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«Sono l’anticristo della scena neoclassica», intervista a Luca D’Alberto

Il giovane compositore italiano fa parte di una scena che grazie a melodie accessibili e atmosfere elettroniche ha portato la classica in tutto il mondo, dai film Disney agli aperitivi hipster. Il suo secondo album, 'Exile', è una conferma del suo talento: «Sono meno vendibile rispetto a chi fa quattro accordi con l'arpeggiatore».

Il 5 ottobre è uscito il secondo disco in studio di Luca D’Alberto, compositore italiano che ha collaborato tra gli altri con il Pina Bausch Tanztheater di Wuppertal, con Peter Greenway e la moglie Saskia Boddeke e in Italia con Michele Placido. Exile fa seguito a Endless del 2017, usciti entrambi per 7K!, dipartimento dedicato alla musica neoclassica, ambient e sperimentale, della storica etichetta berlinese !7K. Da qualche anno, con epicentro in Germania, si sta sviluppando una scena musicale che viene definita neoclassica, che mischia strumenti e sonorità tipiche della musica classica, con elementi di musica elettronica.

Il cuore pulsante ha sede a Berlino, e ruota attorno all’etichetta “Erased tapes records” e a musicisti come Nils Frahm – che con il suo ultimo disco All melody ha fatto un salto di qualità tale da esibirsi allo scorso Primavera Sound – o Peter Broderick, probabilmente due dei nomi più noti di questa generazione che vanta tantissimi esponenti, alcuni parecchio giovani, molti anche italiani, per esempio Federico Albanese o gli Opus 3000, oltre ovviamente a Luca D’Alberto, che però non si sente parte integrante di questa scena: «ti dico la verità, io lavoravo soprattutto nel mondo del cinema e del teatro e non conoscevo tutta questa scena berlinese quando mi hanno contattato dalla !7K – che sostanzialmente al tempo ha deciso di inaugurare con me il dipartimento 7K! dedicato al genere neoclassico che stava iniziando ad andare di moda – perciò mi ci sono ritrovato dentro e solo in un secondo momento ho iniziato a capire perché in !7K erano così interessati al mio lavoro».

Una delle ragioni del successo di questo genere, oltre alla qualità nella produzione, è la fruibilità: l’ascolto è quasi ipnotico e rilassante, ideale come sottofondo durante il lavoro tanto quanto durante gli aperitivi, ed è per questo che il nucleo principale del pubblico è composto da venti-trentenni occidentali «secondo me alcune ragioni di questo successo sono le playlist Spotify, ma anche le colonne sonore delle serie tv per esempio su Netflix che hanno molti brani presi da questo mondo. È facile ritrovare estratti quando meno te lo aspetti, è un genere versatile, per quanto mi riguarda ci sono miei pezzi nelle pubblicità della Apple o negli spot di Wimbledon. Per esempio ora sto lavorando a un film che sarà distribuito dalla Disney, perché il produttore ha ascoltato per caso una mia canzone in diffusione in un negozio di scarpe, ha voluto sapere il mio nome e mi ha contattato».

Un’altra caratteristica della scena neoclassica sono i riferimenti alla natura, l’estetica è in grandissima parte fatta di paesaggi, oceani, piante, che si sposano alla perfezione con le sonorità in questione «posso dire una cosa però riguardo questa estetica? Che palle! La trovo così roboante. Io non mi sento dentro tutta questa dinamica onestamente, faccio parte di una label che ovviamente per motivi manageriali deve rivolgersi a un pubblico e collocarmi in un genere, ma io non apprezzo molto tutta questa parte “cool” e se vuoi anche un po’ “hipster” di questa scena, anzi non me ne frega un cazzo se sono visto un po’ come un anticristo». Luca D’Alberto viene da studi di conservatorio e suona il violino da quando ha cinque anni e nei suoi dischi gli archi prevalgono rispetto al pianoforte e ai sintetizzatori, una caratteristica che rende unico e riconoscibile il suo lavoro «ma che è anche uno svantaggio, perché sono meno vendibile rispetto a chi prende un synth e fa il piano bar fighetto, perché purtroppo sta diventando questo, da quando è arrivato il successo. Devo dire che uno dei pregi di questo genere è stata la ricerca e la cura della qualità del suono, davvero all’avanguardia, ma che rischia di sputtanarsi e diventare già vecchia se si riduce tutto a fare quattro accordi con l’arpeggiatore».

Luca D’Alberto foto di Jon Bergman

In passato i brani di D’Alberto sono stati remixati da Populous (Her dreams) e di tutto Endless è uscita una versione di remix dove la componente elettronica prevale su quella analogica. In Exile invece c’è un lavoro più complesso sin dalla versione originale «il primo disco era una sorta di nascita minimalista, questo invece è più evoluto» ed è anche il risultato della collaborazione con Patrick Christensen, alias PC Nackt, produttore ex Warren Suicide che solitamente collabora con Apparat «sì ma Patrick ci ha messo pochissimo mano, ho deciso di fare quasi tutto da solo e come dice il titolo del disco, mi sono esiliato nel mio studio. Ho deciso di affidarmi solo a me stesso, con tutti i miei limiti, anche come critica alle dinamiche con cui vengono fatti i dischi oggi, praticamente l’artista è solo il nome in copertina, per il resto fanno tutto gli altri» invece Luca D’Alberto fa anche troppo «non so fare un cazzo nella vita, faccio solo questo, ho imparato prima a suonare il violino che ad andare in bicicletta e vivo di questo, anche se da un lato è devastante perché non stacco mai, se vivi in una casa-studio praticamente sto sempre al lavoro su qualche pezzo e mi dimentico di cucinare o di andare a dormire».

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