Una nuova edizione deluxe di No Sleep ’Til Hammersmith, uno dei dischi fondamentali dei Motörhead, uscirà il 25 giugno. La ristampa contiene l’album originale, canzoni registrate ai soundcheck e nei concerti da cui è tratto il live. Né mancano foto rare, repliche di memorabilia dell’epoca e dettagliate note di copertina che raccontano quel periodo, così come frammenti di interviste mai pubblicate prima con i membri del gruppo. Una di queste, che il giornalista Malcolm Dome ha fatto al frontman Lemmy Kilmister – morto nel 2015 – viene pubblicata per la prima volta qui, su Rolling Stone.
Quando i Motörhead hanno pubblicato il loro primo disco dal vivo, No Sleep ’Til Hammersmith, nel giugno del 1981, in pochi si aspettavano che avrebbe debuttato in cima alle classifiche britanniche. La band – il bassista e cantante Lemmy Kilmister, il chitarrista “Fast” Eddie Clarke e il batterista Phil “Philthy Animal” Taylor – si stava facendo le ossa con cinque date nel Regno Unito, tutte tra il marzo e l’aprile di quell’anno. Il trio ha registrato i concerti alla Queens Hall di Leeds (il 28 marzo) e alla City Hall di Newcastle (la sera successiva) per il live album, che alla fine comprenderà soprattutto il materiale inciso a Newcastle.
Il successo di Hammersmith ha spiazzato tutti: ha passato una settimana al primo posto in classifica e un mese e mezzo nella top 10. All’epoca la band era in tour in America come opening act del nuovo gruppo di Ozzy Osbourne, che era conosciuto in quel periodo come i Blizzard of Ozz. Sono tornati in patria a giugno, pronti per fare da headliner all’Heavy Metal Holocaust, organizzato all’F.C. Stadium di Port Vale il 1° agosto. Ironia della sorte, la popolarità del live album li ha spinti in cima al cartellone, sorpassando proprio Ozzy Osbourne.
Un paio di giorni prima del festival, ho intervistato Kilmister negli uffici londinesi dell’etichetta dei Motörhead, la Bronze Records, per il magazine irlandese Hot Press. Lemmy, che era sempre più richiesto dai media, era rilassato e in vena di scherzi. Avevo solo 30 minuti per intervistarlo, ma ha detto molte cose interessanti. Il pezzo non è mai stato pubblicato, per ragioni che non ho mai scoperto, ed è rimasto inedito fino a oggi. Di recente ho ritrovato una versione scritta a mano: quindi, quarant’anni dopo, ecco l’intervista perduta a Lemmy Kilmister.
Perché avete deciso di fare un live album proprio adesso?
Dovevamo farlo! In realtà pensavamo di farne uno da un pezzo. Diamo il meglio di fronte al pubblico. È lì che brilliamo davvero. E poi i fan ci chiedevano sempre quando ne avremmo fatto uno. Così abbiamo deciso di registrare gli show in marzo. Sono venuti bene, siamo partiti da lì.
Avete registrato diverse serate. Come avete scelto i brani da pubblicare?
Abbiamo lasciato la scelta a Vic Maile. È il nostro produttore, si è guadagnato la paga. Ha ascoltato tutti i nastri e scelto le versioni migliori di ogni pezzo. Noi abbiamo ascoltato quel che aveva messo insieme e ci siamo ritrovati sulla stessa lunghezza d’onda. Vic ha fatto un gran lavoro. Non solo nelle selezioni, ma anche nel mix. Poteva venire fuori un disco raffazzonato, con un suono poco fluido, ma si è assicurato che sembrasse una singola serata.
Perché non avete registrato solo un concerto?
Perché non puoi mai sapere cosa andrà storto. Sarebbe stato un grosso rischio. Avevamo l’attrezzatura a disposizione, quindi abbiamo preferito avere dei pezzi di backup. Non si sa mai.
Un singolo show sarebbe stato più autentico, no?
Hai ragione. Ma quanti live album sono fatti così? Devi essere pragmatico. La qualità dei nostri live non cambia da una sera all’altra. Quando si tratta dell’attrezzatura per registrare, invece, gli imprevisti possono sempre capitare. È una cosa fuori dal nostro controllo.
A proposito di qualità del suono: avete corretto qualche errore in studio?
No. Beh, io e Eddie non l’abbiamo fatto. Philthy ha sistemato un po’ di passaggi di batteria, ma poca roba, non è che avesse suonato male. Dipendeva più dal fatto che in alcune performance scelte da Vic la batteria non veniva fuori come doveva. Siamo fieri di come suoniamo, non c’è bisogno di rifare tutto in studio come fanno altre band. Sarebbe un imbroglio.
Come mai non avete fatto un doppio album?
Il piano era quello. Poi ci siamo accorti che il set non era abbastanza lungo. Avremmo potuto fare tre lati di un doppio LP, ma cosa avremmo messo sul quarto? Forse avremmo potuto raccontare qualche barzelletta, o canticchiare. Ma chi la vuole ascoltare una roba del genere?
Non potevate allungare la scaletta?
Non è mai stata un’opzione. La scaletta dei concerti Motörhead è perfetta così. Non solo per noi, ma anche per i fan. Se avessimo allungato il set, il livello d’energia sarebbe crollato. Hai idea di come suonerebbe su un live album? Saremmo stati potenti per tre quarti del disco e una band folk per l’ultimo pezzo.
Come avete scelto le tracce da scartare?
Abbiamo detto a Vic quali volevamo. Poi lui ha ascoltato tutto e ci ha detto cosa funzionava o cosa no. Ma in genere, nel disco ci sono le canzoni che avevamo scelto all’inizio. Sono sicuro che gli altri pezzi verranno fuori in qualche bootleg. Succede sempre, no?
Il tour britannico si chiamava Short, Sharp Pain in the Neck. Non avete pensato di intitolare così anche il disco?
No. Quel titolo suona bene per un tour, spiegava che avremmo fatto solo qualche data. Per il disco sarebbe stato sbagliato. Così abbiamo scelto No Sleep ’Til Hammersmith.
Come mai proprio questo titolo? Non avete suonato all’Hammersmith in quel tour…
Lo so, ma è una frase che usiamo spesso quando siamo in tour. È il nostro inside joke, pensavamo che avrebbe funzionato bene sulla copertina. E poi dà a voi giornalisti qualcosa da chiederci nelle interviste. Casomai non dovesse venirvi in mente niente di meglio.
È molto gentile da parte tua!
Sono fatto così, voglio sempre dare una mano ai magazine!
Avete appena chiuso un grosso tour americano con i Blizzard of Ozz. Com’è andata?
Meglio del previsto. È stato divertente stare in giro con Ozzy. È un gran personaggio e andiamo d’accordo. Sta ricominciando tutto da capo. Ovviamente, tutti lo conoscono per i Sabbath, ma questa è una nuova band e stanno ricostruendo tutto dalle fondamenta. Comunque, i concerti erano in posti abbastanza grandi e il pubblico era buono. Mi pare ci abbiano accolto con calore. Non siamo ancora così conosciuti negli States, quindi c’era poca pressione. Ci hanno trattati bene, è valsa la pena fare il viaggio.
Stai già pensando al disco nuovo?
Delle idee ci sono, ma siano ben lontani dall’entrare in studio e registrate. Magari faremo qualcosa di diverso. Che ne dici di un disco country? Quasi quasi lo dico al nostro manager Doug Smith, così riferisce alla Bronze e se la fanno sotto.
Siete stati al numero uno in classifica: pressioni?
Certo. Ora che abbiano dimostrato che pure band come la nostra possono andare al numero uno, tutti si aspettano che lo si faccia di nuovo. È così che ragiona il music business. Ci fa effetto? Per niente. Nessuno conosce i Motörhead meglio di me, Eddie e Philthy. Però sì, mi aspetto che la gente che ci circonda voglia il bis in classifica. E magari dei singoli di successo. Che dici, dovremmo chiamare Sheena Easton a cantare su un pezzo nostro? Scherzo.
Pensi che l’avvento della New Wave of British Heavy Metal vi abbia aiutati?
Non ne facciamo parte, così come non eravamo punk, ma abbiamo fan di tutti i tipi. Biker, punk, metallari. E sono sicuro anche sostenitori della New Wave of British Heavy Metal – che definizione stupida – e abbiamo portato in tour con noi band come Saxon e Vardis. Sono NWOBHM, giusto? Mi piacciono, e pure i Tank. È una band giovane fondata da Algy Ward, che stava nei Damned. La gente li confronta ai Motörhead e capisco il motivo. Prendi nota del nome. Sentirai parlare di loro nei prossimi due anni.
C’erano un po’ di gruppi NWOBHM l’altr’anno, quando siete stati headliner alla Stafford Bingley Hall.
Ricordami un po’ come abbiamo chiamato quel concerto?
L’Heavy Metal Barn Dance.
Ecco, sì. Perché la Bingley Hall sembra davvero un grande fienile. C’erano Saxon e Girlschool. Chi altri?
Angel Witch, Vardis, Mythra, White Spirit. In pratica, siete stati headliner di un festival NWOBHM!
Non ricordo quelle band, probabilmente perché non le abbiamo viste suonare. Qualche musicista devo averlo incrociato nel backstage per un saluto, niente di più. È il problema di quei concertoni: non c’è modo di bere o farsi con le altre band.
Ne avete fatte di cose da quando nel 1976 siete stati votati “peggiore band al mondo” dai lettori di NME. All’epoca avete pensato di mollare?
Sì. Non si andava da nessuna parte. Avevamo fatto un disco che la United Artists si era rifiutata di pubblicare [On Parole, poi uscito nel 1979]. Si aspettavano un disco pop, mi sa. E non ci lasciavano nemmeno incidere con altri. Abbiamo fatto un singolo per la Stiff, Leaving Here, e la United Artists ne ha bloccato la pubblicazione. Coglioni.
Avevamo anche pianificato un concerto d’addio a Marquee di Londra. Avevo chiesto all’amico Ted Carroll della Chiswick Records di registrarlo. Fortunatamente non ha fatto in tempo a portare l’equipaggiamento al club, il che ci ha dato due giorni di tempo da passare in sala d’incisione. Ed è allora che abbiamo fatto l’album Motörhead. È uscito nel 1977, quando il contratto con la United Artists era giunto a conclusione e finalmente eravamo liberi.
Cosa penso del sondaggio del NME? Per lo meno hanno riconosciuto che eravamo i migliori in qualcosa.
Ha una visione di come sarà la band quando festeggerete il decimo anniversario, nel 1985?
L’unica visione che ho riguarda quello che voglio fare dopo questa intervista: andare al pub, mettermi alla slot machine, bermi Jack e coca. È il programma a più lungo termine a cui riesco a pensare. Che i programmi per il futuro li facciano il manager o l’etichetta. Noi continueremo a fare quel che abbiamo sempre fatto. L’unica cosa che cambierò nei prossimi giorni saranno le mutande.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.