Andrea Ferrara è Sixpm, uno dei producer protagonisti della nuova scena urban, capace di destreggiarsi tanto con Jovanotti ed Elisa quanto con Ernia e Rose Villain, sua compagna nella vita. Ha scelto di trasferirsi in America nel 2015 quando l’onda rap stava investendo l’Italia – timing perfetto – e lì ha imparato un metodo, ha acquisito uno sguardo sul mondo della musica che gli permette di sopravvivere alle mode, creandone altre a colpi di beat. Il suo ultimo singolo My Love! ha una linea di basso funky, un rappato old school e una ritornello rap, praticamente lo scaffale di un negozio di vinili di seconda mano. Uno di quelli in cui Sixpm studiava, nell’università della strada di New York, per laurearsi in “teoria e pratica di una hit”, da Come un tuono fino al suo prossimo singolo…
Quando sei partito per gli Stati Uniti il rap in Italia non era ancora esploso. Tu avevi già iniziato a produrre musica?
In realtà il mio primo grande amore è stata la chitarra, quella rock. L’hip hop l’ho scoperto un po’ in età adolescenziale, con Eminem e Dr. Dre, e verso i 16 anni ho capito che c’era la mitica figura del produttore che dava il suono a tutti i brani che mi piacevano, da Kanye a Pharrell. All’inizio facevo dei loop con la chitarra, tipo dei boom bap.
A Milano erano gli anni della Dogo Gang, facevi parte del giro?
Sì, c’era un punto di ritrovo a Milan, il Berlin, un bar dove andavano i rapper come Jake La Furia, Marracash. Io e Pietro dei 2nd Roof (il duo di cui faceva parte Sixpm, nda) abbiamo legato con Guè con cui abbiamo iniziato a collaborare per Ragazzo d’oro.
Quindi nel 2015 mentre il rap milanese stava diventando popolare, tu sei andato via…
È proprio un lato del mio carattere quello di andare a cercare sempre qualcosa di diverso, di lanciarmi in cose nuove, inesplorate. Quindi dopo un po’ di anni con 2nd Roof avevo voglia di cambiare un po’ sound e poi ero troppo curioso di vedere cosa succedeva negli studi americani, dove lavoravano i miei miti, quindi sì, ho cercato di avvicinarmi a quel mondo lì.
E come ci sei riuscito?
BMG, che ai tempi era il mio editore, mi ha aiutato fissandomi un po’ di sessioni in studio a Los Angeles. C’era un camp della casa discografica dove arrivavano autori e compositori da tutto il mondo per scrivere canzoni e provare a piazzarle in dischi importanti. L’impatto è stato forte perché vedi come funziona una macchina enorme che va a mille, capisci che ogni giorno ci sono 20 mila studi che si attivano, che cercano di fare hit, come in fabbrica. Era un po’ strano, non mi ha fatto impazzire sinceramente. Infatti poi ho provato ad andare a New York, dove c’è una scena più organica, forse più elitaria perché in studio vanno solo personaggi di un certo livello, quindi è difficile entrarci. Poi c’è il lato più street, ma devi stare letteralmente in mezzo alla strada insieme a loro, è un po’ difficile da approcciare.
Hai continuato a collaborare con artisti italiani anche da New York. Cosa hai portato di questa esperienza americana nel tuo modo di fare musica?
Quando sono partito per New York c’era un abisso con il metodo italiano: lì ho imparato l’importanza dei dettagli, come trovare il microfono giusto per l’artista, scegliere il pre-amplificatore o il compressore giusto, una cosa che mi ha appassionato tanto. Ho imparato a registrare gli strumenti in un modo più analogico, mentre l’hip hop in Italia era ancora tanto in the box, digitale, dentro il computer. È fondamentale uscire dal computer, suonare di più, usare i campionatori e girare per negozi di vinili. L’America ne è piena, uscivo di casa a New York e avevo sotto casa uno stand di vinili, probabilmente rubati: grande fonte di ispirazione perché spesso vinili sconosciuti che ti portano a fare cose diverse, è roba che magari in Italia non avresti mai trovato.
In America c’è ancora musicalmente una differenza marcata tra East e West Coast?
La sento tantissimo nei BPM che usano i rapper, nelle cadenze delle rime, ma anche nella vibe generale.
Esiste un corrispettivo italiano di East e West Coast, ovvero due modi diversi di fare lo stesso genere?
Allora, in Italia ne abbiamo tre: Milano, Roma e Napoli. Napoli è quella un po’ più pazza, più versatile, più artistica, impossibile da catalogare. Mentre Roma e Milano sono proprio West e East: Milano è più innovativa, influenzata dal pop, Roma è strettamente rap.
Di che suono sei alla ricerca oggi?
Cerco sempre di innovare, di ascoltare roba nuova, non solo rap. Ad esempio My Love si porta dietro tante cose, da James Brown a Prince, Mark Ronson e Pharrell.
My Love è un assaggio di un tuo prossimo album?
Non è ancora previsto, ma voglio divertirmi, per fare roba che non farei in altri progetti o con altri artisti.
Hai collaborato con vari artisti, da Jovanotti a Ernia. C’è un filo rosso che unisce Jova ai rapper di oggi?
Amo il songwriting un po’ ricercato, fatto in un certo modo. Quello che lega tutti gli artisti con cui lavoro di più è la scrittura, la cura per le parole. Jovanotti riesce con tre parole semplici a dirti cose incredibili, idem Ernia. E anche Rose Villain e Guè sono tra i “liricisti” più forti che abbiamo in Italia.
Riesci a mettere becco nei testi degli artisti che produci?
È un tema delicato, con Rose ci confrontiamo sui ritornelli, invece su testi più profondi ha un suo mondo che è difficile da andare a toccare.
Con Rose oltre al ruolo di produttore hai coperto anche quello di direttore artistico. Cosa cambia tra i due ruoli?
Alla fine è un lavoro che si fa insieme all’artista e consiste nel trovare una visione del prossimo step da fare, del sound del disco, della direzione che si può prendere.
Da produttore e da compagno di vita, ti aspettavi il successo di Rose di quest’anno?
Me lo aspettavo prima, sapevo che sarebbe arrivato.
Sapevi prima dell’uscita che Come un tuono sarebbe stata una delle hit dell’anno?
Le hit sono imprevedibili ma la sensazione che in studio mi danno le canzoni che poi hanno avuto tanto successo è quella di fare un all-in, cioè di dire: qui me la sto rischiando, va veramente bene o veramente male. Sono delle canzoni dove non ci si trattiene, dove si dà tutto. Anche per Click Boom! è stato così perché è un brano che sembra una ballata e poi diventa cassa dritta, diventa un martello. Era un po’ una follia.
Hai lavorato con molte donne, da Rose ad Annalisa ed Elisa. Mi sembra che nella scena urban manchino però all’appello producer donne, o sbaglio?
Hai ragione, ce ne sono veramente poche. Rose produce con me delle cose, e nel disco nuovo infatti ci sarà una produzione anche sua.
Sbriciando il tuo Instagram, noto che le tue session di produzione avvengono spesso in luoghi idilliaci, sul mare, in case bellissime. È un’esigenza artistica o ti piace godertela?
Quando lavoriamo insieme Guè chiaramente mi vizia, si diverte a viaggiare, a sfruttare questi periodi di registrazione. E anche con Rose quando dobbiamo scrivere andiamo a New York. Gli artisti che hanno certi ritmi associano il momento della scrittura con lo svago, la vacanza. È diventato così per tutti, si sfrutta quel momento di creatività per svagarsi.
Sempre su Instagram ho visto una tua foto con questa didascalia: «Io e mia moglie splatiniamo forte»… Come vivete questa condizione di coppia e di vita?
La nostra relazione è nata in studio, abbiamo prima iniziato a lavorare insieme e poi a frequentarci, quindi siamo abituati, è tutto molto naturale.
Non ci sono gelosie professionali? Se tu collabori con altri o lei collabora con un altro produttore…
No, ma chiaramente se abbiamo un’idea insieme e poi io la porto in un altro progetto, lei un po’ si incazza.