«Tenteremo, ancora una volta, la presa della Bastiglia del nostro cuore bambino». Terminava così, quasi come uno dei loro pezzi, il post con cui (poco prima di Natale) Max Collini e Daniele Carretti annunciavano il ritorno sui palchi degli Offlaga Disco Pax a vent’anni esatti dall’uscita del memorabile esordio di Socialismo tascabile. Il pubblico ha risposto presente, tanto che le date del tour (che partirà il 7 marzo dal Cage di Livorno) sono quasi tutte esaurite.
Gli Offlaga Disco Pax del loro primo album erano testi (auto)ironici, immagini politiche, istantanee (“il catechista che votava Pannella”) o ritratti più articolati (il tono metallico standard di un arrogante commesso che crede di essere l’unico a conoscere Mark Lanegan) di personaggi incontrati nella loro Reggio Emilia, il tutto su uno sfondo wave con pennellate shoegaze.
«Quando mi chiedevano che musica facevamo c’erano una risposta razionale e una irrazionale», spiega Max Collini dal suo ufficio di agente immobiliare a Reggio. «Quella irrazionale era: facciamo elettronarrativa elettorale. La risposta razionale invece è che abbiamo sposato sonorità principalmente anglosassoni e legate al suono della new wave e dello shoegaze a testi in italiano fortemente identitari. Detta così è incomprensibile, allora la mettevo in questo modo: una sorta di Gaber elettronico. Tenendo conto che citare Gaber è un po’ presuntuoso, se vogliamo metterla più morbida possiamo dire: una sorta di teatro-canzone elettronico».
Una formula diventata di culto, un album che ha venduto 25 mila copie e che a tutt’oggi continua a vendere. Formula ripetuta con ottimi risultati artistici nel successivo Bachelite (2008) e in Gioco di società (2012), ultimo capitolo discografico di una storia tragicamente interrotta nel 2014 con la prematura scomparsa di Enrico Fontanelli, dopo più di 400 date in ogni angolo d’Italia.
«Celebriamo il disco che ci ha cambiato la vita e, forse, qualcuna delle vostre», hanno scritto gli Offlaga a proposito del tour. «Ognuno di noi due in questi dieci anni di separazione ha elaborato gli eventi come ha potuto, ma non siamo mai riusciti a lasciarci alle spalle definitivamente quelle canzoni, che sono pezzi di noi stessi. Enrico compreso. Enrico soprattutto. Sarà bello ritrovarsi e permettere anche a chi a quel tempo ci ha solo sfiorati (per questioni anagrafiche o per distrazione) di ascoltare dal vivo brani che ha amato allora o scoperto solo dopo che tutto si era compiuto».
Siete stati molto chiari nello spiegare i motivi per cui fate questo tour. Vuoi però raccontarci come è avvenuto che tu e Daniele Carretti avete deciso di farlo? Chi è stato il primo a parlarne? Cosa vi siete detti? Ci sono state perplessità o resistenza riguardo al farlo?
Io e Daniele qui a Reggio abitiamo a un chilometro di distanza l’uno dall’altro. Lui poi ha un negozio di dischi e quindi ho l’occasione di vederlo sempre. Dopo aver deciso di sciogliere la band in seguito alla morte di Enrico, abbiamo sempre avuto rapporti cordialissimi e abbiamo sempre collaborato per tutto quello che riguarda gli Offlaga. A me in questi anni le nostre canzoni sono mancate, e sono sicuro che fossero mancate anche a Daniele. Alla fine ci voleva però qualcuno che andasse dall’altro a dire: be’, dai, troviamo un modo per suonarle. Quindi mi sono semplicemente presentato un giorno in negozio da lui e gli ho detto: l’anno prossimo sono i vent’anni del nostro primo disco. Oggettivamente le nostre vite non sarebbero andate così se non avessimo avuto fondato la band e pubblicato quell’album. Mi sarei aspettatto di trovarlo più restio, invece è stato immediatamente entusiasta e molto contento. La cosa bella è che abbiamo avuto anche una sintonia assoluta nella scelta di Mattia Ferrarini, che suonerà al posto di Enrico e con cui in questi mesi abbiamo lavorato in maniera molto naturale, grazie anche al grande affetto che proviamo verso questi brani. Così è più agevole, poiché risuonarli è complicato, e pensare a Enrico è complicato.
Quali sono le caratteristiche di Mattia Ferrarini che vi hanno portato a scegliere lui e non altri musicisti?
Abbiamo valutato soltanto lui, è stato il primo a cui abbiamo pensato e l’unico in lizza. A posteriori mi viene da dire che è stato così perché è uno di noi e uno come noi: uno che viene da questa città e ha le nostre stesse passioni musicali, i nostri ascolti e il nostro approccio. Ha collaborato con tante band della zona e non ha dietro di sé una carriera musicale, o meglio: ha fatto tante cose ma senza una visibilità mediatica. È come noi quando abbiamo pubblicato Socialismo tascabile: eravamo esattamente quella roba lì, persone che suonavano assieme senza un’ipotesi di carriera, senza degli obiettivi, senza avere costruito un percorso. L’alternativa era prendere un turnista qualificato, ce ne sono tanti che potevano avere l’attitudine per farlo, però sarebbe stata una scelta più fredda. Abbiamo preferito magari una cosa più complicata, ma anche più naturale dal punto di vista umano. Mattia è uno come noi: non è un virtuoso ma è uno che ha frequentato l’ambiente musicale reggiano, conosce tutte le band e lo conoscono tutti. Quando abbiamo registrato il primo album eravamo dei signori nessuno, ma avevamo una grande passione e determinati interessi culturali. Lui è così e umanamente si sta rivelando una scelta vincente: ci troviamo molto bene, ormai proviamo quasi tutte le sere, e questo a prescindere dai virtuosismi e dalle caratteristiche tecniche, di cui non mi frega un cazzo.
Suonare le vostre canzoni è anche un modo per ricordare Enrico Fontanelli. Quali sono stati i suoi contributi più importanti alla storia degli Offlaga Disco Pax?
Enrico era una persona molto introversa, la mia nemesi dal punto di vista caratteriale. Era una persona di poche parole che si esprimeva con la sua arte, che fosse una grafica per la copertina di un disco, un poster o una melodia di tastiera. Faceva un sacco di cose: era un artista vero e proprio, un grafico, un musicista, un produttore, e ha messo tutte queste sue competenze nella band. Alzava sempre l’asticella, non si accontentava, e la cosa secondo me più importante che ha portato dentro gli Offlaga è il fatto che non vedeva mai le cose in modo diretto, ma sempre con una visione laterale diversa dagli altri. Aveva sempre una proposta non prevedibile né didascalica, anche nel modo di tradurre i miei testi. In termini musicali, visivi e grafici non era mai scontato né diretto. I miei testi in qualche modo lo sono, ma lui riusciva sempre a darmi una visione d’insieme e in qualche modo ha avuto una funzione di direttore artistico del gruppo nel corso del tempo: era quello che teneva insieme gli aspetti musicali con gli aspetti del testo e dell’immaginario, traducendo quest’ultimo in un modo non scontato.
E dal punto di vista strettamente musicale?
A volte improvvisava, in sala prove e durante i primi concerti. Certe cose sono poi rimaste nei nostri pezzi, intuizioni estemporanee come il giro di tutta la parte sinfonica, chiamiamola così, di Tatranky: quella parte finale epica di Moog che si sente nel disco è stata tutta improvvisata per la prima volta in un live nel 2003. Enrico non era formato musicalmente, non è che avesse fatto il conservatorio, era un autodidatta e forse questo gli permetteva di essere libero.
Il tour di quest’anno potrebbe preludere a nuovo materiale o è un’ipotesi che già avete escluso?
Ormai da qualche mese stiamo provando per arrivare a fare il concerto migliore possibile nella situazione attuale, quindi la nostra problematica in questo momento non è lavorare su materiale nuovo, ma suonare nel miglior modo possibile le nostre canzoni senza sfigurare. In questo momento il lavoro su nuovo materiale non è neanche ipotizzabile perché siamo troppo impegnati per riuscire a fare questo tour in modo decente. Non ci siamo posti alcun obiettivo sul futuro: adesso andiamo a celebrare il nostro primo disco, fine della storia. Siccome nessuno può prevedere il futuro nel bene e nel male, non posso dire se questo farà nascere un’alchimia tra di noi tale da farci immaginare anche di pensare a dei materiali nuovi. Aggiungo che non avevamo del vecchio materiale pronto, quindi non c’è niente che potremmo ritirare fuori per lavorarci, quindi dovremmo immaginare di fare qualcosa da capo. Insomma, per adesso non è ipotizzabile ma nessuno può prevedere il futuro.
Gli Offlaga nel 2005 (foto: Giulia Mazza) e oggi (foto: Valeria Cornia)
Parlando dei vostri inizi e di Socialismo tascabile, come hai incontrato Daniele ed Enrico e come avete deciso di dare vita a un progetto che non era una tradizionale rock band e non faceva musica rock tradizionale?
Daniele lo conoscevo perché era il commesso del negozio dove andavo a comprare i dischi. Avevo più o meno 34 anni e loro 24. Appartenevamo a due generazioni diverse, però avevamo delle passioni comuni. Dati i miei gusti, Daniele mi suggerì di ascoltare i Kathleen’s, la band di Enrico, e quindi mi sono imbattuto in quella roba un po’ wave, tra l’altro incisa in un’epoca in cui quelle sonorità stavano scomparendo. Enrico quindi l’ho conosciuto come ammiratore di questo gruppo, che peraltro in quel momento non esisteva più. Con loro due, avendo gusti in comune, abbiamo cominciato ad andare agli stessi concerti. Loro poi collaboravano in una band di Daniele che si chiamava Magpie, in cui Enrico ogni tanto suonava: tutte cose locali, piccole, underground.
Un giorno Enrico è venuto nel mio ufficio, esattamente dove mi trovo in questo momento, dicendo che aveva quest’idea di iscriversi al concorso Augusto Daolio, un concorso per band che si fa a Reggio Emilia. Era però previsto l’uso dell’italiano e in quel momento tutte le cose che faceva erano orientate alla lingua inglese. Ma aveva letto il miei racconti che nel frattempo gli avevo mandato, raccontini che stavo scrivendo con nessuna velleità musicale. Li aveva apprezzati, trovati divertenti, e mi chiese se li potevamo usare per mettere insieme un progetto in italiano. Tutto in maniera estemporanea e legata al fatto che bisognava presentarsi a questo concorso con qualcosa di originale in italiano. Credo che nell’animo di Enrico, in quest’idea, ci fosse anche una specie di provocazione culturale: volete l’italiano? E allora ve lo do così. Se non me lo avesse proposto, gli Offlaga non sarebbero esistiti. Ma non sarebbero esistiti nemmeno se io non avessi scritto quei racconti, quindi tutto è stato una conseguenza di altre cose. Certo a me non sarebbe mai venuto in mente: io i concerti li andavo a vedere, mica a fare.
E Daniele Carretti cosa ha portato nella band?
Un contributo preziosissimo, perché è stato sempre un punto di equilibrio tra le diversità di vedute e di carattere tra me ed Enrico. Qualcosa di fondamentale nella sopravvivenza di un gruppo di tre maschi eterosessuali.
Dopo l’uscita del primo album e dopo il primo giro di concerti, siete diventati una band di culto. Non parlo di dischi o di biglietti venduti, ma di un seguito di affezionatissimi, di pagine facebook come “Gli Offlaga Disco Pax descrivono la Serie A”. Siete stati trasportati anche in cose che voi non avevate ovviamente previsto, siete stati oggetto di interpretazioni da parte dei fan. C’è qualcosa di voi che non è stato capito, qualche fraintendimento che hai visto da qualche parte? O magari qualcosa che non è stato colto?
Quando pubblichi dei dischi, questi non sono più tuoi ma di chi li ascolta. Io sono pedante di natura e vorrei sempre spiegare tutto, ma penso sia giusto che chi ascolta una canzone ci trovi quello che vuole lui. A volte mi sono domandato cosa sarebbe successo se fossimo arrivati cinque anni dopo, con i social. Probabilmente saremmo diventati dei meme con citazioni dei nostri testi. Ci sono stati diversi fraintendimenti, forse inevitabili. Quello più grande in assoluto è che siamo sempre stati percepiti come una band militante. Essendoci una forte identità politica, pur con contenuti diversi, siamo spesso stati accostati a band come Assalti Frontali e Modena City Ramblers, il che non è ragionevole per il nostro modo di affrontare i temi sociali e quelli della politica. L’altro fraintendimento riguarda invece più me che la band e a volte mi ha creato anche qualche discussione. Chi ci ascolta sente il nostro progetto come molto proprio, c’è molta identità tra chi ci ascolta e la band. Molti tendono quindi a collocare me nella loro bolla. Per farti un esempio pratico, «io sono uno che vota Sinistra Italiana, allora anche Collini è di Sinistra Italiana;
io voto il PD, allora anche Collini è del PD».
Mi collocano dove ritengono di collocarmi, ma essere tirato per la giacchetta è una cosa che a me non piace tantissimo, anche perché è un atteggiamento un po’ superficiale, autoriferito.
Io vengo dal Partito Comunista di Reggio Emilia, che negli anni ’80 non era esattamente un partito rivoluzionario, ed essere a volte collocato in un gruppo di estrema sinistra rivoluzionaria e barricadera non è la mia storia. Ma sono anche contento perché queste “appropriazioni” mostrano che abbiamo lasciato qualcosa, che c’è un amore profondo. In tour con gli Offlaga, Enrico leggeva il Manifesto, io l’Unità e Daniele Cronaca vera: non eravamo un monolito compatto in cui tutte le opinioni erano assimilabili, uguali. Sicuramente certi valori erano condivisi, ma poi ognuno aveva la sua filosofia, la sua declinazione, la sua sensibilità. Non siamo mai stati un monolito e non ci è mai neanche interessato esserlo.
Qualche settimana fa ti ho sentito dire alla radio che Robespierre è stata un po’ la vostra Smells Like Teen Spirit. Era solo una battuta?
La battuta era legata al fatto che non potevamo fare un concerto senza fare quella canzone perché il pubblico si sarebbe arrabbiato, esattamente come i Nirvana con Smells Like Teen Spirit. Siamo diventati un po’ figli di quella canzone lì, per cui la battuta era legata al fatto che Kurt Cobain si lamentava e si riteneva un po’ schiavo di quel brano. Io personalmente non mi sento schiavo di Robespierre. Non sapevamo che sarebbe diventata un manifesto del gruppo ma, se vogliamo allargare un po’ il ragionamento, è un brano che non ha similitudini nel panorama italiano. A me sembra veramente un unicum, in qualche modo: quell’elenco, quei riferimenti sociali e culturali, quella memoria e quel modo di porla, con quella musica. Secondo me in qualche modo è il brano più identitario che abbiamo scritto ed è stato naturale che lo scegliessimo come singolo, come canzone che presentava il gruppo e il suo primo album. Anche il video ha avuto una grandissima rilevanza per la nostra storia. Dopo l’uscita di Socialismo tascabile avevamo ai concerti 100, 150 persone. Mesi dopo è uscito il video e le persone sono diventate
300, 400. Nel trovarselo su MTV alle 10 di sera, penso che in molti abbiano pensato: ma questi da dove cazzo sono usciti? Da che pianeta arrivano?
Su Robespierre c’è anche un’altra cosa importante da dire. La scorsa estate io e Jukka Reverberi abbiamo aperto, come Spartiti, il concerto dei CCCP al Porto Antico di Genova. C’erano circa 4000 persone. A un certo punto mi rendo conto che quel pubblico è completamente in silenzio. Quattromila persone che erano lì per qualcun altro e ci stavano ascoltando in silenzio, tutti. Ad ascoltare questi due coglioni che sono arrivati lì, peraltro molti neanche lo sapevano prima. Io avevo immaginato che un pezzo di quel pubblico dei CCCP potesse avere anche un interesse per gli Offlaga e avevo chiesto a Jukka nei giorni precedenti di preparare una versione un po’ soft e un po’ accrocchiata di Robespierre, perché immaginavo che quel pubblico la conoscesse. Alla fine del concerto ho detto che, come regalo per la bella occasione che avevamo avuto di aprire il concerto dei CCCP, avremmo fatto Robespierre. Dalla platea è arrivato un boato vero, di gioia, di condivisione, con la gente impazzita. Era luglio del 2024 e lì forse mi sono reso conto che la reunion degli Offlaga era una cosa che era giusto fare per il ventennale. Ci stavo già pensando, anche se ancora non ne avevo parlato con Daniele, ma quello che è successo con il pubblico dei CCCP mi ha fatto credere che forse la reunion era da fare davvero.
Gli Offlaga nella primavera del 2005 (foto: Giulia Mazza) e oggi (foto: Valeria Cornia)
Daniele Carretti ed Enrico Fontanelli erano già musicisti con delle esperienze, mentre il tuo esordio è avvenuto solo con Socialismo tascabile.
Prendevo lezioni di pianoforte da bambino, con scarsissimi risultati, infatti ho smesso.
Sono salito sul palco per la prima volta il 22 aprile del 2003, con gli Offlaga.
Terrorizzato, in una situazione di disagio terrificante, ed era solo l’eliminatoria di un piccolo concorso musicale di cui non fregava niente a nessuno. Avevo già 36 anni compiuti, un’età a cui si smette, non l’età a cui si comincia. Perfino degli esordienti tardivi come Paolo Benvegnù o come Lindo Ferretti erano più giovani di me quando ho iniziato. Adesso il palco mi fa meno paura. Se Daniele ed Enrico non mi avessero coinvolto, non avrei fatto niente dal punto di vista musicale: è stata una sliding door.
I vostri testi contengono una certa dose di humor. Nella musica italiana in senso ampio, lo humor è abbastanza raro. Mi sono sempre domandato se per voi questo humor era in qualche modo un elemento programmatico o semplicemente qualcosa che rifletteva il tuo modo di essere.
Ho sempre pensato che gli Offlaga fossero una cosa molto seria che non si prendeva molto sul serio, pur facendo le cose con molta dedizione, con molto rigore. L’aspetto ironico e autironico dei testi è una mia cifra stilistica, non c’è in tutti i nostri brani ovviamente, ma ho sempre cercato di tenere insieme, anche nelle cose più drammatiche che ho scritto, almeno un tratto sdrammatizzante. Lo si trova persino in Sensibile.
Più dei due dischi che sono seguiti, Socialismo tascabile è un disco sulla sconfitta di un’epoca, di un’ideologia, di un sistema, la presa d’atto che quel mondo lì era finito, che il Muro era caduto e che io sarei (e poi sono) diventato un uomo adulto in un mondo in cui non avevo più i miei riferimenti. Sono nato e cresciuto in un dato ambiente culturale e sociale, poi arrivo ai 20 anni e quel mondo lì implode. Il disco esce molti anni dopo ma nasce principalmente da quella riflessione, se vogliamo dargli un significato nel tempo e nel suo insieme. Lascia stare che magari quel significato non era immediatamente intelligibile a me nel momento in cui scrivevo quei racconti, ma dopo fai un’analisi a posteriori, e ti ricordo che il senno di poi è una scienza esatta. Non sarei io se nella mia scrittura non ci fosse anche quel tratto un po’ autoironico.
Quando si fanno degli esempi per tirare fuori dei punti di riferimento degli Offlaga Disco Pax si citano correttamente i CCCP, anche loro figli di questa città, o i Massimo Volume per la scelta esclusivamente declamatoria. Sono riferimenti corretti dal punto di vista dello stile ma poi ognuno ha la sua storia. E la storia musicale e dei testi degli Offlaga non è paragonabile a quella dei Massimo Volume, che sono un esempio altissimo e straordinario, ma l’autoironia non è la caratteristica principale di Emidio Clementi. Il debito con i CCCP l’abbiamo pagato con Cinnamon, che contiene una citazione di Allarme, che peraltro è l’unica cover che gli Offlaga abbiano mai presentato dal vivo.
Come hai appena detto, CCCP e Massimo Volume erano i riferimenti più utilizzati per descrivere la vostra musica. C’erano altre band che invece non abbiamo “sentito”?
A Enrico piacevano molto i Larsen, e credo che qualcosina di quell’approccio lì sia finito anche nella sua musica, o comunque nelle idee che ha messo negli Offlaga. Le chitarre di Daniele hanno come riferimento gli Slowdive e tutto lo shoegaze. Una cosa che però mi ha lasciato completamente esterrefatto è che un giorno Enrico disse che quando lavoravamo a Socialismo tascabile cercava di immaginare nella sua testa come avrebbe potuto essere il terzo disco dei Joy Division. Secondo me è una cosa bellissima e mi commuovo a dirlo. Io sono uno che ha ascoltato sempre più cose italiane che cose internazionali, e certo tra i miei ascolti di gioventù, che in qualche modo mi hanno formato, ci sono i Litfiba degli anni ’80, quelli della trilogia, ci sono i CCCP, che ho ascoltato in un modo assolutamente devoto per molti anni, e i Diaframma, che sono stati un mio culto assoluto. Però nella scrittura credo che mi abbiano influenzato di più gli scrittori: Paolo Nori, Gianluca Morozzi e Giuseppe Calicetti, un autore meno conosciuto, maestro elementare di Reggio Emilia che ha pubblicato due romanzi secondo me molto interessanti: Fonderia Italghisa e Battito animale, ambientati a Reggio Emilia. Dopo queste letture una certa forma di istinto mi ha fatto pensare che anch’io avrei potuto scrivere cose legate al mio territorio con quell’approccio ironico.
Come dicevi, Socialismo tascabile conteneva anche un immaginario politico. Oggi che sono passati vent’anni, come vedi la situazione politica italiana, in particolare la sinistra del nostro Paese?
Io la vedevo già un po’ grigia nel 2005, figurati oggi. Il rotolamento a destra di questo Paese è surreale e grottesco. Nel senso che oggi reputiamo di estrema sinistra cose che trent’anni fa sarebbero state considerate normalissime, cose di moderata sinistra. Lo spostamento a destra costante nel tempo di questo Paese ci sta portando su posizioni che mi fanno dire, a me che non volevo morire democristiano: «Ma magari potessi morire democristiano!». Sto rivalutando cose che nella mia gioventù avrei giurato che avrei combattuto fino alla morte.
Ma non perché si nasce incendiari e si muore pompieri: perché veramente c’è un problema di percezione di che cos’è la democrazia, che è una cosa molto preoccupante. I nazionalismi, le piccole patrie, io contro il mondo, io sono meglio degli altri. Tutta questa ideologia, chiamiamola sovranista, portata all’estremo, conduce a un solo risultato: si chiama guerra.
In Socialismo tascabile c’erano delle immagini legate anche al socialismo internazionale. Come vedi la situazione, anche pensando a quella che un tempo era l’Unione Sovietica?
L’Unione Sovietica non esiste più dal 1991. Per immaginare che la Russia di oggi abbia a che fare con l’Unione Sovietica serve un grande sforzo. Se proprio vogliamo tagliarla con l’accetta e non fare troppi distinguo, quello che stanno facendo Trump e Putin mi sembra il patto Molotov-Ribbentrop: si stanno spartendo l’Ucraina come si spartirono la Polonia per poi prendere tempo e vedere cosa succederà. Io che sono europeista e vedo l’Europa disgregata in questo modo e con la guerra al confine sono molto molto molto preoccupato. Il problema è che ho veramente paura del futuro perché non ho gli strumenti per interpretare un presente di questo tipo, per capire quello che sta succedendo.
Cosa diranno secondo te oggi le canzoni Socialismo tascabile a chi verrà ai concerti?
Mi ha sempre stupito che ragazzi di 20, 25 anni comprino i biglietti dei nostri concerti perché, nella mia testa, ad apprezzare quel tipo di ironia, quel tipo di sonorità, è un pubblico adulto. Io oggi ho 57 anni, Socialismo tascabile è uscito che ne avevo quasi 38. Ho scoperto una cosa bellissima: alle manifestazioni studentesche degli ultimi anni il camioncino con la musica e gli altoparlanti manda quasi sempre anche Robespierre. È una cosa che io non avrei mai potuto immaginare: c’è talmente tanto vuoto che anche una cosa vecchia, che fa riferimento a cose che nel mondo non esistono più, risponde a un bisogno di identità. Se questa identità non te la dà il presente, la vai a cercare dove c’è, non riesco a darmi un’altra spiegazione. Io comunque avevo il PCI, era la mia ancora di salvezza, era la mia idea di futuro, sbagliata probabilmente, visto com’è andata, ma era anche un punto di riferimento sociale, istituzionale, costituzionale.
Per un ragazzo di oggi è difficile avere dei riferimenti sociali. Capisco che poi l’estrema destra faccia breccia, perché l’identità te la dà. Terrificante, da contrastare, totalmente priva di senso, violenta, ma te la dà. Violenta nel linguaggio, se non nei comportamenti, con il culto delle armi, della morte, una roba terribile. Però dà un’identità. Invece un ragazzo che oggi voglia essere di sinistra fa più fatica a trovare un’identità, e a quel punto diventa importante un gruppo come gli Offlaga. Non credo che sia un segnale positivo: penso che sia un segnale che la dice lunga su quanti pochi riferimenti possa avere un ragazzo di 25 anni rispetto alla società che lo circonda.