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Slash: «Il blues mi toglie l’ansia di essere un super-musicista»

Quando suona coi Guns N’ Roses è «un ca**o di vincitore di Grammy». Quando fa il blues, come nell’album ‘Orgy of the Damned’ e nel festival itinerante che ha messo in piedi, può tornare a far musica in modo naturale e a divertirsi. «Si è aperta una porta»

Foto: Gene Kirkland

Magari non si capisce ascoltando Sweet Child o’ Mine o November Rain, ma lo stile di Slash è radicato nel blues. «Tutti mi considerano un chitarrista rock», racconta, «ma sono cresciuto in una famiglia in cui si ascoltava il blues. Quando ho imbracciato la chitarra mi sono prefissato di diventare un chitarrista rock, ma le mie radici affondano pur sempre nel blues».

Quando negli anni ’90 ha mollato i Guns N’ Roses, Slash ha messo in piedi un gruppo chiamato Slash’s Blues Ball che faceva pezzi di giganti del blues e del soul, da Robert Johnson e Stevie Wonder. Prima ancora di registrarne qualcuna, Slash ha messo da parte i Blues Ball per rimettere in piedi la sua band hard rock, gli Slash’s Snakepit.

È poi entrato nei Velvet Revolver, ha fatto un disco solista, è rientrato nei Guns, ha pubblicato album con Myles Kennedy and the Conspirators. Nell’ultimo anno ha ripreso a suonare lo standard blues Key to the Highway che faceva parte del repertorio dei Blues Ball. Ha ripreso contatto con due membri della vecchia band, il bassista Johnny Griparic e il tastierista Teddy Andreadis, e ha messo in piedi un nuovo gruppo col chitarrista e cantante Tash Neal e il batterista Michael Jerome.

Gli mancavano giusto delle grandi voci e così ha chiamato Iggy Pop, Brian Johnson degli AC/DC, Demi Lovato, Paul Rodgers, Chris Robinson, Billy Gibbons e Gary Clark Jr. e altri a cantare i pezzi di Orgy of the Damned. La cosa gli è piaciuta a tal punto da organizzare un festival itinerante tutto incentrato sul blues chiamato S.E.R.P.E.N.T. (che sta per Solidarietà Impegno Ripristino Pace Eguaglianza Tolleranza). Ci saranno tra gli altri la Warren Haynes Band, Keb’ Mo’, Christone “Kingfish” Ingram e Robert Randolph. Lo abbiamo intervistato.

Avresti potuto tranquillamente registrare un album con i Guns N’ Roses o coi Conspirators. Perché invece hai deciso che era il momento giusto per il blues?
Avevo un paio di settimane libere tra una parte e l’altra del tour dei Guns e le ho usate per fare il disco, senza pensarci troppo. Ho messo a assieme i musicisti, ho stilato la lista di canzoni, abbiamo iniziato a provare. Ho immaginato subito di avere cantanti diversi e quindi ho chiamato Gary Clark per Crossroads e Beth Hart per Stormy Monday. Quando sono tornato in tour con i Guns ho iniziato a organizzare session nei giorni off lavorando coi cantanti ovunque si trovassero. Questa cosa ha richiesto un po’ più di tempo, ma alla fine per fare tutto l’album ci son voluti solo 10 giorni.

Hai detto di aver scelto Brian Johnson per Killing Floor perché ti piace il suo registro basso. Hai scelto ogni singola canzoni per ogni cantante?
Diciamo di sì. Non avevo pensato a Iggy Pop all’inizio, però poi grazie al bassista, Johnny, ho trovato un articolo in cui diceva che gli sarebbe tanto piaciuto fare qualcosa di blues. L’ho chiamato e m’ha detto che gli sarebbe piaciuto fare Awful Dream di Lightnin’ Hopkins. Non l’avevo mai sentita, è una sorta di outtake pazzesca finita per caso nel disco, è fatta in modo molto libero, senza un arrangiamento specifico, sembra quasi stessero provando dopo una session o qualcosa del genere, nessuno sta suonando la stessa cosa nello stesso momento. Figo. Ci siamo dati appuntamento nel mio studio a Los Angeles e abbiamo registrato dal vivo seduti su un paio di sgabelli. È stato molto, molto spontaneo.

È Iggy che sembra miagolare?
Sì, è lui che imita un’armonica. Sul momento non avevo idea chi stesse facendo quel suono. Mi sono guardato attorno e ho capito che era lui.

Ti sembra di aver suonato diversamente in questo disco?
Sicuramente il mio approccio allo strumento è stato diverso rispetto a quello che avrei avuto coi Conspirators o coi Guns. Credo di aver suonato in modo più rilassato, non m’importava fare errori, cercavo di seguire il flusso della musica. Se facevamo una take ed era buona tranne che per la chitarra che non era perfetta, la lasciavo così. Prendi Stormy Monday con Beth Hart. La versione che senti viene dalla prima volta che l’abbiamo suonata con lei. Doveva essere una prova, ma la sua performance vocale era così hardcore che l’abbiamo tenuta com’era. Era troppo emozionante.

Infatti alla fine ti si sente dire: «È stato fantastico».
Lei come tutti noi era sconvolta dalla morte di Jeff Beck. Era appena tornata dal suo funerale e quella performance vocale è stato il suo omaggio emotivo a Jeff. Non poteva ripeterla.

L’influenza di Jeff Beck si sente da qualche altra parte nel disco?
Per quanto mi riguarda, in tutti i pezzi perché è nel mio modo di suonare, in generale. Ok, non suono le cose fusion che faceva lui, ma sono un suo grande fan, soprattutto del Jeff Beck vecchia scuola e del Jeff Beck Group. C’è molto di lui in Living for the City di Stevie Wonder che ho registrato con una Telecaster. Mentre la facevo, avevo in mente proprio Jeff.

In Killing Floor hai un modo di suonare è brillante e pieno, non ti avevo mai sentito così prima.
È un suono che viene da un altro luogo, non so come dirlo a parole. Di sicuro c’è una bella differenza rispetto a quando registro coi Conspirators. Qui ho un approccio più rilassato allo strumento, seguo l’ispirazione del momento. Mi sono divertito.

Però qualche arrangiamento è più pensato, vedi The Pusher e Crossroads che non somigliano agli originali.
Non abbiamo perso tempo ad ascoltare gli originali, non è stato necessario perché li conoscevamo e potevamo arrangiarli a modo nostro. Dipende dal gruppo con cui li stai suonando oppure semplicemente ti va di sentire quel brano fatto in un altro modo. Hai la facoltà di cambiare certe cose, se ti va. Se non ricordo male, con Key to the Highway è andata proprio così: ho preso l’arrangiamento di Freddie King e ho velocizzato il tempo, semplicemente perché mi piaceva di più. Living for the City invece l’abbiamo tagliata un bel po’ eliminando la parte in cui si sentono suoni e rumori delle strade di New York. Mi piace, eh, mi ha pure influenzato parecchio quando ero piccolo, ma nonostante sia bella non volevo emulare del tutto l’originale. Ci sono parti che nella versione di Stevie Wonder hanno senso, ma che riproposte da noi non avrebbero avuto lo stesso significato.

Foto: Matthew Baker/Getty Images

Hai aggiunto una coda alla versione che hai registrato con Gary Clark Jr. di Crossroads.
All’inizio volevo fare la versione di Robert Johnson, Cross Road Blues. Alla fine ho pensato che non volevo fare un disco blues solo per chi ascolta blues. Sarebbe stato preso troppo sul serio e ascoltato dal punto di vista dei puristi. Mi son detto che sarebbe stato più naturale fare una versione più rock di Robert Johnson.

Gary è stata la scelta perfetta.
La parte di Crossroads che suona lui è uno dei momenti di chitarra migliori in assoluto tra i dischi che ho ascoltato di recente. Gary aveva bisogno di prendersi una pausa dal suo album e ha colto al volo l’occasione di staccare e fare qualcosa di diverso a Los Angeles. Si sentiva proprio che era contento di dedicarsi a questo progetto e di non essere al centro dell’attenzione. È stato bellissimo.

Come ci è arrivata Demi Lovato a cantare Papa Was a Rolling Stone?
È stato un azzardo, lo sapevamo. Viene dal mondo del pop, ma mi ero fatto un’idea ben precisa della sua voce e sapevo che avrebbe potuto interpretare al meglio quel testo e l’emotività che racconta. Ci conosciamo da tempo, conosco il suo passato, so che ha fatto dei passi falsi nella vita, per questo l’ho chiamata e le ho chiesto di parlarne. È venuto fuori che quella canzone significava molto per lei. Così è arrivata e ha cantato con una voce potente che sorprenderà anche chi è abituato ad ascoltare la sua musica.

L’album si chiude con lo strumentale Metal Chestnut, che è una cosa insolita per te. Com’è nato?
Mancavano un paio di giorni prima di iniziare a registrare e il nostro produttore, Mike Clink, ci ha chiesto se avevamo degli inediti. In quel momento mi sono reso conto che non ci avevo minimamente pensato, mi ha spiazzato. Sono andato a casa e ho messo insieme una cosa. M’innervosiva l’idea di suonare davanti a tutti questi ragazzi, con nessuno di loro avevo mai fatto un vero disco o scritto del materiale originale. Così iniziato a suonarla, ma ero troppo agitato e l’ho fatta troppo veloce. Comunque gli altri hanno capito e mi son venuti dietro. Ted ha iniziato a suonare la parte di organo e l’abbiamo registrata. La versione nel disco è forse una delle due take che abbiamo fatto. Ne sono orgoglioso, si sente l’emozione del momento.

Perché l’avete titolata Metal Chestnut?
Mentre avevo le cuffie ho sentito qualcuno dire qualcosa poco prima che iniziassimo a registrare. Ho chiesto che cosa aveva detto e non so perché, ma ho subito pensato che la risposta sarebbe stata «metal chestnut», il che mi è sembrato divertente. Aveva detto tutt’altro, ma ho deciso di tenerlo come titolo.

E che aveva detto?
Non ricordo. Qualunque cosa fosse, non era buona quanto «metal chestnut».

Quest’album ha cambiato qualcosa nel tuo modo di vedere il blues e il soul?
Non credo. Ha cambiato però la mia consapevolezza di poter fare molti più progetti del genere. Non ho modo di dedicarmi a cose così e in passato è stato frustrante…

Cosa intendi dire? Già suoni coi Guns N’ Roses e i Conspirators…
Faccio parte di band che hanno una base blues, ma non di quello tradizionale. Cerco sempre di occasioni che mi permettano di fare jam session. Lavorare con gente diversa e mettere insieme il festival è stato fantastico. Se andrà bene, lo farò ogni anno. Si è aperta una porta, ho trovato gente interessante, è entusiasmante. Quando suoni blues l’importante è stare insieme, non ci sono pressioni o l’ansia di essere un super-qualcosa o un cazzo di vincitore di un Grammy. Conta solo fare musica e divertirsi, una cosa che a volte è facile dimenticare. Ecco, questa è per me l’occasione di farlo per sempre.

Da Rolling Stone US.

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