Esistono due Eddie Vedder. Uno è timido, riservato, a malapena udibile quando parla. Amabile e gentile. L’altro è un uomo lacerato, tormentato dalle ingiustizie. In una giornata tiepida e ventosa di primavera, a San Rafael, California, è facile intuire quale dei due Eddie stia giocando a basket fuori dal Site, lo studio di registrazione dove i Pearl Jam stanno finendo il loro ultimo album. È l’Eddie torturato, quello con un profondo solco tra le sopracciglia. «Tocca a te», grida Jeff Ament, bassista del gruppo. Lancia la palla a Vedder, che fa un tiro in sospensione. La palla sbatacchia nel canestro e rotola via. Quando Ament la va a recuperare, Vedder è già tornato dentro. Ha la testa su un nuovo pezzo: Rearviewmirror. È l’ultimo giorno di registrazione al Site Studio, e il destino del pezzo è ancora incerto.
È una canzone sul suicidio… ma è troppo “canticchiabile”. A febbraio, la scelta dello studio sembrava perfetta. Il complesso idilliaco sulle colline fuori San Francisco offriva privacy e concentrazione. È un posto fantastico, dove la gente ammira l’orizzonte lussureggiante e fa commenti del tipo: “La parte sulla sinistra è tutta di George Lucas”. È qui che ha registrato anche Keith Richards, c’è il suo biglietto di ringraziamento incorniciato nel soggiorno. Ed è qui che i Pearl Jam hanno affrontato la sfida di dare un seguito a Ten, uno dei più fortunati album di esordio nella storia del rock. Però c’è un problema. «Odio questo posto», dice Vedder, in piedi nella sala dove sta per cantare. Piazza i fogli con il testo su un leggio tra due chitarre turchesi. «Come fai a fare un album qui dentro? Forse ai vecchi rocker può piacere. Forse loro hanno bisogno di comfort e relax. Forse va bene per la musica da accompagnamento».
Vedder scuote la testa con frustrazione. Si tira la maglietta, quasi a disagio. Segue una lunga pausa. Alla fine arriva la voce del produttore Brendan O’Brien attraverso l’interfono: «Sei pronto?». «Certo», risponde Vedder, girandosi di spalle per cantare. Si mette le cuffie, e per un lungo istante l’unico rumore è il battito del suo piede. “Took a drive today”, canta. “Time to emancipate / I guess it was the beating / Made me wise…”. Si tocca la testa con la mano tremante. “But I am not to give thanks… or apologize”. Sposta il peso da una gamba all’altra. Fa una specie di ringhio e sputa a terra. “Divided by fear…”. Adesso più ad alta voce. “Forced to endure / What I could not forgive…”. Sta urlando, gli occhi serrati. “Saw things…” La stanza si riempie della sua rabbia. “Clearer… once you were my…”. A poca distanza da lì, un rullante appoggiato al muro comincia a tremare. “Rearview… mirrorrrrrr”.
In un’altra parte dell’edificio, Ament sta organizzando un incontro di gruppo per la copertina del nuovo album. Per mesi, la regola non scritta è stata: non ne parliamo. Pensiamo all’album. Dimentichiamoci di tutta la pressione là fuori. Ma ora è arrivato il momento di prendere delle decisioni e pian piano la band si riunisce intorno al tavolo della cucina. «Ho pensato a delle finestre», dice Ament, cercando di controllare il nervosismo, mentre fa girare le sue idee creative tra gli altri membri. Sul tavolo c’è una raccolta di tutte le sue foto e i suoi schizzi.
«Fico», dice Vedder, di ritorno dallo studio e ancora provato emotivamente dalla sessione vocale. Stone Gossard e Mike McCready, i chitarristi della band, studiano le idee con crescente entusiasmo. Rincuorato, Ament va avanti. Vorrebbe giocare col concetto di “contraddizione”. Di immagini in conflitto. I cinque membri della band sviscerano l’argomento fin quando sembra funzionare. Contraddizione. Segue un attimo di calma, è un’idea vincente. «Quindi ragioniamo su Daughter come primo singolo?», la butta lì il batterista Dave Abbruzzese. All’improvviso c’è un’atmosfera pesante. Gli altri quattro membri della band si scagliano all’unisono contro Dave. Quale singolo? Una riunione per volta! Che c’entra adesso, il “singolo”?
Vs. è lo statement della band, una personale dichiarazione sull’importanza della musica rispetto all’idolatria. Ma il fardello della popolarità pesa enormemente su Vedder, che passa buona parte del tempo libero a domandarsi quali siano gli effetti di far parte di una band così venerata. Una sera, mentre era seduto su uno scoglio a meditare sull’esistenza, dopo la morte di una sua amica, la chitarrista Stefanie Sargent dei 7 Year Bitch, aveva sentito delle voci arrivare dall’altra parte della collina. Stavano cantando Black, il pezzo che per Vedder simbolizza l’iper-commercializzazione della band, quello che lui ha impedito fosse suonato allo sfinimento e trasformato in un video. Così quella sera era sbucato fuori dai cespugli per chiedere agli sbalorditi passanti di non cantarlo. A mesi di distanza, ricorda ancora i loro sguardi straniti e allarmati. «Non è stato facile», dice adesso Vedder con una risata. Ma, come sottolinea Ament, il conflitto è tutto. «Il tira-e-molla è ciò che fa stare in piedi la nostra band».
«Facciamo Black», propone Gossard.
Siamo nel periodo delle prove a Seattle, giugno 1993. Quell’estate i Pearl Jam faranno un breve tour in Europa, aprendo i concerti di Neil Young e degli U2 e la band ha affittato il Moore Theatre per esercitarsi. Mezzo serio, Gossard chiede che vengano oscurate le luci nel teatro vuoto. Comincia a strimpellare gli accordi iniziali di questa canzone dolentissima, dedicata a un vecchio amore. Poi, mani in tasca, Vedder ci canta su le parole. Si dà con tutto se stesso, in modo quasi straziante, rivolto alla distesa di sedie vuote. Quando ha finito, resta un brusio nella stanza. La band è chiaramente elettrizzata.
Poi provano un nuovo riff di Gossard. Abbruzzese fa vari tentativi finché trova un’intesa con Ament. Subentra McCready, Vedder ci canta delle parole all’impronta (“When it comes to modern time / You are standing in line”). La sua onnipresente valigia di tweed giallo, piena di testi, appunti, maschere, è aperta sul palco, con tutto il materiale sparso. Eddie sceglie frasi e pensieri, mentre la band gli va dietro. Nel giro di poco arrivano alla prima versione di due nuovi pezzi.
Poi Vedder va a farsi una birra nel bar vicino, il Nitelite, per rilassarsi dopo le prove. Medita sull’ipotesi di suonare Black per la prima volta dopo mesi. «Ci sono certi pezzi che nascono dall’emozione. Non hanno niente a che fare con la melodia, il tempo, nemmeno con le parole. È tutta una questione di emozione. Non puoi darti al 50 per cento. Parlo di Alive, Jeremy e Black. Sono pezzi che mi distruggono».
«La mia relazione con la band», dice Vedder, «è cominciata con una tresca telefonica con Jeff».
Ament è seduto di fianco a lui. I due non si son fatti vedere in giro insieme dal Lollapalooza tour del 1992. Condividono il cameratismo automatico degli appassionati di musica. «La mia relazione con la band», dice Vedder, «è cominciata con una tresca telefonica con Jeff».
I due musicisti rievocano gli esordi dei Pearl Jam, i tumultuosi giorni di appena due anni e mezzo prima. È nato tutto da una cassetta chiamata Stone gossard demos ’91. Le riviste specialistiche l’hanno scoperto soltanto di recente, ma la maggior parte delle canzoni dei Pearl Jam partono da un riff di Gossard. Tra le sue prime creazioni, una delle preferite si chiamava Dollar Short, una traccia incompiuta risalente a quando lui e Ament facevano parte dei Mother Love Bone. I Love Bone erano una promettente band hard-rock di Seattle, nata dopo la rottura col precedente gruppo, i Green River. Quando nel 1990 è morto per overdose di eroina Andrew Wood, cantante e compositore dei Love Bone, Ament – originario del Montana e figlio di un barbiere – si è messo a suonare con una band chiamata War Babies ed è tornato al suo vecchio amore: la grafica. Gossard – nato a Seattle, figlio di un avvocato – si è invece progressivamente allontanato dalle atmosfere allucinate dei Love Bone per avvicinarsi a un groove più spigoloso. Nel nuovo trend rientrava Dollar Short.
Alla fine, Gossard ha tirato dentro McCready, un chitarrista esplosivo e talmente afflitto per lo scioglimento della sua band di Seattle (gli Shadow) che stava per diventare repubblicano, in senso letterale. Si era tagliato i capelli, lavorava in una videoteca e leggeva l’arci-reazionario Barry Goldwater. «Stavo diventando un devoto conservatore», dice McCready, «perché mi sentivo depressissimo». Gossard lo considerava l’arma segreta della nuova band che aveva in mente. «Qualunque cosa suonassi», dice Gossard, «arrivava Cready e la trasformava in una bomba». Oggi, a sentire i demo originali del ’91 di Gossard, non siamo molto lontani da Ten senza la voce: potenti, ma incompleti. Il pezzo mancante si trovava a San Diego. Originario di Evanston, Illinois, Vedder aveva portato lo stacanovismo del Midwest all’interno della solare comunità californiana. Lavorava duro in una compagnia petrolifera per finanziare la sua acerba carriera musicale. Aveva conosciuto Jack Irons, che aveva suonato nei Red Hot Chili Peppers, e Irons gli aveva passato i demo di Gossard.
Nei demo c’erano cinque pezzi strumentali, ricorda Vedder, ma una canzone in particolare, con quel bridge strepitoso, gli aveva smosso dentro un qualcosa a lungo tenuto a freno. L’agnizione arrivò tutta insieme, in una mattinata di surf, la mattina in cui Dollar Short si trasformò in Alive.
Vedder si precipitò di corsa nell’appartamento di Mission Beach, quello della sua fidanzata storica, Beth Liebling. Aiutandosi con dei post-it gialli, si mise a registrare la voce su tre delle tracce. Prese insieme, le tre canzoni raccontavano una storia, come ricorda oggi Vedder, «basata su delle cose realmente accadute e su altre che avevo immaginato». La cassetta con la “mini-opera” fu disegnata con cura dallo stesso Vedder, fotocopiata al lavoro e battezzata Mamasan.
Nel suo appartamento di Seattle, Ament ascoltò la cassetta tre volte e poi corse al telefono. «Stone, mi sa che devi venire qui».
Quando Vedder arrivò a Seattle, aveva già scritto Black. Nel giro di una settimana era nata la band. La creatività di Eddie era incontenibile. Gran parte delle sue canzoni, da Why Go a Oceans, erano storie vere di persone che conosceva. Alcune contenevano indizi, o messaggi in codice destinati a se stesso e agli amici. I testi stampati su Ten sono parziali, ma è difficile valutare l’estrema sofferenza di versi come “Papà non si è accorto / che mamma se ne fregava”.
Gli amici dei suoi primi tempi, lì a Nord, ricordano un Vedder diverso da quello di oggi, un surfista timido, un ragazzo con un cuore enorme e poca ironia. Uno di loro lo chiamava persino Santo Eddie. «Era davvero mansueto e gentile, appena l’abbiamo conosciuto», dice Ament. Nei primi concerti della band, Vedder era così introverso, che a malapena alzava lo sguardo. «E a un certo punto è cambiato».
Un primo momento di svolta è stato sul palco in un locale chiamato “Harpo’s”, a Victoria, nella Columbia Britannica. Era il tour inaugurale dei Pearl Jam, la loro prima apparizione al di fuori della cerchia di amici a Seattle. Ma il pubblico canadese sembrava più interessato a sbronzarsi. Nel mezzo del concerto, Eddie decise di sfidare l’insensibilità degli spettatori e dargli una sferzata. Svitò la base di acciaio del microfono, da 5 chili e mezzo, scagliandola sopra le loro teste, come un frisbee mortale. Il disco d’acciaio andò a schiantarsi contro il muro alla fine del bar. Il pubblico effettivamente si riprese.
Vedder non sarebbe mai più stato lo stesso. Gossard addita l’influenza di Chris Cornell dei Soundgarden, che gli ha chiesto di cantare nel suo tributo a Andrew Wood, Temple of the Dog. «Cornell aveva subìto una trasformazione profonda», dice Ament. «Eddie lo considerava una sorta di guida per tutti noi, durante quel periodo».
Vedder sviluppò presto un nuovo atteggiamento sul palco. Prese ad arrampicarsi sulle impalcature o sulle quinte del teatro dove suonavano per poi lanciarsi sulle braccia di una folla spesso adorante. «Penso che la volta che mi sono veramente preoccupato è stata in Texas», ricorda McCready. «Eddie è salito su questa trave sospesa a 15 metri, nessuno sapeva dove fosse. E, tutto a un tratto, abbiamo sollevato lo sguardo – qualcuno lo aveva illuminato con una torcia – ed eccolo lì. “Cazzo, si sta arrampicando su quella trave. È completamente fuori di testa, ma che figata…”».
«Alla fine sembrava un numero da circo», aggiunge Ament. «La gente non lo guardava negli occhi quando faceva queste cose. Stavano lì a osservare il tipo strambo, quello così folle da mettere in pericolo la propria vita, una specie di Evel Knievel. Ma se lo guardavi negli occhi, cazzo, c’era un’intensità assurda in ciò che faceva. Il suo credere in se stesso. Come a dire: “Per me non si tratta solo di rock”».
La band ritornò dal tour europeo e incise un Unplugged commovente. C’era un momento particolarmente emozionante e indimenticabile alla fine di Black. “We belong… together… together”, cantava Vedder. Una cosa semplicissima, un uomo seduto su uno sgabello col cuore lacerato e sopraffatto dall’emozione. Dopo l’Unplugged, le lettere al Ten Club della band quasi raddoppiarono; molte parlavano di Black e cominciavano in modo inquietante alla stessa maniera: “Di recente stavo meditando sul suicidio, e quando ho sentito la vostra musica…”. Vedder ha risposto personalmente a molte delle lettere, a volte lasciando lo studio della band a pezzi. Ma bisognava rimettersi in marcia. Quasi subito il gruppo tornò in Europa a suonare nei maggiori festival estivi di fronte a un pubblico che andava dalle 30mila alle 50mila persone. Era la prova del fuoco.
«Il culmine è stata la Danimarca», ricorda Ament. «Giocava contro l’Italia ai Mondiali, credo, quindi il Paese era in delirio. Suonavano anche i Nirvana, che stavano affrontando i problemi con il loro successo. Noi abbiamo suonato di fronte a 70mila spettatori. Eddie è andato verso la folla, come faceva sempre. Quando stava per tornare indietro, la security non sapeva chi fosse. Hanno cominciato a picchiarlo. Era nel mezzo di Deep. Mi ricordo che ci siamo fermati, io ero pronto a saltare giù visto che si stava scatenando questa rissa totale… Eddie e Eric (il tour manager, nda) erano in mezzo al vortice, e giù c’erano pure Mike e Dave».
Seduti al Nitelite, Ament e Vedder ricordano la fine brutale di quel tour del 1991. La band aveva visto il suo disco di esordio Ten vendere milioni di copie. Soltanto Billy Ray Cyrus era riuscito a tenerli lontani dalla posizione numero uno, relegando al futuro almeno un obiettivo. I Pearl Jam erano portati a una crescita lenta, e invece si erano ritrovati avvinghiati a un missile. La band cominciò a organizzare un mucchio di riunioni: «Dove tracciamo la linea confine?».
La linea fu tracciata su Black. Vedder si rifiutò di trasformarla in un video, non voleva dare ascolto all’idea manageriale di chi diceva che quella canzone era “più grande di Jeremy” o “più grande di me e di te”. La band era dalla sua parte.
«Alcuni pezzi», dice Vedder, «non sono fatti per essere suonati tra la hit n.1 e la hit n.3… Non è per questo che scriviamo canzoni. Non per fare delle hit. Sono pezzi fragili, che il business può ridurre in frantumi. Non voglio far parte di questa cosa. Credo sia lo stesso anche per la band».
L’argomento si sposta subito sui video. Ament racconta di un recente incontro con Mark Eitzel degli American Music Club. Ament e McCready avevano fatto una jam con lui a Seattle, ma, dopo 30 secondi di chiacchiere, Eitzel aveva colto l’occasione per provocare Ament sul video di Jeremy. «Mi è piaciuta la vostra hit», gli aveva detto, «ma il video fa schifo, mi ha rovinato l’idea che mi ero fatto».
Ament è rimasto colpito da quelle parole. «Tra 10 anni», dice a Vedder «non voglio che la gente si ricordi dei nostri pezzi per i video». Vedder è d’accordo. Promette che il nuovo album uscirà prima di qualsiasi video. «Non ce l’ho nemmeno MTV», aggiunge con una scrollata di spalle. «Non ha senso che faccia commenti. La gente mi ferma per strada e mi parla di questa band chiamata Stone Temple Pilots. Io non ho idea di chi siano. Quindi mi compro un panino e quelli continuano: “Ma che stanno facendo gli Stone Temple Pilots?”». «Non hai visto il video?», chiede Ament. «Devi vederlo». «No», risponde Vedder. «Non ho MTV».
Ament gli parla del video di Plush, con il cantante che si è appropriato in maniera sbalorditiva dello stile di Eddie Vedder. È una cosa che Vedder ha già sentito dire. In effetti se la sente dire tutti i giorni. Dai fan, dagli amici, persino da un musicista francese che si è complimentato con lui per il nuovo taglio di capelli: corti e arancioni. (Vedder li porta ancora lunghi e castani).
«A quanto pare è una cosa che pure il tizio dovrà gestire», ipotizza Vedder. «E dovrebbe farmi piacere? Cazzo, ma scegliti un trip tuo. Io non penso di averlo mai fregato a nessuno. Né a Andy Wood, né a Kurt Cobain, anche se quello di Cobain era uno dei migliori da rubare. Ma io e Beth facevamo parte della scena di San Diego. Conoscevamo tutto quello che c’era in giro, ed era una scena abbastanza piccola. Questi tizi vengono da lì? Io non li ho mai sentiti». Fine della questione.
Per svariate ore, Vedder e Ament passano in rassegna la confusione degli ultimi anni. Vedder ammette con Ament che le cose non sono più facili come prima. È diventato complicato prepararsi per cantare un pezzo nel modo in cui dovrebbe essere cantato. E per quanto Vedder beva solo di tanto in tanto, sul palco ha preso l’abitudine di sorseggiare da una bottiglia di vino rosso. Quando però la conversazione vira sull’ultimo periodo di Andrew Wood, Vedder si fa più meditativo.
«Mi faccio delle domande su Andy», dice. «A volte mi sembra di capire. Non la questione droga – non ho bisogno delle droghe per rendere tragica la mia vita – ma il fatto che le cose gli stessero andando così bene. Lui non lo sapeva». Vedder fa una pausa. «C’è un suo pezzo che sarei fiero di poter cantare. Non vi dico quale. Ma c’è un pezzo che mi ha sempre colpito molto. Un giorno lo canterò».
Vedder si scusa per andare al bagno. Ament scuote la testa. «È la prima volta che sento questa cosa», dice con un sorriso.
Sono le due di mattina adesso, una fresca notte di giugno. Ament e Vedder sono in piedi, tremanti, fuori dal Moore Theatre. Nessuno dei due sembra intenzionato a finire la nottata. Mentre giocherellano con le chiavi della macchina, continuano a chiacchierare sotto il tendone buio. «Non so se sia stata la birra, la compagnia o cosa», commenta Ament, «ma stasera mi è sembrato di tornare in un posto dove non tornavo da tempo». «Per me è lo stesso», dice Vedder. «Sono cambiate così tante cose». «Arriverà un momento in cui tornerà tutto com’era prima», dice Ament. «Adesso affronteremo questo periodo. Torneremo a suonare. Saremo di nuovo i cinque tizi che vogliono trovare insieme una soluzione».
Vedder affonda le mani nelle tasche. «Mi piacerebbe molto», dice. I due restano nell’oscurità ancora una decina di minuti, parlando di Oliver Stone, di Le iene, dell’atteggiamento della band e del sessismo in tour, di quanto siano fieri delle nuove canzoni e dell’eventuale collasso nervoso di Eddie. Può sempre vendere cassette fuori casa a un dollaro e mezzo. Alla fine il freddo ha la meglio. «Ci vediamo domani», dice Ament dirigendosi verso il parcheggio.
«Aspetta», dice Vedder, «vengo con te».
L’Italia è uno dei pochi Paesi a non essere caduto vittima dei Pearl Jam, e la band percepisce tutto il gelo quando apre il primo dei due concerti per il tour Zooropa degli U2 del ’93
“Fottiti” urla un coro di fan. Non è molto poetico, il pubblico italiano. Sono in 40.000 a riempire lo Stadio Flaminio di Roma, ma sono interessati soltanto al gruppo scritto sul biglietto: gli U2. «Devo fottermi?», ripete Vedder. «Sai che c’è? Voi fottete me, e poi Bono fotte voi!». La band si lancia in Even Flow e cerca di costruirsi un consenso, positivo o negativo, qualsiasi cosa. Finisce con un pareggio: questo è uno dei pochi Paesi al mondo a non essere caduto vittima dei Pearl Jam, e la band percepisce tutto il gelo quando apre il primo dei due concerti per il tour Zooropa degli U2 del ’93. Sarebbe più semplice dire che si tratta di un pubblico apatico, eppure, qualche secondo dopo che hanno lasciato il palco, il dj fa partire Another One Bites the Dust dei Queen e lo stadio esplode all’improvviso.
Più tardi, il pullman della band torna in albergo. Mentre è bloccato nel traffico, un gruppo di fan lo nota e cerca di guardare dentro. L’espressione sui loro volti non lascia adito a dubbi: «Oh, è l’altra band». «Avrei voluto suonare in qualche piccolo locale, piuttosto», dice Vedder, senza rivolgersi a nessuno.
La conversazione si sposta su Neil Young e l’imminente concerto insieme a lui a Dublino. La band comincia a parlare dell’opportunità di fare una jam con Young su Rockin’ in the Free World. Ma persino questo venerabile argomento viene liquidato in fretta, mentre le facce dei fan romani continuano a sbirciare dentro il pullman bloccato. Come se fosse saltato il segnale alla ZooTv e i Pearl Jam fungessero da monoscopio.
Fino a circa un mese prima dell’uscita, l’album si sarebbe dovuto chiamare Five Against One. Il nome era venuto fuori in una riunione in una stanza di albergo a Roma, quando la band aveva appena approvato il mixaggio finale del disco. Si sentivano già brusii da parte della casa discografica. Ogni ora c’era qualche decisione da prendere, ma i Pearl Jam erano intenzionati a fare di testa loro. Il titolo dell’album sembrava azzeccato. La frase era presa da un pezzo nuovo: Animal.
«Per me quel titolo rappresentava il conflitto che devi vivere per arrivare a fare un disco», dice Gossard, che aveva scelto la frase. «La tua personale indipendenza – la tua anima – contro tutti gli altri. In questa band, e credo in generale nel rock, l’arte del compromesso è importante quasi quanto quella dell’espressione individuale. Ci possono essere cinque grandi artisti in una band, ma se non riescono a lavorare insieme il risultato non sarà una grande band. Forse per Eddie ha un significato completamente diverso, ma quando io ho sentito quel testo, mi sembrava molto sensato».
Quando gli viene chiesto di parlare della sua infanzia, Eddie è molto prudente. Racconta aneddoti di quando serviva ai tavoli a Chicago. Racconta del trasferimento a San Diego e dell’acquisto del suo primo scadente stereo. Racconta di quando faceva i bootleg, cosa che continua a fare ogni tanto con il suo registratore tascabile. Però se deve rispondere a domande sulla sua infanzia, diventa evasivo. Riguardo ai suoi primi ricordi, dice soltanto: «Sono confuso, mischio tutto. Non so nemmeno cosa accade nell’immediato».
Dublino. Il giorno prima i Pearl Jam hanno suonato per un pubblico di circa 50mila persone vicino allo Slane Castle. È lontano il sole abbacinante dell’Italia. Al suo posto c’è la pioggia… visi pallidi… romantiche discussioni da sbronzi per strada… è come essere a casa. Gira voce che McCready sia ricaduto nell’alcol, correndo nudo tra le strade di Dublino la notte prima. McCready, che oggi sta facendo scorte di bootleg, non conferma né smentisce l’accaduto. «Adoro questo posto», dice. Mentre Vedder siede all’ombra dello Slane Castle, con un sole fioco a illuminargli il viso, rispunta fuori l’argomento infanzia. «Non ho mai conosciuto il mio vero padre», dice. «Ho avuto un altro padre con cui non andavo d’accordo, un tizio che pensavo fosse mio padre. C’erano sempre litigi e scenate orribili. Io mi arrangiavo da solo già in tenera età. Non ho mai finito il liceo».
Al tempo si chiamava Eddie Mueller. Dopo un breve trasferimento a San Diego, entrambi i genitori erano tornati a Chicago. Eddie, che aveva adottato il cognome della madre, Vedder appunto, non li aveva seguiti per dedicarsi alla carriera da musicista. L’addio con il patrigno era stato brusco, da allora non si sono mai più parlati. In seguito, mentre Vedder era a San Diego, la madre era andata a trovarlo per dargli una notizia importante. «È venuta con uno scopo preciso», racconta, «ovvero dirmi che quell’uomo non era mio padre. Ricordo di aver reagito tipo: “Oh, lo so che non è mio padre, è uno stronzo”, ma lei ha continuato: “Eddie, davvero non è tuo padre”. All’inizio ero contento, poi mia madre mi ha rivelato chi fosse il mio vero padre. Lo avevo incontrato tre o quattro volte, era un amico di famiglia. È morto di sclerosi multipla. Quando sono andato a fargli visita, era in ospedale. Aveva le stampelle, o forse era in sedia a rotelle».
Il padre biologico di Vedder era anche lui un musicista. Un cantante e organista che suonava nei ristoranti. Una volta scoperta la verità, si erano fatti avanti anche gli altri parenti. «Ci tenevano a dirmi tutte queste cose», ricorda, «tipo: “Ecco da dove hai preso il tuo talento musicale”. E io pensavo: “Ma vaffanculo”. Avevo 14 o 15 anni e non sapevo un cazzo. Avevo imparato a suonare la chitarra, avevo messo da parte tutti i risparmi per comprarmi l’attrezzatura e ora venivano a dirmi di chi era il merito? Fanculo!».
Il pubblico dublinese è fiero, energico, carico di rabbia e birra. I Pearl Jam salgono sul palco e la folla si compatta, spingendo sulle transenne. C’è una situazione tesa sotto il palco e la security sta portando via i ragazzi già mezzi svenuti prima ancora che inizi il concerto. Vedder ha indosso una maschera da gorilla, se la toglie e prorompe in Why Go. Il pubblico è al limite del pericolo, ma è felice, e oggi i Pearl Jam sono al loro apice. Sul palco rischiano di farsi male, saltano, pogano, si agitano euforici con gli strumenti a un centimetro dalle teste. La folla in pericolo non spaventa Vedder: canta serissimo verso quei volti che lo ascoltano con altrettanta serietà, come lui ascoltava gli Who. Ma soprattutto, i Pearl Jam non sono più solo una band che ha un album strepitoso all’attivo. «Non esiste una scuola che abbia previsto tutta questa roba assurda che ci accade. Ma alcuni di questi ragazzi, beh, possono aiutare. È stato il consiglio di Bob Dylan: “Andate a Dublino”. Oggi gli ho spedito una cartolina con su scritto: “Fatto”».