«Gli Slowdive li odieremo sempre, più di quanto odiamo Hitler». Rickey Edwards, chitarrista dei Manic Street Preachers scomparso nel nulla a metà degli anni 90, di sparate ne faceva tante. Quella contro la band di Reading, fresca di esordio discografico sulla lunga distanza (Just For a Day, 1991), la poteva decisamente evitare.
Durante la prima parte della sua carriera, fino allo scioglimento datato 1995, il gruppo di Neil Halstead e Rachel Goswell non ha mai avuto grande fortuna mediatica, nonostante in quel periodo il loro shoegaze fosse un genere decisamente in voga, Ride e My Bloody Valentine su tutti. Ci è voluta un’inattesa reunion per farli tornare (o forse finire per la prima volta) sulla cresta dell’onda. Ottime recensioni e concerti strapieni, come i due live italiani della prossima settimana. Per quello di mercoledì 31 gennaio all’Alcatraz di Milano ci sono ancora alcuni biglietti, mentre è sold out la seconda e ultima data, in programma venerdì 2 febbraio all’Estragon di Bologna. Alla vigilia di questo breve tour italiano abbiamo intervistato Neil Halstead, chitarra, voce e autore delle canzoni della band, in collegamento dalla Germania alla vigilia del concerto in programma ad Amburgo alla Grosse Freiheit 36 di St. Pauli.
Come sta andando il tour europeo?
Bene, ci stiamo divertendo. In scaletta c’è un po’ tutta la nostra storia: un po’ di cose dai primi EP fino ai pezzi dell’ultimo album. Insomma, ce n’è per tutti: sia per quelli non più giovanissimi che ci seguono fin dagli anni ’90 sia per i ragazzi che ci hanno scoperto più tardi.
A proposito di Italia e dell’ultimo album, come mai avete deciso di girare il video di Kisses a Napoli?
L’idea è stata di Noel Paul, il regista. Noi avevamo in testa una cosa alla Angeli perduti, il film di Wong kar-wai, e lui ci ha proposto di fare il video usando un personaggio molto giovane che gira per la città su uno scooter, un po’ come uno dei protagonisti di quel film. Il motivo principale per cui è stata scelta Napoli è che è una bellissima città, con la giusta energia per quel video. Ne è uscito un bel lavoro, io non ci sono mai stato e mi ha messo la voglia di andarci.
Sono passati dieci anni dalla vostra reunion, cosa è cambiato all’interno della band fra la prima parte della vostra carriera e quella iniziata nel 2014 con l’esibizione al Primavera Sound?
La grande differenza tra la prima parte della carriera degli Slowdive e oggi è ovviamente legata all’età: siamo più vecchi e abbiamo una famiglia. Quando abbiamo cominciato eravamo dei ragazzini che per sei anni hanno vissuto a strettissimo contatto. La nostra vita era fare i dischi e andare in tour. Adesso fra tutti abbiamo undici figli, quindi ciascuno di noi ha impegni familiari che rendono diverso anche il nostro rapporto: non ci frequentiamo più come in passato, stiamo meno tempo insieme. L’ambito in cui le cose sono cambiate di meno è quello dei concerti. Per me è sempre la stessa band, mi emoziono allo stesso modo. C’è qualcosa di speciale che succede tra noi cinque e penso che sia ancora lì. Anche dopo che ci siamo presi del tempo libero, quando torniamo in sala prove sento di nuovo quel buzz, e in questo le cose sono molto simili a quando eravamo teenager.
È vero che la vostra reunion ha preso le mosse proprio da una proposta degli organizzatori del Primavera Sound?
Non so come sia successo, ma abbiamo ricevuto un messaggio in cui ci chiedevano se volevamo tornare insieme per suonare al festival. Ci hanno beccati al momento giusto: proprio un paio di settimane prima ci eravamo visti tutti insieme, perché io avevo fatto un concerto a Londra e tutti gli altri erano venuti a vedermi. Ci eravamo ritrovati e avevamo chiacchierato, ma non avevamo parlato di una possible reunion, era una cosa che non ci era passata neanche per l’anticamera del cervello. Poi è arrivata la proposta e non è che mancasse moltissimo tempo al festival, ne abbiamo parlato un po’ e ci abbiamo anche scherzato su. Abbiamo pensato che magari avremmo dovuto accettare l’invito, che sarebbe potuto essere divertente. E l’abbiamo fatto. È tutto ripartito da lì.
Le canzoni dei vostri due album post reunion hanno un suono decisamente attuale, cosa che è stata messa in evidenza in molte recensioni. Come avete fatto a evitare la trappola del revival?
Quando abbiamo fatto il primo album post reunion, nel 2017, venivamo da un periodo intensissimo dal punto di vista dei live e il disco è stato fatto abbastanza in fretta. Dentro c’è l’energia che deriva dal fatto che suonavamo tanto insieme. L’album dell’anno scorso invece è stato più complicato da fare. Avevamo iniziato a lavorarci nel 2019 ma poi c’è stata la pandemia, quindi ci è toccato cambiare approccio. Io ho mandato alla band un bel po’ di musica elettronica che avevo fatto e non sapevo bene come usare. Erano una quarantina di pezzi minimali sui quali ho pensato che avremmo potuto lavorare un po’.
Effettivamente Everything Is Alive è stato costruito su alcune di quelle idee, ma c’è voluto un po’ prima che il disco trovasse la giusta vibe, prima che potesse camminare sulle proprie gambe. Per noi registrare un disco è sempre stato un processo molto organico. Non ci mettiamo mai a lavorare pensando al tipo di album che vogliamo fare, a che suoni ci dovranno essere e così via. Il nostro è un processo basato su tentativi ed errori che ci permettono di vedere cosa funziona e cosa ci piace. Se alla fine ci sono otto pezzi che ci piacciono molto e che stanno bene insieme, quei pezzi diventano un disco. Noi lavoriamo così, non è che ci sia molto altro da spiegare.
Durante la prima parte della vostra carriera la stampa, soprattutto quella britannica, non è stata tenera con voi. La seconda parte invece è stata finora segnata da ottime recensioni e da diversi sold out. La state vivendo come una rivincita?
Penso che per fare il musicista sia necessario avere la pelle dura. Ci saranno sempre recensioni buone e altre molto meno buone. Certo quando eravamo ragazzi abbiamo anche passato momenti difficili da questo punto di vista, soprattutto quando abbiamo pubblicato Souvlaki. Tutti pensavamo che fosse un grande disco e ci aspettavamo recensioni altisonanti. Invece è successo giusto il contrario, quasi dappertutto. Io avevo 23 anni, più o meno come gli altri, e ai tempi la stampa musicale britannica aveva un grande impatto sulla carriera di una band. Le recensioni negative ci hanno reso la vita difficile: meno concerti, quasi nessun festival, anche all’estero, con tutto quel che ne poteva conseguire. Siamo andati avanti facendo il disco che volevamo fare, mi riferisco a Pygmalion.
Oggi le cose sono cambiate: le persone si fanno la loro idea su un disco in modo diverso e c’è stata una rivalutazione critica degli Slowdive. È successo grazie a persone più giovani di noi che ci hanno trovati su internet, non grazie a una buona recensione, e a cui siamo piaciuti. Quando siamo tornati a suonare insieme ci siamo resi conto che c’era una generazione di fan che non ci aveva vissuti “in diretta” nella prima parte della nostra carriera e che era arrivata a noi senza idee preconcette, anche perché non aveva letto le recensioni degli anni ’90.
Dopo il vostro primo album siete stati in tour negli Stati Uniti con i Blur, alla vigilia della loro trasformazione che portò alla pubblicazione di Modern Life Is Rubbish. Cosa ricordi di quei concerti?
Quello con i Blur è stato il nostro primo tour in America. Per loro è stato difficile. Li conoscevamo già perché ai tempi stavamo tutti a Londra. Inoltre ai tempi del primo album anche loro erano stati parzialmente accostati allo shoegaze. Durante quel tour li vedevo bere molto spesso e non mi pare che fossero tanto contenti. Noi eravamo superemozionati, era la prima volta che andavamo in America e per noi essere là era già una gran cosa. Loro in quel momento erano una grande live band, con un sacco di energia. Mi ricordo che Damon durante i concerti si arrampicava dappertutto, anche sulle pile di casse. Visto quello che hanno fatto dopo, penso che in quel momento stessero riflettendo anche su chi volevano essere, su che band volevano diventare. Per loro credo che quello fosse un momento di passaggio. Per noi quel tour non fu altrettanto difficile, siamo stati molto bene, rispetto ai Blur eravamo meno esperti e probabilmente molto meno ambiziosi: eravamo felici di poter suonare in posti dove la gente era venuta apposta per noi.
Il vostro suono è riconoscibile nella musica di band di successo come i DIIV. Quali sono le band che ti piacciono di più fra quelle che si rifanno allo shoegaze?
I DIIV mi piacciono, li abbiamo incontrati perché qualche volta abbiamo suonato sullo stesso palco, ma ci sono anche altre band come i Whitelands, che apriranno i nostri concerti in Gran Bretagna, che fanno parte di una nuova generazione di gruppi shoegaze che secondo me ci devono qualcosa in termini di influenza. Nel 2002 è uscita una compilation intitolata Blue Skied an’ Clear in cui gli artisti della Morr Records rifacevano le nostre canzoni. C’era molta elettronica, e anche da lì ho capito che gli Slowdive avevano avuto una certa influenza su quel tipo di musica, forse un’influenza ancora più profonda di quella che abbiamo avuto sulle band chitarristiche. Penso che lo shoegaze abbia permeato molti generi diversi e che, anche se questo è meno evidente nelle band non chitarristiche, un album come Pygmalion abbia trovato una casa tra quelli a cui piace la musica elettronica, più di quanto sia successo con i fan delle chitarre ai tempi della sua pubblicazione.