Ti prepari sempre, prima di un’intervista; e figuriamoci se non ti prepari prima di un’intervista con Jason Williamson, l’uomo-dalle-parole-incendiarie degli Sleaford Mods, che stai per incontrare via Zoom per parlare del nuovo album in uscita, UK Grim. Sai che per lui la dialettica è una clava e al tempo stesso una lama affilata, lo dimostra ormai da una dozzina di dischi e da chissà quante centinaia se non migliaia di date, e facendo i compiti a casa prima di affrontarlo vedi allora che clava e lama lo è non solo quando è sul palco ad esibirsi ma anche quando si fa intervistare: arrivano sempre dozzine di punchline da oratore di razza nichilista e iracondo. Il sospetto però che è tutto questo sia diventato quasi una maschera mediatica: come se il giornalista – e il lettore – si approcciassero con una sorta di piglio da «a Ja’, facce diverti’, facce indigna’» ormai cronicizzato, a cui Jason quasi per etica del lavoro non si sottrae ma anzi alimenta.
Saranno le risate nel vedere che l’intervista via Zoom la stavamo facendo dal posto di guida di una macchina (il magico equilibrismo logistico della vita da freelance), sarà che in qualche modo ci ha riconosciuto per un incontro datato ormai otto anni fa, ma la chiacchierata è stata un po’ diversa. Come se Jason avesse gettato per una volta la maschera, rilassandosi; e la interiezione più frequente non è stata un «fuck» o similari, con cui contrappuntare un fuoco di fila di affermazioni corrosive su politica e società, ma un più disarmato «don’t know».
Ciao Jason, eccomi qui, sono il giornalista di Rolling Stone Italia.
Aspetta aspetta, la tua faccia mi è familiare…
Oh sì: Milano. Ci siamo conosciuti lì. Lavoravo in produzione per il vostro concerto al Biko, ero un po’ quello che controllava fosse tutto ok.
Ah, mi ricordo di quella data! Sì sì, assolutamente… Oh, ben ritrovato. Mi fa piacere ribeccarti.
Guarda, piacere mio. Fu veramente bello occuparsi di voi in quella giornata: voi alla mano, la situazione bella, il pubblico preso bene… Comunque: ti vedo molto in forma.
Sì? Grazie.
Il che mi fa subito pensare a una strofa di Don, nell’album nuovo, in cui a un certo punto dici “Comedy gold / Until you get old and fat”: tu stai sfuggendo al destino di diventare “vecchio e grasso”?
Mah, mettiamola così: ho smesso di bere, ho smesso di drogarmi, ho iniziato a fare una vita piuttosto salutare che, ti dirò, fa bene un po’ a tutto: fa bene a te, alla musica che fai, ai concerti. È interessante che tiri fuori quel pezzo della canzone, comunque… Lì in realtà ce l’avevo con mio padre, con la sua tendenza ad andare continuamente con altre donne. Il mio sarcasmo era indirizzato su quello. Però sì: mi tengo abbastanza bene, io. Vero.
Facile farlo?
(Fa una lunga pausa) No.
Eh.
(Scoppia a ridere, per poi riprendersi) No, non lo è per nulla. Devi continuare ad essere in tensione per riuscirci: perché sai, sei sempre sull’orlo della tentazione. Non cedere è un esercizio continuo.
Ehi, ma non cedere è molto poco rock’n’roll, molto poco punk. Sbaglio?
Ok, non lo è. Va bene. Ma cazzo: non finirò con l’uccidermi solo per compiacere la datatissima percezione che certe persone hanno di cosa significhi il rock’n’roll e cosa significhi la musica in generale, per un essere umano. Chiaro? Che poi, rock: non siamo mica una band rock. Siamo punk. Sì. Ed essendo punk, facciamo esattamente quel cazzo che vogliamo, senza rendere conto di niente a nessuno. Solo che le cose cambiano, santo cielo: pensare che il punk sia ancora quella che cosa che era nel 1977 e comportarsi di conseguenza, non mi sembra particolarmente intelligente.
Hai più l’impressione che il vostro pubblico oggi si identifichi visceralmente in voi o che semplicemente si diverta con quello che mettete in scena?
Penso un po’ entrambe.
50 e 50?
No, dai. Facciamo 80 e 20. In molti vengono per le canzoni. Le vogliono. Le ascoltano. Ci credono. Ci investono sopra emotivamente. Credo sia la maggioranza.
Ma ti è mai capitato di pensare: questa cosa degli Sleaford Mods non durerà, è una formula troppo semplice per durare a lungo?
Molte volte.
Lo pensi ancora adesso?
Ogni tanto. Ma penso anche, in altri momenti, che andremo avanti semplicemente per sempre, così come siamo adesso: se lo vogliamo, ovviamente.
E lo volete?
Al momento, sì.
Al momento.
Di qui a cinque anni, chissà.
Ok.
L’importante è che restiamo onesti con noi stessi, no? Ora come ora troviamo tutto quanto ancora molto interessante; e sì, sentiamo la spinta interiore a non fermarci, ad andare avanti senza farci troppe domande e senza guardarci indietro o di lato.
Beh, l’album che precede questo UK Grim, ovvero Spare Ribs, è stato ad oggi il vostro più grande successo, se non sbaglio.
Vero. Confermo.
E sentivate allora la pressione del dover dare conferma e seguito a questo successo?
Ah be’, certo che sì. Ovvio. Come non sentirla, accidenti. Ma sentivamo anche la pressione di non fare un disco che gli fosse uguale. Penso che ci siamo riusciti. Tu che pensi?
UK Grim è molto più scuro.
Vero. Vero. Assolutamente. Perché incanala tutte le energie che sto sentendo profondamente – penso ad esempio a rabbia, frustrazione, aggressività – e che penso stia sentendo profondamente anche tutta l’Inghilterra di oggi. Rispetto al precedente, UK Grim è più cattivo, più scuro, anche più introspettivo. Forse anche più confuso, può essere, ma è una confusione che arriva dall’intensità dei sentimenti e degli stati emotivi che lo attraversano. Durante le sessioni di Spare Ribs ero molto più sereno.
Reazioni dei tuoi amici più stretti, quelli che ti conoscono meglio, quando gli hai fatto sentire UK Grim?
Qualcuno entusiasta. Qualcuno invece non ha detto nulla.
Di chi fidarsi, tra i due?
Oh, che vuoi che ti dica: secondo me è un buon album, non ci sono tracce deboli. E io lo sento così forte, così potente, che… beh, qualsiasi cosa tu possa dire non mi tocca, non mi scalfisce. Anzi, magari mi tocca; e però la prendo dal verso sbagliato, e mi incazzo. Ma penso sia giusto così, no? E forse con questo album è più giusto ancora che con altri nostri dischi essere così convinti di quello che si è fatto, visto quant’è intenso, scuro ed aggressivo. Sia come sia: per me, chi dice che questo è un disco debole non ha proprio capito niente. Debole. Macché.
Ma agli Sleaford Mods è mai capitato di far uscire roba debole?
Non lo so. Forse. (Pausa) Anzi: credo di no.
Ok.
Credo che siamo sempre stati crudi e intensi. Credo di aver sempre provato a spingere, a portare le cose su un livello più forte, più duro; magari è riuscito di più e meglio negli album in cui sentivamo che stavamo per fare il salto di qualità, questo te lo concedo, quello in cui iniziavi a intravedere un senso e un riconoscimento reale… penso a English Tapas ed Eton Alive… Spare Ribs è stato la conseguenza dello sforzo fatto in questi due album che lo hanno preceduto: non è nato da solo e dal nulla così centrato e azzeccato, è stato grazie alla energia e motivazione con cui ci siamo arrivati, energia e motivazione che abbiamo maturato prima.
È dura essere sempre aggressivi, spingere sempre.
Ma no. Cioè, non lo so. È una forma di energia che sento naturale, che sento sempre vicina. Mettiamola così. Ma non è rabbia cieca, non è semplice aggressione: si porta dietro anche qualcos’altro. Per fortuna.
Anche perché, dai, sei in forma; le cose vanno bene, la gente vi segue e vi rispetta come non mai. Tutto fila. Dovreste e dovresti essere al settimo cielo.
Vero, ma ogni tanto non lo sono, al settimo cielo. Anzi: spesso non lo sono. Perché quando sei in una condizione del genere, dove le cose vanno effettivamente bene dopo tanti anni di merda, allora ti metti a pensare: e adesso? Ora cosa succede? Qual è il prossimo passo? Non è che rischio di mandare tutto a puttane, dopo tutta la fatica? Cerchi insomma di darti da fare, di sviluppare le prossime strategie, non stai lì a rincoglionirti beato di come stanno andando le cose, capisci? Sei focalizzato sul lavoro, ecco. È uno stress essere focalizzati sul lavoro? È uno stress, cazzo se lo è, ti mette pressione addosso. Ma, al tempo stesso…
Al tempo stesso…
È qualcosa che mi rende felice e soddisfatto. Anche e soprattutto perché è un ottimo modo – probabilmente il migliore che conosca – per venire fuori dai momenti di dubbio e insicurezza che regolarmente mi assalgono.
In UK Grim, una traccia che ho trovato molto, molto interessante è Tory Kong: devo dire che il tuo flow sta benissimo su questa base da dancefloor scuro e cupo, da clubbing asciutto e claustrofobico. Forse è una direzione di stile che potrebbe diventare molto promettente per voi, una bella evoluzione?
Dici? Forse. Ma, onestamente, non ci penso. Cioè, non mi pongo il problema. Aspetta, mi spiego meglio: capisco cosa intendi, capisco cosa vuoi dire, e sì, effettivamente Tory Kong potrebbe sembrare una evoluzione rispetto all’identità sonora degli Sleaford Mods, vista un po’ dall’esterno. Vero. Visto a posteriori ci sta come ragionamento. Ma mentre sono lì, mentre registro, mentre sento quello che mi manda il mio socio Andrew, penso solo a come far funzionare le cose, capisci? Sono focalizzato solo su questo. Deve funzionare, stop. Che poi sia una evoluzione o la nostra solita formula, boh, non mi pongo il problema.
Com’è stato però collaborare con gli Orbital, a proposito di progressione verso un certo tipo di elettronica?
Ah, ottimo. Prima loro c’hanno fatto un remix. Poi ci hanno chiesto di fare una canzone assieme.
Dirty Rat.
E io la mia parte l’ho fatta e finita in due ore.
Due ore? Ma è pochissimo!
Guarda, è una di quelle canzoni in cui devi azzeccare il ritornello, una frase forte – e lì è successo abbastanza in fretta. Una volta che ci riesci, poi il resto viene da sé in modo molto veloce. Poi, in quel pezzo c’era anche molta melodia: quindi il mio ruolo è stato più facile, avevo meno spazi musicali da riempire.
Ma è facile collaborare con te?
Boh.
Boh?
Non lo so. Ogni tanto. Forse.
Beh, tu sei lo stronzo che parla male dei colleghi. Tipo Joe Talbot degli Idles.
Ecco. Io con lui mi devo scusare.
Lo so, lo so: ho visto che lo hai già fatto in altre interviste l’atto di scusarti, non volevo nemmeno tornare troppo nello specifico su questo. Però ecco, in UK Grim c’è una traccia, D.I.Why, che pare l’esatta prosecuzione del dissing di Elocution nell’album precedente, dove proprio te la prendi con un certo tipo di collega.
Sì, ma con Joe nello specifico ho esagerato: perché ero diventato geloso, ecco perché. Ho sbagliato. E mi scuso. Con lui mi scuso. Ma in generale penso che ci possa e debba essere sempre spazio per un po’ di pensiero critico, no? Nel caso specifico degli Idles, tuttavia, ero andato troppo in là. Stavo vedendo che avevano più successo di noi e, insomma, mi giravano le palle. Solita storia di invidia e gelosia. Ho sbagliato, lo ripeto.
Ti fa onore dire «ho sbagliato». Lo fanno in pochi.
Sia chiaro: la loro musica continua a non piacermi. Non fa per me, ecco. Ma questo non giustifica un attacco frontale come quello che ho fatto io: puoi fare musica che non mi piace, ma questo non significa che io debba passare tutto il tempo ad attaccarti personalmente.
Parole sagge.
Direi che è il minimo sindacale.
Sai che invece in So Trendy ho l’impressione che Perry Farrell fosse talmente tuo fan e talmente contento di essere nel vostro disco che si è quasi messo ad imitarti, a cercare di essere un po’ come te al microfono?
Vero? Un po’ l’ho pensato anche io! Ma penso anche che ci sia molto sapore di Jane’s Addiction in quel brano, e ne sono contentissimo. È una band che ho sempre stimato tantissimo. Li ho sempre visto come gente dall’attitudine punk, ma che è riuscita a fare una bella evoluzione musicale. Un onore, avere lui e Navarro come ospiti nel disco, in quella traccia.
Ma com’è stato l’incontro tra la tua profonda inglesitudine e il loro californismo? Perché a modo vostro siete entrambi perfettamente iconici, in questi rispettivi campi…
Un incontro che è stato un conflitto! Ma lo dico in senso positivo, eh. Alla fine il risultato è un po’ differente da quello che facciamo di solito però ecco, a me pare che funzioni. Non so.
Senti, ma non stanno iniziando a stufarti le interviste?
(Pausa) Ogni tanto è stancante, sì. E sai perché? Perché tendi a dire sempre le stesse cose. Ma non è colpa dei giornalisti, è inevitabile sia così: la gente vuole sapere dei dischi, e quindi i giornalisti devono fare un certo tipo di domande. È così e sarà sempre così, non c’è modo di venirne fuori.
Questo coi giornalisti; e col pubblico, invece? È cambiato un po’ negli anni il tipo di rapporto che c’è fra gli Sleaford Mods e il loro pubblico?
Mah, guarda: più o meno credo sia sempre uguale. Ora magari il nostro pubblico lo guardo di più, lo saluto, ci parlo. Ora sono in tanti, sono sempre di più. Devo intrattenerli.
C’è differenza tra suonare a casa, in Inghilterra, e farlo da altre parti?
C’era. Ma ora mi sembra che siano gentili con noi un po’ dappertutto. Forse perché ci capiscono meglio a furia di vederci in giro, boh?
Cosa ci dobbiamo aspettare dal tour che seguirà UK Grim?
Le solite cose.
Essenziale come sempre?
Assolutamente.
Ti diverte ancora questa formula, eh?
Oh accidenti, sì! Anche perché non potremmo fare in altro modo. Se ci provassimo, non saprei come gestirlo…