I Pink Floyd hanno chiuso il tour di The Wall all’Earls Court di Londra nel giugno 1981. In platea c’era una bassista diciannovenne di nome Guy Pratt. Seduto in poltrona, non credeva ai suoi occhi: finalmente poteva vedere un concerto di una delle sue band preferite. «Non ho mai pensato: mi piacerebbe essere là sopra con loro», dice oggi. «Sai, il bassista ce l’avevano ed era il tizio che scriveva i testi».
E invece, quando sei anni dopo i Pink Floyd hanno ripreso a fare tour, quel bassista, Roger Waters, era fuori da giochi e a sostituirlo c’era Pratt. Da allora, non si è mai allontanato dal mondo dei Pink Floyd. Ha suonato in The Division Bell del 1994, è stato nuovamente in tour con loro, ha suonato del disco strumentale del 2014 The Endless River e in quelli solisti di David Gilmour On an Island e Rattle That Lock, che ha portato in giro per il mondo col chitarrista. Ora fa parte del band di Nick Mason, i Saucerful of Secrets.
Eppure i Pink Floyd non sono che una parte della storia musicale di Pratt che ha suonato con Madonna, Michael Jackson, Coverdale-Page, Roxy Music, Iceage, Robert Palmer, Gary Moore. E ha passato una settimana indimenticabile con gli Smiths.
Che cosa ti attirava del basso?
Un bel niente. Io volevo una chitarra elettrica. Mamma diceva: «Caro, perché non suoni la chitarra classica?». E io: «Col cazzo, voglio uno strumento elettrico». Allora ho pensato: se chiedo un basso elettrico per lo meno non mi rifileranno un contrabbasso. Me l’hanno regolato per il mio quattordicesimo compleanno. Ha cominciato a piacermi quando i miei amici, che per Natale avevano ricevuto chitarre elettriche, hanno avuto bisogno di un bassista (ride, nda).
Hai suonato con gli Iceage aprendo per David Bowie nel tour di Serious Moonlight. E una sera sei uscito con lui, vero?
È successo a Rotterdam. Eravamo al bar dell’hotel, mi hanno chiesto se mi andava di seguirli in un club. Quando siamo arrivati e la gente ha visto Bowie c’è stato il finimondo. L’hanno preso letteralmente d’assalto, lo tiravano da tutte le parti. I musicisti della sua band erano abituati, io no. Urlavo alla gente: «Via di qui, stronzi!».
È vero che Robert Palmer ti ha cambiato la vita?
Mi ha preso sotto la sua ala protettrice. Abbiamo scritto canzoni e una, Go to Zero, è finita nel disco dei Power Station. Mi hanno procurato un contratto di publishing e un bel po’ di soldi. Grazie a lui ho conosciuto Bernard Edwards, il mio eroe. Quando hanno fatto assieme l’album Riptide, Bernard ha portato i suoi musicisti, ma ha detto a Robert: «Chiama quel ragazzo inglese, mi piace». È una delle cose di cui sono più orgoglioso. Nelle note di copertina c’è scritto: «Basso di Bernard Edwards e Guy Pratt». Avevo 22 anni.
Più o meno in quel periodo sei quasi finito in tour con gli Smiths. Cos’è accaduto?
Quei cinque anni sono stati folli, cazzo. Lavoravo con Bryan Ferry a Bête Noire e a lui piaceva l’idea di scrivere una canzone su uno strumentale degli Smiths chiamato Money Changes Everything. Era il lato B di Bigmouth Strikes Again. La cosa però non veniva bene e allora ha chiamato Johnny Marr col quale ho legato subito. Siamo diventati amiconi. Quando il loro bassista Andy Rourke è stato beccato con della droga, e non sapevano se sarebbe riuscito a ottenere il visto per l’America, hanno chiamato me. Ho provato con loro una settimana. Poi le cose si sono messe bene per Andy.
Come sono andate le prove?
Johnny era il capo. Dipendeva tutto da lui. E c’era anche Andy, che mi ha insegnato le sue parti di basso che sono sorprendentemente sofisticate, molto complicate. Sembrano semplici, ma ci sono un sacco di parti che cambiano in continuazione. Provavamo nella campagna del Sussex, Morrissey è venuto solo gli ultimi due giorni. Ai musicisti piaceva fare tardi, Morrissey invece andava a letto presto. L’ultima sera siamo stati su tutta la notte. Sono andato in camera, ma volevo continuare a far casino. Allora sono andato a bussare a quella che credevo fosse la porta di Johnny: «Sveglia, bastardo!». Era la porta di Morrissey. Si è alzato il mattino dopo, ha preso il treno per Londra e io non ho fatto il tour (ride, nda).
Com’è che sei entrato nei Pink Floyd?
Ho conosciuto David per via dei Dream Academy: io suonavo con loro e lui li produceva. Aprimmo per lui a Birmingham. L’ho incontrato nel camerino. Ce ne siamo stati lì impalati senza dire una parola finché lui se n’è andato. Bella mossa, eh? Poi ha suonato sul disco di Bryan Ferry. Dopo una vacanza in Tailandia sono tornato a casa e ho trovato in segreteria un messaggio in cui David mi chiedeva se volevo suonare con lui e Kate Bush in un concerto per Amnesty International, che si era già tenuto. C’era anche un altro messaggio: era di Zak Starkey che mi proponeva di andare per un giorno in studio con gli Who. Mai più vacanze in Tailandia.
Tempo dopo aver letto un articolo sulla reunion dei Pink Floyd sul mensile Q ho ricevuto un’altra telefonata da David. «Non so se hai sentito del tour dei Pink Floyd». E io: «Sì, qualcosa». «Ti interessa? Sei disponibile?». L’ingaggio più importante della mia vita.
Eri un fan dei Pink Floyd?
Di brutto. Per la mia generazione, quelli venuti dopo il punk, i Pink Floyd non erano per niente fighi. Quindi li si amava, ma non lo si diceva in giro.
Basti pensare alla famosa t-shirt indossata da Johnny Rotten con la scritta “Io odio i Pink Floyd”.
Esatto, anche se qualche anno fa qualcuno glielo ha chiesto. Quella che indossava era una t-shirt dei Pink Floyd e all’epoca costavano parecchio e dovevi aspettare tre settimane per procurartene una. Qualcuno glielo ha fatto notare in un’intervista e Lydon ha detto: «Finalmente! Chiaro che ero un grande fan dei Pink Floyd!».
Non deve essere stato facile all’inizio. In sostanza, rimpiazzavi Roger Waters al basso.
Provavo emozioni contrastanti il giorno in cui sono cominciate le prove a Toronto. Mi sentivo a casa dal punto di vista musicale, le persone coinvolte mi piacevano, ma mi ripetevo: «Non pensarci proprio. Ti scopriranno e ti cacceranno». E lo penso ancora (ride, nda).
La disposizione sul palco mi ha stupito. Pensavo che mi avrebbero messo dietro e invece ero nella posizione di Roger, in linea con David sul fronte del palco, con in mezzo la batteria.
Che cosa hai pensato quando ti hanno detto che avresti dovuto cantare le parti di Roger su alcune vecchie canzoni?
Cantare Run Like Hell è stata la mia audizione. Ero in pessimo stato, ero convinto che avrei sputtanato tutto e invece ho cantato benissimo. Se fossi stato più riposato sarei stato troppo a disagio. David mi ha fatto tornare per una seconda audizione e mi ha chiesto di ricantare. E io: «E perché? L’ho già fatto». Ero terrorizzato, ma ho fatto la figura del tipo pieno di sé. E David ha pensato: «Fanculo, rischiamo».
Fatto sta che non ho suonato una sola nota di basso alle audizioni. Ho giusto cantato Run Like Hell. Non so se la cosa sia significativa del giudizio di Dave sulla complessità delle linee di basso dei Pink Floyd. Sapeva che ero in grado di suonare e gli bastava (ride, nda).
Era il primo tour senza Roger Waters. Non c’era il timore che il pubblico non l’avrebbe accettato?
No. L’unico Pink Floyd con un vero profilo pubblico all’epoca era Dave, per via delle volte che aveva suonato sui dischi altrui. Negli ultimi trent’anni c’è molta più consapevolezza sull’identità dei membri del gruppo. All’epoca erano i Pink Floyd e basta.
Non ho mai pensato di rimpiazzare Roger. Metà delle parti di basso sui dischi le suonava David e io non ho mai considerato Roger un bassista. Era un grande artista concettuale. Mi divertiva la gente che veniva a dirmi che ero un bassista bravo quanto Roger. Grazie tante, avrei preferito scrivere The Wall (ride, nda).
Quel tour andò avanti per due anni, 198 concerti. Tosto.
Tostissimo. Sono andato fuori di testa. Troppo lungo. E quando sei giovane ti sembra lungo il doppio. Loro erano sulla quarantina e poi c’eravamo noi ragazzini, io, Jon Carin, Gary Wallis. Abbiamo suonato in autunno, fatto una pausa a Natale, siamo tornati on the road e ritornati a casa per Pasqua, e poi fino all’estate, proprio come a scuola.
In che senso sei andato fuori di testa?
È come avere le chiavi dell’armadio dei giocattoli. Jet privati, hotel. E quando hai i giorni off e sei giovane non hai voglia di andare a letto presto (ride, nda).
Alla fine del tour hai suonato sull’album di Madonna Like a Prayer.
Credo fosse una delle prime volte in cui usava un vero bassista al posto di macchine e tastiere. Il bello è che di tutte le canzoni, Like a Prayer è quella che ricordo meno. Quando sono tornato a Los Angeles loro stavano lavorando al mix e Madonna mi ha invitato in studio. Ho sentito Like a Prayer e le ho detto: «È la cosa migliore che tu abbia fatto. La parte di basso è pazzesca. Chi è?». E lei: «Sei tu!».
Hai anche fatto un pezzo con Michael Jackson…
Earth Song.
Lui c’era?
Non c’era, eppure continuavano a dirmi che Michael avrebbe voluto questo e quest’altro. C’era un fonico, così dicevano, sembrava più una guardia del corpo. Era al desk, dove non mi facevano entrare, e continuava a dirmi che cosa avrebbe voluto Michael. Poi ho capito che stava prendendo ordini da qualcuno che era nascosto dietro al banco del mixaggio. E quel qualcuno era Michael Jackson. È ridicolo, ma ho dovuto andare avanti facendo finta che non fosse lì.
Quindi non l’hai incontrato?
No, non mi hanno detto che era lì, anche se era evidente che c’era. A quanto pare lo faceva spesso. Mi hanno detto di una riunione con Nile Rodgers in cui Michael era nascosto sotto la scrivania. È durata finché la cosa non è diventata talmente imbarazzante e ridicola che Nile se n’è andato.
Hai suonato anche con Jimmy Page nel progetto con Coverdale.
Jimmy sul palco è un alchimista. Per la prima volta ero in una vera band rock’n’roll. Fino a quel momento avevo suonato con gentiluomini piccolo borghesi tipo i Pink Floyd.
E com’è stato il tour di The Division Bell rispetto al primo?
Completamente diverso. Nel primo c’era uno spirito tipo tutti per uno e uno per tutti. Era una grande famiglia e c’era qualcosa da dimostrare. Nel secondo c’era più tensione. È stato meno divertente forse perché si era tutti un po’ più vecchi. Ma musicalmente è stato infinitamente migliore. Infinitamente. Merito della tensione. Se sei troppo felice non suoni bene (ride, nda).
In un certo senso, riproponendo Dark Side of The Moon avete lanciato la moda di rifare per intero dal vivo gli album classici. Prima di allora l’hanno fatto forse solo gli Who con Tommy nel 1989.
Facevano varie canzoni di Dark Side nella seconda parte del concerto e allora Polly Sampson ha detto: «Perché non lo fate per intero?». La cosa interessante è che quando fai tutto Dark Side suoni i pezzi in modo differente. Non so come spiegarlo, ma se suoni Us and Them da sola ha un senso, se la suoni all’interno di Dark Side ne ha un altro.
Se i Pink Floyd avessero continuato ad andare in tour ogni tre anni, avrebbero riempito gli stadi ovunque, come i Rolling Stones.
Si è capito benissimo durante il tour solista di David del 2006, l’ultimo con Rick, che non voleva più prendersi la responsabilità di un tour di quelle dimensioni. Parliamo di 100 tir, centinaia di persone. È come diventare improvvisamente l’amministratore delegato della Pepsi. C’è a chi piace. A Roger Waters, ad esempio. A Mick Jagger. Più grande è, meglio è. Ma non per David.
Il tour di On an Island dev’essere stato grandioso.
È stato allora che ho capito che una parte fondamentale dei Pink Floyd era la conversazione musicale fra David e Rick. La loro relazione era fondamentale, altro che chiacchiere su David contro Roger.
Echoes era sensazionale.
Meravigliosa. Siamo stati a New York per un paio di settimane. Io ero sposato con la figlia di Rick, Gala. Lei era via e perciò nostro figlio Stanley è venuto a stare a New York con me. La sua migliore amica è Romany, la figlia di David, sono nati a poche settimane di distanza l’uno dall’altra. Ed eccolo a New York con amica, padre e nonno. È come se quel tour fosse stato organizzato per lui.
Com’è che a metà del tour di Rattle That Lock mezza band, tra cui Jon Carin e Phil Manzanera, ha mollato?
Preferirei non parlarne. Non voglio dire cose sbagliate. Lo scriverò nel mio prossimo libro. Per un certo periodo, neanch’io ho fatto parte del gruppo.
Parliamo dei Saucerful of Secrets, allora. Nick ti ha stupito quando ha detto che voleva fare dei concerti?
L’idea è stata di Lee Harris, che è un vecchio amico. Vive in Francia ed è venuto a un concerto di Gilmour a Nîmes. «Perché Nick non fra un tour con il repertorio dei primi anni?». E io: «Bella idea, ma non lo farà mai». E invece l’ha trovato interessante e la cosa si è concretizzata piuttosto velocemente. Abbiamo provato due giorni in una sala orrenda e nel giro di sei settimane abbiamo fatto il primo concerto in un pub. Tempo due mesi ed eravamo in tour.
Ai tempi di Division Bell avevate i jet privati…
E invece eccoci ai DoubleTree by Hilton a fare colazione al self service. Ma Nick non è uno che si lamenta. Ama questo progetto e non ha mai suonato meglio.
Immagino sia un bandleader diverso da David.
E tutto più piccolo e Nick è un capo incredibilmente buono. Nelle giornate libere portiamo fuori a cena i tecnici. L’atmosfera è fantastica. Il mio assistente dice che il bus su cui viaggia è il più divertente di sempre.
Pensi che Dave farà un ultimo tour?
Potrebbe farlo. La domanda è: ce l’avrà un disco? Perché lui non è uno che va in giro senza un album nuovo. So che è stato molto produttivo durante il lockdown. Ha cantato quei pezzi online e scritto le musiche per il libro di Polly.
Come ti vedi fra cinque anni?
Spero di suonare coi Saucers e finire il mio secondo libro. Forse lo dovrei fare scrivere a qualcun altro. Mi devo forzare, scrivere non mi viene naturale. Insomma, voglio fare cose normali.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.