A Sanremo è andata così così, aveva pronta una cover di Celentano che non ha potuto sfoderare («Non è che ho sbagliato il calcio di rigore, non me l’hanno fatto proprio tirare»). Ma per Clementino quel palco era comunque un “di più”. Vulcano, il suo nuovo album, è solo l’ultimo in oltre 20 anni di dischi e di live. Il merito è anche della sua carriera mancata da attore, che lo stava per portare via dalla musica. Ma, alla fine, non ce l’ha fatta.
Con Vulcano hai esplorato territori inediti per te, con tracce per nuovi e vecchi fan.
Ormai ho tre tipi di pubblico: c’è quello napoletano, che è legato a Napoli, quello che vuole O’ vient, La luce eccetera. Poi c’è quello hip hop che vuole “Clementin’, spacc’ e vetrin…”. E poi c’è il pubblico medio italiano, che è arrivato dopo Sanremo. Ma alla fine tutti vogliono che io sia me stesso. Quindi mi sono detto: “Facciamo un album da solo, in cui al centro del mondo ci sono io”, come nell’Umanesimo no? Sono contento, ho tirato fuori la mia roba anni ’90, proprio il bum bum cha. A me piace la trap, ma mettermi a farla all’improvviso, perché mo’ si porta, non aveva senso. Allora, a maggior ragione, devo spingere da un’altra parte.
Sei andato due volte a Sanremo. Ha scombinato un po’ le carte nella tua carriera?
Da buon b-boy negli anni ’90 vincevo tutte le gare di freestyle all’epoca e, ovviamente, non mi ero mai sognato di partecipare a Sanremo. Poi c’è stata questa possibilità con Quando sono lontano e ho provato. È anche un buon palco per promuovere un disco, è un’avventura vera. Non ho perso fan, anzi se ne sono aggiunti di nuovi. A volte penso a Eminem, un bianco che è riuscito ad avere successo con l’hip hop e credo che per me sia la stessa cosa, non è facile in Italia per un napoletano saltare fuori tra gli italiani. Posso dire di avercela fatta: non era facile, vengo dalla Terra dei fuochi, dal triangolo Secondigliano-Acerra-Nola. Non ho alcun disagio familiare, ma psicologico sì. È una zona in cui non ti conosce nessuno e finché non ti sposti a Milano o Roma non trovi opportunità.
Eri un “ragazzo fuori”?
Beh, senza rap potevo finire a fare qualcosa di brutto, magari mi ha salvato la vita. Però io mi sono sempre fatto il culo: ho lavorato per 13 anni come animatore nei villaggi turistici, andavo a dormire alle 4 e mi svegliavo alle 8: dovevo stare con la gente tutto il giorno e sorridere, anche se mi giravano i coglioni. Voglio vedere i rapper di oggi che sono tutti: “Mi fumo una canna e vado a dormire alla mattina” e poi si scetano alle quattro del pomeriggio. Mi sono dato una formazione da solo. Sono cresciuto io e sono cresciuti i miei fan con me.
Ce n’è qualcuno con cui sei più legato?
Sì, quelli del mio fan club con cui vado a mangiare la pizza una volta all’anno. Tutta questa crescita mi ha aiutato nella presenza scenica: molti dicono che sono bravo dal vivo, ma io mi considero un casinaro, sono un MC.
Mi sono circondato della napoletanità che sento più vicina, da Maradona a Siani, da Pino Daniele a Totò
C’è anche una traccia dedicata a Sorrentino…
Ho sempre sognato di fare l’attore: da ragazzino andavo a Cinecittà, stavo lì tutto il giorno per dire solo: “Commissario, vi vogliono al telefono!” e portare a casa 100 euro. Ho girato anche qualche serie tipo Distretto di polizia… ma là c’erano migliaia di attori, e tutti che volevano farcela, e mi sono detto: “Ma dove cazzo vado io?”. Studiavo teatro, prendevo i dialoghi della Disney e li adattavo, tipo quello di Capitan Uncino e Spugna, il monologo del Genio di Aladdin. Ma il rap andava sempre meglio, quindi ho scelto quella strada. Anzi, forse adesso che sono famoso posso sperare di fare l’attore.
L’hai già fatto in qualche film, però…
Sì, però interpreto sempre Clementino! Io invece vorrei fare il comico, mi piace molto la comicità di Jim Carrey. Tornando a Sorrentino, lui mi ha colpito tantissimo, sai? Spero di fargli sentire questo pezzo dal vivo.
Ringrazieresti anche tu Maradona come lui, nel caso dovessi preparare un discorso?
Sicuramente! Sono stato a cena con lui, mi ha preso il cellulare e si è filmato mentre diceva il titolo del mio disco. E l’ho caricato sui social nei giorni successivi. Negli ultimi anni mi sono circondato della mia napoletanità: da Maradona a Siani, da Pino fino alla figlia di Totò, che mi ha consegnato il premio San Gennaro in piazza a Napoli. La sorella di Troisi è venuta con i nipoti al mio showcase a San Benedetto del Tronto, mi ha regalato una cornice con una poesia di Benigni dedicata a Massimo. Bellissimo.
Cosa ti chiede e cosa ti dà Napoli?
Napoli ti chiede in qualche modo di rappresentarla, è successo a Bennato, è successo a Pino. Io ne parlo molte volte. Grazie a Universal e alla Sovrintendenza di Pompei, sono riuscito a girare il video di Ragazzi fuori sopra al Vesuvio e dentro gli scavi: siamo i primi che l’hanno fatto, Elton John e i Pink Floyd avevano solo avuto il permesso di girare un live. Questo significa qualcosa: il video del singolo di Sanremo lo giro nei miei luoghi, non a New York. Anche in passato con Rocco Hunt per Giungla siamo andati alla Gescal di Cimitile, dove sono nato e dove viveva mia nonna.
Parli sempre di una speranza…
Uso molto l’ironia e faccio un rap di speranza e uno più divertente, che parla di argomenti intelligenti, ma che puoi ballare nei club. Spesso mi scrivono ragazzini di Trapani, Bari, Lecce, Catania, Catanzaro… Mi chiedono: “Vengo dal sud, come faccio ad avere successo?”.
E tu cosa rispondi?
Rispondo: “Frate’, prima di tutto un’etichetta non ti prende se non sa già chi sei, quindi creati il tuo personaggio, fai il video…”. All’inizio, per far ascoltare una canzone dovevo mandare una cartolina con il pacco, semp’ si nun o’ arrobavn a Napule. Adesso fai un video, ti registri e arrivi ovunque. Ma devi saper stare sempre con i piedi per terra e la testa alta: ci sono ragazzi che fanno 100mila view in un video e si montano la testa, io sono qua da 20 anni e non mi è mai successo. O perché sono insicuro o pecché so’ scem’. Serve determinazione, poi quel momento arriva: invece, se fai un pezzo e vuoi diventare subito una star, hai sbagliato palazzo.