Quello al civico 6 di via Bocca di Lupo, appena dentro le mura, è molto più di uno studio di registrazione. Consacrato come sede museale dalla città di Bologna, è una memoria storica coniugata al futuro, realtà culturale pienamente attiva. Lo dicono gli spazi abitati dai vecchi registratori a nastro e scanditi dalle copertine dei 33 giri, ma articolati per una pratica artistica assolutamente contemporanea. Lo dice Maurizio Biancani, che mi accoglie all’ingresso e mi accompagna tra stanze e ricordi fino all’aggiornatissima sala mastering al numero 4.
«In questi giorni sto lavorando a una riedizione rimasterizzata di Bollicine che uscirà in novembre per i quarant’anni. Mi sono ritrovato i nastri originali del 1983, che sto mixando anche in Dolby Atmos». Una modalità che lo entusiasma per le possibilità creative e per la qualità di ascolto, che mi illustra indicandomi il monitor: «Vedi, questa visualizzazione in 3D è un’ipotetica stanza, e posso spostare ogni suono nello spazio, dagli altoparlanti anteriori ai posteriori, passando dai mid, alzandolo fino al soffitto. Una possibilità a 360 gradi per 128 punti, che sono altrettanti suoni».
Ascoltare dalla sua poltrona è un privilegio e un autentico massaggio sonoro. Mi sembra di essere in una SPA, gli dico. «Ma puoi usufruirne anche a casa, disponendo le casse secondo questo schema, o con una soundbar Atmos che sfrutta la riflessione del soffitto. Con gli strumenti così separati, senza ammassare tutto in left e right, la definizione è al massimo e i suoni non sono più compressi: possiamo recuperare le dinamiche dei dischi originali, che dopo il 1970 abbiamo perso via via per voler tirare su i volumi a ogni costo».
Assieme ai nastri di Bollicine si riavvolgono quelli della memoria. «Quando l’ho conosciuto, Vasco era ancora un dj. Non voleva cantare, era pieno di dubbi, ma scriveva bene e Gaetano Curreri, suo amico, aveva già capito che sarebbe diventato un grande». Il loro è un incontro tanto fortuito quanto fortunato per entrambi: «Gaetano lo convince a registrare un disco e si presentano in via Schiavonia allo studio audio e video di Gianni Gitti. Si ritrovano però a dover montare gli strumenti in una sorta di magazzino, l’unico spazio disponibile, ma il batterista si oppone. Chiedono a Gitti di indicargli un altro studio di registrazione: lui, che non si faceva questi problemi, dice che alcuni ragazzi ne hanno appena aperto uno dall’altra parte della strada. Suona il campanello, vado ad aprire e mi vedo questo ragazzo magrissimo, capelli lunghi e occhi azzurri, che mi chiede: “Ma questo è uno studio di registrazione? Perché noi dovremmo fare un disco”. Lo faccio entrare e da quel giorno non abbiamo più smesso di lavorare insieme».
Maurizio infatti è al banco mix in tutti i dischi di Vasco fino al 1994, e contemporaneamente lo segue anche nei live. «Quando poi ho abbandonato i tour ho continuato comunque a lavorare in studio con lui per DVD, Blu-ray, masterizzazioni e altro. Ora che incide nel proprio studio il suo fonico è un mio ex allievo, bravissimo, Nicola Venieri. Ed è una grande soddisfazione, è rimasto tutto in famiglia».
Della loro comune avventura discografica ricorda soprattutto Gli spari sopra, e i tanti turnisti stranieri che per la prima volta varcavano le soglie della Fonoprint per Vasco: Gregg Bissonette e Vinnie Colaiuta alla batteria, Randy Jackson al basso, Steve Farris alla chitarra, solo per citare i più noti. «Sembrava un sogno… lavorare con loro è stato fantastico. Primo, perché erano umili, secondo perché era facilissimo: bastava posizionare i microfoni davanti agli strumenti e i suoni erano già perfetti. Io ero cresciuto a pane e rock’n’roll e non mi rapportavo ai dischi pop italiani. Non che gli italiani non fossero bravi, ma il sound rock non fa parte della nostra tradizione, mentre loro ce l’hanno nelle mani. Chiedevo a Bissonette: mi fai un brano per sentire i suoni? E lui: se faccio Black Dog va bene? Soccia, sembrava John Bonham! Va bene, va bene sì, gli dico, it’s ok! Poi ci sono sempre le eccezioni: il basso della title track, ad esempio, Randy non lo sentiva nelle sue corde, così abbiamo chiamato Claudio “Galina” Golinelli. È venuto bene subito! Vedi, quando il rock ce l’hai in testa…».
Parte un ulteriore rewind, che ci riporta ai suoi esordi personali e a quelli degli studi Fonoprint. Una storia di vecchi palchi, che però non sono quelli del rock: «Alcuni personaggi poi diventati nostri soci aprono uno studio al fine di produrre cassette per il Partito Socialista. Gli iscritti al partito avevano piacere di comprare l’audio dei comizi, che quindi vengono registrati e duplicati, anche cento al giorno. Tieni conto che a Bologna, a metà anni ’70 le cose si muovono quasi sempre per il partito. Così, uno dei soci più addentro al PSI ottiene un contratto con la Fonit Cetra: un album al mese per una collana di musica etnica con cileni, americani, cantautori sconosciuti. Iniziano a cercare un fonico chiedendo informazioni nei negozi di strumenti musicali, dove qualcuno fa il mio nome».
Il giovane Biancani, intanto, dopo una prima gavetta di orchestre e sale da ballo, fa il fonico live e ha aperto un piccolo studio con sala prove. «Così avevo conosciuto moltissimi musicisti bolognesi e nel frattempo mi ero avvicinato alla registrazione. C’era un ragazzo inglese che faceva il DAMS, cantava e suonava la chitarra. Gli proposi di fare un disco, e fu la mia primissima esperienza di fonico. Avevo un TEAC analogico a 4 tracce, col giochino classico dei Beatles ne registravo tre, poi le trasferivo su un’altra traccia e mixavo. Quando ho ricevuto la chiamata ho pensato “andiamo e vediamo cosa succede”».
Succede che entra in società e apre il primo studio Fonoprint, nome che vuole esprimere il concetto di «stamperia musicale». Un semplice appartamento messo a disposizione da uno dei soci, ma già attrezzato di tutto punto: «Troviamo le macchine in maniera rocambolesca, grazie a un leasing non pagato da una sala di registrazione romagnola. Mixer argentini, casse Telefunken, registratori Studer 8 tracce, microfoni Neumann, roba della Madonna. Iniziamo a lavorare, con doppiaggi, cassette e altro. Conosciamo Celso Valli e Mauro Malavasi, e cominciamo a farci un nome». Fino ad attirare il primo cliente di spicco: «Guccini decide di fare da noi la preproduzione di Via Paolo Fabbri 43 nel 1976. Quando arriva la fattura finale, le spese per i pranzi sono dieci volte quelle per lo studio! Con Francesco andavi a pranzo alle 12.30 e ti alzavi alle 4.30 di pomeriggio, facevi un paio d’ore e poi lui diceva: “è un po’ tardi”».
Ancor più stretti i rapporti con l’altro grande bolognese, ben al di là del discorso professionale. «Con Lucio Dalla eravamo veri amici, ci frequentavamo anche al di fuori della musica, e questa è sempre stata una cosa unica di Bologna. Andavamo in vacanza alle Tremiti con lui e i suoi musicisti, Roberto Costa, Portera… Ci considerava la famiglia che non aveva mai avuto. Da lui ho imparato tantissimo dal punto di vista umano e culturale. A Vienna ci chiedeva di accompagnarlo ai musei, aveva una conoscenza infinita dell’arte, soprattutto contemporanea: amava Klimt, gli espressionisti… Con lui mi sono fatto una mia piccola cultura».
È grazie a una dritta di Lucio, tramite il batterista Giovanni Pezzoli nel frattempo diventato socio Fonoprint, che gli studi si trasferiscono in via de’ Coltelli, «in un garage da ristrutturare, con un indispensabile passo carraio. L’abbiamo insonorizzato noi stessi, Pezzoli aveva manualità per i pannelli, la lana vetro… le uniche riviste straniere di settore, come Studio Sound, le trovavi solo in stazione. Abbiamo costruito tutto a mano, poi un produttore caraibico ci ha anticipato 15 milioni per comprare macchine dal suono molto rock come un mixer MCI e un 24 tracce americano, che in Italia non esistevano».
Con Lucio Dalla, intanto, si producono i dischi degli Stadio e di Ron. «Finalmente nel 1983 ho lavorato a un disco suo, 1983 appunto, il primo prodotto senza Colombini. L’abbiamo fatto tutto in via de’ Coltelli, curato nei minimi particolari. Sono molto legato a quell’album». Un anno di grazia, lo stesso di Bollicine e di Tropico del Nord dei Pooh. «Per quei tre dischi ho vinto il Telegatto, che all’epoca veniva assegnato anche ai tecnici. Me lo consegnò Mike Bongiorno in persona!». Un periodo di attività incessante, dal mix ai palchi di Vasco, fino alla programmazione delle tastiere: «Facevo sound design con tastiere analogiche, ed ero tra i pochissimi, così mi chiamavano anche negli altri studi per mettere in funzione gli oscillatori del minimoog». Con Dalla si ritroveranno nel 1994 per Canzoni e da lì in tournée, «fino al giorno della sua morte» ricorda commosso, ripensando a quell’ultimo concerto a Montreux.
«Zucchero, invece, l’ho conosciuto che era ancora Adelmo Fornaciari, prima di Donne. Poi per vicissitudini discografiche l’ha preso in mano Michele Torpedine che gli ha fatto fare successo. Oltre alle sue qualità musicali apprezzo tantissimo la sua determinazione nel farsi conoscere all’estero e essere apprezzato dai musicisti stranieri, che a volte ci guardano con la puzza sotto il naso. Prendi Brian May, che è venuto con lui in Fonoprint, Sting, Bono, Jeff Beck, Eric Clapton, tutti rapporti di amicizia vera. Lui gli telefona di fronte a me: “Jeff, quell’assolo che hai fatto non è un granché… Sì, stamattina ero troppo cotto, adesso lo rifaccio!”. Anche la Pausini, Ramazzotti, Bocelli, hanno avuto enorme successo internazionale, ma Zucchero è stato l’unico a sfidarli sul loro campo, quello del blues e del rock».
Sempre sintonizzato sulle lunghezze d’onda internazionali, ricorda la grande occasione di lavorare negli Stati Uniti, aggiornandosi su equipaggiamenti e pratiche che sarebbero arrivati in Italia con almeno un paio d’anni di ritardo. «In pratica ho trasportato la professionalità americana a Bologna, consigliando ai miei soci di comprare quello che vedevo negli Stati Uniti. Oltre a registrare, lì facevo l’assistente al mix, quindi carpivo le loro metodologie. All’epoca molti ingegneri del suono, a fine turno, perdevano mezz’ora a mettere a zero i potenziometri così che nessuno potesse copiare l’eq. Io fotografavo di nascosto, facevo spionaggio (ride) e quando tornavo a Bologna dicevo: “Là registrano il basso con due canali, mettono il microfono a un metro dall’ampli per riprendere l’ambiente…”. Queste conoscenze ci hanno portato in un contesto diverso. A un certo punto volevano venire tutti qui».
Anche perché, in un panorama ancora segnato da segreti e invidie, la realtà emiliana di quegli anni è un’isola felice, nelle parole di Biancani: «Invece di farci la guerra come accadeva a Milano, abbiamo sempre avuto ottimi rapporti con i nostri vicini, soprattutto con Maggi a Modena. Andavo lì a registrare, poi mixavo qui, o viceversa. Questo aumentava il giro di entrambi, idem con Malavasi o con lo studio a San Marino. Inoltre abbiamo avuto l’intelligenza di non legarci a un resident ma far lavorare tanti fonici per avere sonorità diverse, Roberto Costa lavorava con Carboni mentre io registravo Vasco…».
Di Bologna sottolinea la pervasività del fare musica, anche per la presenza del DAMS, del conservatorio — «che sforna Celso Valli, Mauro Malavasi, Fio Zanotti» — e dei festival jazz. «Così abbiamo rappresentato una grande concorrenza per Roma e Milano».
Tutto perfetto, se non fosse per la necessità di spostarsi nuovamente. «Non c’era spazio per un mixer più grande e soprattutto avevamo sempre problemi coi vicini. Mi ero beccato una denuncia per disturbo della quiete pubblica, non potevamo usare il passo carraio, gli artisti uscivano dallo studio alle tre del mattino… e poi ascoltavano i nastri in macchina, a tutto volume e con i finestrini abbassati… un disastro!».
È sempre Dalla a suggerire l’attuale sistemazione, un’ex tipografia all’interno di un convento di clausura, con l’immancabile passo carraio e un isolamento acustico a prova di denuncia. «Io e il mio socio Sandro giriamo l’America e l’Inghilterra, per vedere su quali studi modellare il nostro. Quelli della ADG, che curavano l’allestimento, ci dicono di fare un tour per gli studi di Londra: Metropolis, Olympic, Town House…», fino ad attraversare le strisce zebrate di Abbey Road. «Un pomeriggio ci lasciano la sala per lavorarci, e inizio a mixare un pezzo. Non era mai stato così facile, uno studio semplicemente perfetto! Chiedo a quelli della ADG: “Riusciamo a ricostruirlo pari pari a Bologna?”».
La risposta è sì. «I clienti erano a bocca aperta. Avevamo un banco enorme e nuovissimo, siamo stati i primi a comprare due registratori digitali da 270 milioni… quelle macchine di là costano quanto due o tre attici. Forse era meglio l’attico, ma abbiamo costruito una gran cosa». Anche perché in quegli anni la componente tecnica si lega a doppio filo a quella musicale, grazie alla già citata triade di produttori Valli-Malavasi-Zanotti. «Ma anche Guido Elmi, uno che aveva uno sbuzzo musicale notevole!».
E poi lo studio mobile per i live, il trionfo del digitale, le vicissitudini del mercato. «Negli anni ’90 lavoravamo come pazzi, adesso uno studio può sopravvivere solo se fa diecimila cose diverse. Dal 1987, ad esempio, facciamo corsi audio per insegnare il mestiere ai ragazzi, curiamo video, pubblicità, e soprattutto siamo diventati una realtà museale, con visite guidate e incontri periodici».
Questo la dice lunga sul rapporto con la città, che «è sempre stato ottimo». Torna il nome di Dalla, un traino per tutta Bologna. «Tutti si riconoscevano in lui, e aveva un peso anche politico». Una perdita per una città intera, che comunque mantiene la sua prerogativa e i suoi ritmi umani. «Anche grazie a questo ambiente, Fonoprint è sempre stata una grande famiglia, e questo per gli artisti è ancor più importante dei suoni e della tecnologia. Morandi viene ancora a giocare a carte al tavolo bianco lì, Carboni si ferma a pranzo… Ma anche gli artisti che provengono dalle altre città, e che non sono abituati a questo tipo di umanità in studio. Se riesci a trasmettere questo concetto, sarebbe una cosa bella da dire…».