Sophie Ellis-Bextor è, prima di tutto, grata. Grata di quel mix di buona stella e fiuto da vendere che ha lanciato la sua carriera nel pop più dance e «da bel tempo» dopo la breve avventura con i Theaudience, senza però soccombere mai all’esigenza della prossima hit, di darsi in pasto al pubblico giusto quel poco di più. Grata di poter dire che «il suo lavoro diurno è cantare», distruggendo dall’interno la retorica della diva pop e, nei fatti, essendolo. Grata di poter fare, dopo più di vent’anni di carriera in uno degli ambienti per eccellenza in cui, se sei donna, appena iniziano a cederti le gambe calano anche le posizioni in classifica, ciò che le piace di più: parlare alle persone attraverso brani che, volenti o nolenti, vi faranno ballare le ginocchia dal ritmo.
E, crediamo, non si è mai sentita più libera di ora. Perché ad accettarsi ci potrà volere un po’, ma quando il momento arriva, sei una forza della natura. Dopo cinque figli, una carriera portata avanti anche in pandemia con la serie di mini-video Kitchen Disco, e forte del nuovo (giura, inaspettato) successo della sua hit tra le hit, Murder on the Dancefloor, grazie a Saltburn di Emerald Fennell (perfetta colonna sonora per le grazie di Barry Keoghan nella scena finale del film), Ellis-Bextor ci ha ricordato che, nel pantheon delle regine del dancefloor, un posto spetta anche a lei.
L’abbiamo incontrata per una chiacchierata alla vigilia dell’unica data italiana del suo tour europeo, ai Magazzini Generali di Milano il 19 marzo. Non siamo riusciti a strapparle il segreto del suo stile inimitabile, ma un trucchetto o due su com’è che si rimane sé stessi in mezzo al turbine dell’industria musicale, riuscendo anche a divertirsi, quello sì.
Cominciamo dal passato, però quello recente. Ti saresti aspettata un 2023, e un inizio 2024, così?
Assolutamente no. Dal punto di vista musicale, e della mia carriera, l’anno scorso è stato straordinario. Ho pubblicato il mio settimo album, Hana, ho suonato sul Pyramid Stage di Glastonbury per la prima volta e poi in altri festival belli, bellissimi. Ho fatto un tour nel Regno Unito ed è andato sold out, dopo vent’anni sono tornata a girare anche sul continente. Straordinario, ma ero anche molto felice di sapere che all’inizio di quest’anno avrei avuto un po’ di tempo, diciamo gennaio e febbraio, per scrivere e tornare in studio per lavorare su qualcosa di nuovo. Solo che poi, naturalmente, è arrivato Saltburn… e molte altre cose si sono aggiunte. Può essere intenso, a volte, ma sono felice. Vivo in una magia, come potrei lamentarmi?
Avevi il famoso presentimento che le cose sarebbero andate così bene per Saltburn e Murder on the Dancefloor?
No, per nulla, queste cose non si possono prevedere, girano nell’aria. Penso che tutto si sia incastrato alla perfezione, è stato strepitoso. Ho adorato il film, era intelligente, un po’ dark, incontrava davvero il mio gusto. Non avevo idea che potesse avere una risonanza tanto grande, visto anche la nicchia da cui proveniva. A ogni modo, cantare Murder on the Dancefloor mi piace davvero tanto, e in Saltburn è stata usata alla perfezione. Sono contenta di poter avere una seconda avventura, diciamo, con questa canzone. È come ritrovarsi con un vecchio amico dopo tanto tempo.
Che cosa è successo a quel vecchio amico dopo tanto tempo? È diventato qualcun altro?
Non saprei, credo di no. Sono solita esibirmi con brani vecchi, e brani nuovi, con vent’anni di vita alle spalle, ma sono sempre io. Per esempio, Murder on the Dancefloor e Groovejet (brano che lanciò la carriera internazionale di Ellis-Bextor, firmato dall’italiano DJ Spiller, nda) fanno parte di un periodo della mia carriera con sonorità molto specifiche, che hanno contribuito a farmi diventare l’artista pop che sono ora e che hanno dato forma al mio percorso. Sono state molto importanti per dare una direzione artistica alla mia carriera. Quindi sono sempre felice di tornare da loro, di raccontare quel pezzo di storia, come lo sono quando invece un brano acquista nuova energia. Per esempio, poter vedere il grande movimento che Murder on the Dancefloor ha creato online, tra chi la balla e chi la canta… c’è una connessione ancora molto forte, e mi riempie di gioia.
Parliamo di questo percorso artistico. A che punto pensi di essere?
Non ne ho idea! Però amo quello che faccio come se fosse il primo giorno, penso sia una cosa preziosa. E non do mai per scontato che le persone possono trovare una connessione con la mia musica, quindi accetto con gratitudine tutto il bene che arriva.
Nell’era digitale, anche il pubblico può farne parte in una maniera inedita.
È una cosa che adoro, del punto di vista artistico è un’opportunità pazzesca. Prima dovevi aspettare di andare live per vedere come la gente avrebbe reagito alla tua musica, oggi lo puoi sapere in tempo reale e in ogni parte del mondo. La musica è arte, e come ogni arte la si produce per comunicare qualcosa, per dare il “la” a una conversazione. E l’ambiente digitale rende tutto più significativo e fertile.
Gregg Alexander degli ex New Radicals ha detto che Murder on the Dancefloor avrebbe potuto essere il singolo di debutto della band. Hai ascoltato la demo?
Ho letto le dichiarazioni di Gregg, è vero, anche se bisogna sempre tenere in considerazione che scrivere musica è il suo lavoro, e che questo lavoro richiede tempo, e che tra il momento della prima composizione e quando la canzone ha assunto la sua forma finale – quando cioè ci abbiamo lavorato insieme – c’è stato un lasso di tempo considerevole. Questo per dire che il brano era stato pensato senza un fine programmato, l’ha trovato solo in seguito. Comunque, per me, che lui dicesse così è stato motivo d’orgoglio. Io ci tengo molto, lui ci tiene molto, abbiamo scritto tanto insieme – ci conosciamo da circa 22 anni – e credo che anche lui abbia un legame speciale con la canzone. Siamo due genitori orgogliosi, e Murder on the Dancefloor è il figlioletto che si è fatto strada nel mondo.
New Radicals: qual è la tua canzone preferita?
You Get What You Give è immortale, sa parlare ancora oggi. Uscendo dalla domanda, c’è un fatto curioso, ovvero che anche Unwritten, che Danielle Brisebois (ex New Radicals, nda) scrisse con Natasha Bedingfield, sta avendo una certa rinascita (anche lì grazie a un film, Tutti tranne te, nda). C’è della serendipità in tutto questo, è meraviglioso.
E c’è anche, forse, il bisogno da parte del pubblico di legarsi ad anni in cui la musica era più leggera come i primi 2000?
Ci ho pensato, può essere. Alla fine però arrivo sempre alla conclusione che è meglio non iper-analizzare ciò che avviene. Diciamo che, da un lato, tutte le cose hanno un percorso circolare, prima o poi ritornano. Dall’altro, è vero che, quando i tempi storici sono più duri, il pubblico è attratto da musica che possa servire come catarsi, fornire una via di fuga. È un’equazione in cui entrano in gioco altri fattori, ma non sono sicura di quali siano, e credo che gli artisti, o i produttori, che si affannano per raggiungere la formula perfetta rischino sempre di restare insoddisfatti. Per me, bisogna innanzitutto fare ciò che ci rende felici, e seguire l’istinto, anche se questo dovesse portare a vivere una vita piccola ma serena. Allora sarà la strada giusta.
Spesso la tua musica è descritta come “pop ottimista”. Ti ci ritrovi?
Forse non userei queste precise parole, ma in fondo credo di sì. La musica che mi interessa è euforica, ma sempre con un notevole fondo di malinconia, un substrato dolceamaro. Per me è sempre stata una tonico, una medicina ricostituente. Mi aiuta ad analizzare i sentimenti e le cose che succedono, a tirarmi fuori dai momenti di tristezza.
Dolceamara sì, ma il tuo esempio, durante i tuoi anni di carriera nel pop, è stato brillante. Soprattutto per le nuove generazioni, soprattutto per le giovani donne che vogliono approcciare un ecosistema a volte spaesante, a volte brutale, e sentono la pressione a conformarsi.
Devo tanto alla fortuna. Tu cominci un percorso, ma all’inizio dovrai sempre imparare qualche lezione sulla tua pelle. Con la mia prima band, per esempio (i Theaudience, nda), ci sono stati sia i momenti in cui si poteva fare di testa propria, sia quelli in cui si era, alla fine, guidati un po’ a forza dagli altri. Quando avevo solo 19 anni, un contratto discografico in cui avevamo creduto molto non andò in porto. Un colpo duro dopo un primo successo, ma sono questi momenti che ti affinano l’istinto. Mi sono detta: ok, se voglio che tutto questo funzioni, dovrà farlo secondo i miei termini. Aver avuto questo tipo di educazione ti leva dalla testa qualsiasi illusione. Quindi si prova, si riesce, si sbaglia, e ci vuole sempre un po’ per sentirsi a proprio agio nei propri panni. Una cosa che mi sento di dire ai giovani artisti, e specialmente alle giovani artiste, è questa: non credete a chi vi dice che il pop è solo roba da giovani. Me l’hanno detto soprattutto i professionisti dell’industria musicale che erano più grandi, maschi ed eterosessuali. Non ascoltateli.
Tu sei artista, madre, hai anche un podcast (Spinning Plates, dove parli con altre donne, e madri, in carriera a proposito della difficoltà di far quadrare tutto). Never too much?
La regola numero uno è fare quello che si vuole, le cose che riteniamo essere importanti. E sapersi concedere il lusso di dare priorità a ciò che ci sta più a cuore. Poter essere così appassionati delle cose che si fanno per sbarcare il lunario è un privilegio, perciò se voglio fare qualcosa, cerco in tutti i modi di far sì che le cose funzionino. Non prendo mai nulla di tutto questo per scontato.
Che cosa arriverà nel futuro più vicino?
Cose belle. Ho già cominciato a lavorare a un nuovo album, alla fine di questo tour voglio stare a casa per un bel po’, godermi la famiglia e la tranquillità, tornare a scrivere, tornare in studio. Sarà una novità anche per me, perché negli ultimi dieci anni ho sempre lavorato con Ed Harcourt, ci eravamo detti: tre album insieme. E Hana è stato l’ultimo di questa serie. Quindi, quando ho dovuto decidere da dove ripartire, ho avuto subito la risposta: volevo lavorare con le persone con cui avevo già lavorato, con cui mi ero trovata bene. Sarà un ritorno agli inizi, se vogliamo. Non vedo l’ora.