difficile parlarne apertamente, confrontarsi senza filtri.

Foto: Elisabetta Claudio

Sì, eravate giovani. E spesso il tempo è galantuomo. Luca Zulù, ad esempio, mi pare abbia fatto i conti col suo passato: nell’autobiografia da poco pubblicata, così come in molte interviste rilasciate negli ultimi anni. Non so se recentemente tu e lui vi siate risentiti, e vi sia capitato di ragionare insieme su quegli anni, sulle cose belle fatte insieme ma anche sugli errori… Non so se ti è capito con lui, e magari pure con gli altri del gruppo.
No. Non ci siamo mai più sentiti da quando le nostre strade si sono separate.

È un peccato. Ti piacerebbe accadesse, a un certo punto?
Sinceramente?

Sinceramente.
No.

No?
No. Perché ormai associo quegli anni all’interno della 99 Posse a un fortissimo senso di ansia, di soffocamento. Non riesco a farne a meno. E poi guarda, quando chiudo con qualcosa o con qualcuno non sono una che torna indietro. Anche coi fidanzati è sempre stato così: «Restiamo amici, no?». «No». Io devo chiudere. Quegli anni col gruppo sono stati bellissimi sotto tanti punti di vista, ma sono stati anche molto intensi, e davvero pesanti in più passaggi. Ecco, se ho un rimpianto oggi è proprio quello di aver aspettato troppo ad uscire da quell’esperienza.

Quando ne sei uscita, e ti sei quindi in qualche modo liberata, iniziando la tua carriera da solista, cos’è che col senno di poi è stato alla prova dei fatti meglio di quanto pensassi, e cosa invece è stato peggio?
Meglio di quanto pensassi e ancora più bello ed intenso di quel che pensavo è stato il senso di libertà nel fare musica. È stata una grande gioia. Scrivevo, componevo, creavo, e potevo decidere liberamente di mettere un suono anziché un altro. Soprattutto, non dovevo più avere paura di sembrare troppo femminile. O troppo dolce. O troppo poco di sinistra. Lì mi sono proprio detta: ecco, questo è ciò di cui avevo bisogno.

Ciò che è stato peggio, invece?
La fatica. La fatica di fare tutto da sola. Quando sei in un gruppo, non sei tu a dover mettere la faccia su tutto, su ogni singolo aspetto: le responsabilità in qualche modo si dividono, l’impatto per il singolo elemento è comunque attutito rispetto invece all’essere da sola a doversi occupare di tutto. Poi chiaro, il risvolto positivo della medaglia è che ho potuto gestirmi i tempi, i modi di fare le cose… Però resta che fare tutto da sola, senza più lo schermo di un gruppo, si è rivelato più faticoso di quanto pensassi. Ma ne avevo bisogno, per quanto difficile e faticoso possa esser stato. Mi è toccato quasi trasformarmi in una control freak: ma evidentemente è stata una fase necessaria, successiva a quella precedente in cui, di controllo, ne avevo invece proprio poco. È la storia della mia vita. Sono sempre combattuta tra seguire tutto io, che appunto è un casino, e invece delegare; ma per me è un casino pure quello. Oggi forse ho imparato a delegare un po’ di più, ma… Ecco, almeno la scaletta di questo tour per i trent’anni di attività l’ho delegata, lei sì!

Ah ma dai!
Oh sì. Ti dirò di più: a un mese dal tour, non è ancora definita al 100%. Figurati, ho anche fatto un post sui social dove chiedevo alle persone quali pezzi volessero sentire, quali pezzi dovessi includere… Tra le richieste che mi sono arrivate e quello che invece volevo fare io, ho creato una lista e l’ho consegnata a Marco (alias Suorcristona, Marco Fugazza, fedele compagno di Meg nei live in tempi recenti, nda), dicendogli: «Fai tu, vedi un po’ tu come si può fare, scegli pure come organizzare al meglio questa lista di pezzi».

Oh be’, una cosa del genere prima non l’avresti fatta mai.
Mai! (Scoppia a ridere) Ma… devo dire che ho scoperto che è bello, sai? Poter dire «Dimmi tu, fammi tu qualche proposta”», che bello, che rilassante!

Una scaletta lunga trent’anni, che di sicuro ripercorre quindi tutti i tuoi album solisti. Ora, so che ogni disco che esce è, per l’artista che l’ha fatto, un figlio: quindi lì per lì non ne può parlare male. E forse nemmeno dopo, non solo lì per lì. Però dai, con la giusta distanza, riusciamo a dirci oggi quale album è venuto fuori particolarmente bene e quale invece poteva essere fatto un po’ meglio, col senno di poi?
Se ti devo rispondere a pelle, e mannaggia a te che mi lanci queste domande a bruciapelo, devo dire che un disco venuto fuori piuttosto bene è stato Psychodelice. E questo nonostante la sua lavorazione sia passata attraverso una crisi devastante col mio primo management, il cui capo mi aveva fatto andare in panico totale, sbraitandomi contro perché avevo scritto dei pezzi in inglese, oltre a quelli in italiano, «Ma che cazzo fai, ma scrivi in italiano, cos’è ‘sta roba dei pezzi in inglese, ma dove pensi di andare con quelli, mica possono funzionare da noi». Questa roba mi aveva fatto andare in ansia e mi ero completamente bloccata. Fino a quando un giorno mi sono svegliata e, praticamente dal nulla, mi sono detta: ma quando mai mi è importato se una cosa funziona o meno? Quando mai mi è capitato di dover vendere e di dover accontentare questo o quest’altro? Il disco c’è, è bello, il filo conduttore è la mia voce, le tracce mi vanno bene così come sono. Quindi non vedo dove stia il problema. Con questa improvvisa serenità, ho ripreso a lavorare e ho finalizzato il disco con grande entusiasmo. Ma non è finita, eh: lo stesso manager, al momento di scegliere il lato B del primo singolo, singolo che era Distante, che poi capirai, era già la fase dei CD, il lato B era solo una finzione formale, visto che all’epoca era ancora un’abitudine legare un altro brano al singolo, se la prese con me perché avevo voluto Running Fast, uno dei pezzi in inglese, con una batteria molto acida, pezzo che tra l’altro nella mia testa parlava di Genova e del G8 anche se non so in quanti lo avrebbero capito, però ecco, per me ci stava perfettamente come contraltare di Distante. E lì di nuovo questo mio ex manager, assalendomi: «Ma tu sei pazza, cosa diavolo fai, accanto a Distante devi mettere un altro pezzo melodico, non esiste che tu metta quell’altra cosa».

Come è andata a finire?
È andata a finire che proprio sul set del video di Distante avemmo un ultimo colossale scontro su una questione di economie, e lì decidemmo di separarci brutalmente, senza preavviso. Andai nel panico, chiamai l’unica altra persona che conoscevo che sapevo facesse da manager, Marco Conforti (fratello di Sergio Conforti alias Rocco Tanica di Elio e Le Storie Tese, nda). «Marco, sono nei guai, mi puoi aiutare?». Accettò subito. Gli andò anche bene perché, trainato appunto da Distante, tutto quell’album fu un gran successo: e lui ne raccolse i frutti, anche se non ci aveva lavorato sopra per nulla.

Oggi, con Asian Fake a curare la parte discografica e con Silvia Magoni come manager, mi pare vada meglio. Ho l’impressione ci sia una bella atmosfera attorno a te. E te ti vedo particolarmente serena.
Se sto con Asian Fake, il merito è essenzialmente di Daniele Frenetik. Io adoro lui, e lui adora me: cosa c’è di più bello e più rilassante del direttore artistico di un’etichetta che si esalta per qualsiasi cosa tu faccia o dica, anche la più stupida e irrilevante? (Ride)

A proposito di cose stupide, stai facendo uscire un EP, Maria, che contiene tre versioni diverse dello stesso brano e nessuna di queste, correggimi se sbaglio, è quella come dire principale.
Hai colto il punto. L’ho voluto esplicitamente, questo. Sono i miei soliti giri mentali. Cioè: non voglio che si sappia quale sia, delle tre, la versione originale, quella insomma da cui è nato tutto. Il concept è proprio che io sono cresciuta nella cultura dei remix: che per me, se fatti bene, hanno pari dignità artistica rispetto ai pezzi originali. Quindi, volevo confondere un po’ le acque. Non ti dirò quindi quale versione è nata per prima. Forse lo svelerò più avanti, tramite i miei canali, magari chiedendo prima a chi mi segue quale secondo loro sia la versione originaria di Maria, quella da cui poi sono scaturite le altre due. Tra l’altro ho fatto una cosa che di solito non si fa: in ogni versione la traccia vocale è stata ricantata e adattata, mentre di solito nei remix la traccia vocale è sempre quella, è il resto che viene modificato.

Un album nuovo, però, quando? Se ho fatto bene i conti, visto che hai preso il ritmo di fare un album ogni sette anni, mo’ ci tocca aspettare il 2029.
E se invece Vesuvia fosse l’ultimo? Una cosa è certa: per far uscire un disco in fretta dovrei riuscire ad isolarmi per una o due settimane chiudendomi in studio, è l’unica. Ed è difficile. Quindi chissà, forse tocca aspettare il 2029. La verità è che superati i 50 anni la vita diventa piena di rotture di scatole molto terra terra, molto pratiche. La musica è qualcosa che richiede il 100% del tuo tempo e della tua attenzione mentale: forse è per questo che il periodo d’oro per comporre musica è di solito fra i 20 e 30 anni, perché quella è l’età in cui sei più spensierato, in cui senti di avere meno responsabilità. È anche vero però che nell’età a cui sono arrivata io c’è molta più esperienza e molta più consapevolezza, quindi riesci ad apprezzare pure di più le cose piccole e grandi, una volta che ti sei attrezzata per affrontarle. Perché le vedi per quello che sono. E poi vedi anche te stessa per quello che sei, senza inutili pippe mentali. E se sei veramente brava, puoi iniziare a fare piazza pulita di tutto ciò che è inutile.

Tipo?
Tipo, mettersi un certo tipo di pressioni addosso: sei abbastanza tosta, non lo sei, piaci, non piaci… Insomma: l’ansia di non sentirsi mai abbastanza. Quando finalmente riesci a superare tutte queste minchiate, puoi tornare ad essere come eri quando eri un adolescente, quando avevi 15 anni. E ti dirò: oggi mi sento molto più vicina alla me quindicenne che alla me ventenne o trentenne, che invece era un caos. Io a 15 anni davo molto valore ai rapporti umani, alla natura, a quello che mangiavo; davo molto valore a come mi rivolgevo agli altri, ai film che guardavo, alla musica che ascoltavo, al tempo, e al modo di utilizzarlo. Ecco: a ben pensarci, oggi sotto molti punti di vista come persona sto tornando ai miei 15 anni, più che ai miei 20 o 30. E ti dirò, ne sono davvero felice.

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