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Speed Dealer Moms, la musica senza scopo di John Frusciante e Venetian Snares

Dopo aver vissuto come un obbligo suonare in funzione del pubblico, il chitarrista dei Red Hot s’è messo a fare dischi con Aaron Funk, «per il solo gusto di farlo, perché vivi il presente solo quando non pensi al giudizio altrui». Conversazione semiseria attorno all’EP ‘Birth Control Pill’

Foto press

Dietro a un nome non notissimo, Speed Dealer Moms, si celano due musicisti dalla fama decisamente più ingombrante: da una parte il canadese Aaron Funk, meglio noto come Venetian Snares, nome di punta dell’etichetta Planet Mu, praticamente un ricettacolo delle schegge impazzite che si muovono in territori generati dalla battuta spezzata; dall’altra c’è John Frusciante, non un omonimo, ma proprio lui, il chitarrista dei Red Hot Chili Peppers.

Se cercate quelle chitarrine liquide e funkeggianti che tanta fortuna hanno portato ai Red Hot sappiate che qui non ne troverete manco mezza: il Frusciante che partecipa a questo progetto è molto più vicino al suo alter ego Trickfinger, nome col quale da anni si diletta in fughe in zone musicali altre, anch’esse spesso figlie di quell’amen break che nei primi anni ’90 ha dato vita alla rivoluzione inglese della jungle. Se Venetian Snares è un nome che ha reso un po’ più popolare un genere iperspecifico (il breakcore), Frusciante è una rockstar alla ricerca di una sua nicchia: in questo senso, nel progetto Speed Dealer Moms, i due musicisti si incontrano circa a metà strada delle loro reciproche vite artistiche e umane dando vita a Birth Control Pill, un EP di due tracce da circa 10 minuti l’una.

Come dire, non esattamente quello che richiedono il mercato o il pubblico. Ma proprio il mercato e il pubblico sembrano non rientrare nell’orbita di interessi dei due musicisti: il progetto ha un’esistenza totalmente estemporanea, prende vita nei ritagli di tempo dei due o quando le pressioni del music business si fanno troppo pesanti.

La storia in breve: Frusciante si rivela un grande fan di Venetian Snares e comincia a presentarsi spesso ai suoi show. Tra i due nasce una bella amicizia e nel 2010 decidono di dare vita al progetto. Questo Birth Control Pill è soltanto la terza uscita del duo, dopo l’omonimo debutto a cui è seguito l’impronunciabile seguito SDM-LA8-441-114-211 del 2021. Nei precedenti lavori hanno partecipato, pur se in misura minore, anche Chris McDonald (SKM-ETR, The Alison Project) e Libby Floyd (The Doubtful Guest), mentre quest’ultimo è un lavoro a sole quattro mani. Il progetto è folle nella sua apparenza (vi basti sapere che una delle poche foto che accompagnano il disco è quella che vedete qua sopra di due gattini con le facce dei nostri photoshoppate sopra e male), molto meno nelle sue intenzioni: Speed Dealer Moms è il suono di un’amicizia fra due “alieni” che scelgono, ogni tanto, di provare a farsi capire dal mondo.

Anche la chiacchierata al telefono si rivela altrettanto folle: Aaron Funk è la wild card della conversazione mentre, in maniera abbastanza sorprendente, il solitamente schivo John Frusciante si apre di più e a racconta la natura del progetto. Tra gatti disegnati male e clown dai nomi improbabili, si percepisce il senso di complicità fra i due – che si ritrovano spesso a completare l’uno le frasi dell’altro – ma emerge anche il senso di libertà che questo progetto dona all’estroso chitarrista rispetto a quanto gli è concesso nei Red Hot Chili Peppers. C’è voglia di mettersi in gioco, per sfuggire alla routine del dover suonare hit dopo hit, sera dopo sera, di fronte a migliaia di persone. Cosa che non avverrà in questo progetto visto che concerti non ce ne sono mai stati e (pare) mai ce ne saranno. E anche questa chiacchierata pare sia una rarità: a detta del duo, è solo la seconda intervista fatta da entrambi su questo progetto.

Siete liberi di credere agli alieni o meno.

Ciao ragazzi come state? Dove vi disturbo?
Aaron Funk: Sono sul divano, con me c’è il mio gatto Beans. Sembra un panda che qualcuno ha disegnato male.
John: Sono a casa a Los Angeles col mio gatto Francis che mi fissa.

Ok, quindi siete gattari. Avete anche cani?
Aaron: Adesso si. Ho qualsiasi tipo di animale, mi par di vivere in uno zoo a questo punto.

Non so se abbia senso provare a portare avanti una conversazione seria ma ci proverò. Avete qualche tipo di scopo con questa uscita?
John: In che senso obiettivi? Intendi di vendita?

No, non di vendita. Cose come arrivare a un certo tipo di pubblico o a persone diverse dal solito.
John: No, non abbiamo mai avuto uno scopo. E… Aaron vuoi rispondere tu? Mi sento un po’ in difficoltà.
Aaron: Beh, per riprendere da dove eri rimasto, no. Non penso che abbiamo mai scritto dei pezzi con l’intento di raggiungere qualcuno che non fossimo noi stessi mentre li stavamo facendo. Il nostro scopo era quello di avere un vinile che suonasse bene. Non è che ci siamo candidati alla presidenza, volevamo solo mettere questa cosa su vinile.

Quanti ne avete stampati?
John: Non lo so.
Aaron: È un’edizione limitata di otto miliardi di esemplari. Il primo miliardo avrà una copertina speciale con un odore segreto che puoi annusare.

In passato avete registrato musica come un trio, mentre questa è fatta solo da voi due. Corretto?
Aaron: Sì, siamo solo io e John. Nelle precedenti è successo che ci fossero anche Chris o Libby, ma la cosa capitava perché erano con noi quando stavamo suonando.
John: Ci sono stati periodi dove eravamo solo io e Aaron, ma molta della nostra musica è stata fatta quando c’erano anche Chris o Libby. È solo un caso che questa volta siamo solo noi due.

Come ha funzionato il processo di scrittura questa volta che eravate solo voi due? Ho letto che avete usato meno macchine del solito.
John: Abbiamo usato meno macchine del solito, ma non perché eravamo solo due. Di solito eravamo abituati a usare anche una decina di macchine, se non di più, a testa. E se c’erano anche Chris o Libby erano sempre e comunque su una sola macchina a testa, eravamo comunque io e Aaron a fare il grosso delle cose. Per questi due pezzi, Birth Control Pill e Benakis, ci siamo spostati in un altro posto invece del mio studio dove ho un sacco di macchine. Lo abbiamo realizzato sul pavimento del mio salotto, utilizzando lo stesso impianto che uso normalmente per sentire la musica e non sentivamo il bisogno di utilizzare tutte quelle macchine, questa cosa è parte del nostro percorso di crescita. L’idea era ottenere un sound comunque bello grosso da soltanto quattro macchine invece di 20 o 30.
Aaron: Invece di aver suonato tutto quello che c’è nello studio, avevamo pochissime cose, tutte sul pavimento ed è stato bello, ci è piaciuto provare cose nuove.
John: È stato bello lavorare spalla a spalla invece dei solito tre metri che ci separano per via di tutti i cavi che passano in terra (Aaron ride, nda). Quando abbiamo fatto queste due tracce eravamo l’uno accanto all’altro e potevamo sussurarci nell’orecchio quello che stavamo facendo.

Quindi l’idea di usare meno macchine questa volta è stata una scelta artistica.
John: Assolutamente sì.
Aaron: Non è stato neanche voluto. Stavamo cazzeggiando ed è andata così.
John: Se le cose non avessero preso questa piega saremmo sicuramente migrati nel mio studio ma… ma… non ricordo cosa volevo dire.

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Quando avete registrato l’EP e quanto tempo ci avete messo?
Aaron: Qualche giorno per programmare e suonare.
John: Aaron è stato qui da me circa due settimane e abbiamo scritto tre pezzi ma abbiamo fatto anche altre cose, come uscire, guardare film, ascoltare musica o giocare a dadi.

E quando è successo tutto questo?
Aaron: La settimana scorsa (John ride di gusto, nda).

Ma dai, non è possibile.
John: Saltiamo questa domanda.

Ok, andiamo avanti. Quando capite che una traccia è finita, che è come la volevate?
John: La musica è stata fatta in modalità live, senza post produzione. Quando lavori così, quello che davvero vuoi è ottenere semplicemente una buona registrazione.
Aaron: Esatto.
John: È un qualcosa che ti previene dal divenire troppo analitico. Quando fai musica con troppa post produzione cominci a osservarla da questo punto di vista, poi da quest’altro, poi la analizzi, poi cominci a rimuginare e a pensarci troppo. Quando lavori così, invece, ti limiti a programmare cose a sufficienza fino a che non pensi di avere abbastanza materiale per rendere divertenti 10 minuti di musica, che siano interessanti e interattivi con l’altra persona con cui stai suonando. Programmi 10 minuti di tutto questo e poi speri che esca fuori bene.
Aaron: A volte prendiamo la versione definitiva di un brano e la capovolgiamo completamente su sé stessa creandone una versione fatta a cazzo e pure quello è divertente.
John: Abbiamo una versione a cazzo di Birth Control Pill che è assolutamente folle.
Aaron: A me piace tanto quanto la versione che sta sul disco. Fuori di testa.
John: Sì. Abbiamo, tipo, velocizzato i pezzi di brutto, ma li abbiamo anche rallentati tantissimo. Oppure rallentato i pezzi di poco, ma in maniera stramba, per ottenere versioni selvagge dei pezzi finiti.

Quante ore di musica e canzoni inedite avete messo assieme in tutti questi anni di collaborazione?
Aaron: Oh mio Dio…
John: Credo… mmm… una trentina di ore?
Aaron: Sì, direi 30.

Che ne farete?
Aaron: Quello che ci pare (John ride, nda)!
John: Ci limiteremo ad adorarla per il resto delle nostre vite (Aaron sghignazza, nda). Magari ne incideremo un po’, alcune cose suonano come se dovessero stare su un disco, che poi è l’unico motivo per cui incidiamo roba, non perché ci interessi diventare popolari con queste cose, lo facciamo solo se è importante per noi e se ci va.

Si capisce che non avere alcuna intenzione di diventare famosi per questo progetto, non è facile neanche trovare delle informazioni online a riguardo.
John: (Ridacchia) Sì, questa è soltanto la seconda intervista in cui ne parliamo..

Davvero?!
John: Sì, facciamo musica assieme da ormai 15 anni, ma questa è soltanto la seconda intervista che facciamo. Non abbiamo neanche mai fatto promozione con gli altri dischi. Qualcuno potrebbe pensare che facciamo così perché odiamo questo progetto, e invece facciamo così perché lo amiamo davvero.
Aaron: Amiamo la nostra musica talmente tanto che non vogliamo mostrarla a nessuno. Perché non sono fatti loro.
John: Ci sono alcuni momenti in cui… sai.., prendiamo in considerazione quella che è la coscienza umana collettiva e cose così e, per certi versi, tenere questa cosa solo per noi per sempre sarebbe egoista perché magari un giorno ci sarà qualcuno, da qualche parte, per cui questa musica significherà qualcosa. Ed è per questo che è fuori. Per me, è un processo talmente diverso da ogni altra relazione musicale nella mia vita, specificatamente perché la maggior parte delle volte le persone fanno musica perché vogliono fare uno show, o perché vogliono andare in tour o perché vogliono uscire con un disco e, insomma, lo fanno per tutte queste ragioni che comportano un pubblico, mentre noi non saremmo mai progrediti nel modo in cui lo abbiamo fatto se avessimo seguito quel percorso. Quando abbiamo iniziato a fare musica assieme, volevamo solo fare cose che ci divertissero e che trovassimo interessanti. Non ci interessava quale fosse il risultato o se qualcuno l’avrebbe trovato buono. E proprio per questo, non ci saremmo evoluti come abbiamo fatto se ci fossimo preoccupati di cosa ne avrebbero pensato gli altri, se ci fossimo chiesti: stiamo facendo quello che le persone vogliono da noi?
Aaron: Io non posso proprio lavorare in quel modo. Non posso creare domandandomi cosa ne penseranno gli altri, a quel punto tanto vale preparare un cazzo di sandwich delizioso. Per me la musica è questa roba qua.
John: Ma anche se non stessimo pensando a un pubblico e stessimo invece pensando a qualcosa che può prendere la forma di un disco, con una buona prima canzone, e una buona seconda canzone, e una canzone di metà disco che regge bene e una con cui chiudere l’album e via dicendo… anche questo ci avrebbe impedito di andare dove siamo arrivati. In particolare, questo aspetto di non avere coscienza nel decidere fino a dove ci possiamo spingere… Se parti con l’idea di fare la miglior musica che tu possa fare, riascoltandola pensi cose tipo «cavolo avrei dovuto registrare quella roba più forte» oppure «quel suono si sente troppo rispetto al resto» o ancora «avrei dovuto spegnere quel coso in quel momento». Io ho fatto errori di questo tipo per i primi due anni…
Aaron: Anch’io.
John: E poi non ne ho fatti più, non faccio due volte lo stesso errore. Siamo passati dal sembrare due tizi che jammano con le macchine in una stanza assieme ad essere un suono musicale, ritmato, organizzato. Se avessimo cercato un qualche tipo di risultato fin da subito, non saremmo mai arrivati qui. Ci sarebbe stata troppa pressione, non avremmo scelto questa modalità per fare le cose e a nessuno di noi due interessava che il prodotto finale fosse perfetto o cose del genere, volevamo solo divertirci nel farlo. Il risultato finale è quello di una musica che è perfettamente organizzata per le nostre menti anche se non è stata creata nel modo in cui andrebbe creata per essere perfettamente organizzata dato che mantiene tutta la nostra spontaneità: allo stesso tempo, siamo diventati sempre più bravi a capire i pensieri dell’altro e a improvvisare fra noi.

Ecco, stavo per domandarvi se ci fosse l’idea di portare questo progetto in tour
Aaron: Ahahaha!

E di suonare questa musica di fronte a un pubblico, ma mi par di capire che la risposta è no.
Aaron: No, anche perché cancelliamo tutto dopo averlo fatto (John ridacchia, nda).

Perché ho visto che, anni fa, avreste dovuto suonare a un festival chiamato BangFace Weekender, ma poi non se ne è fatto niente.
John: Eravamo lì e abbiamo noleggiato le macchine per lo show visto che siam dovuti partire dal Canada e da L.A. per l’Inghilterra, ma non funzionavano. Abbiamo fatto delle prove nel nostro chalet, ma non funzionava niente, non avevamo delle macchine di riserva per cui ci siamo dovuti arrendere. Abbiamo pensato di provare a fare altri show, ma poi abbiamo capito che quello che ci piace davvero è fare musica assieme, mentre farlo dal vivo è una sorta di extra.
Aaron: Gli show sono una rottura di coglioni.

È stato chiaramente un segno dal cielo, ragazzi. Non è previsto che suoniate questa roba dal vivo.
Aaron: Così sembra. La nostra musica è letteralmente la cosa più live che ci sia.
John: La facciamo sul momento. Credo molto dipenda anche dalla strumentazione: per molto tempo abbiamo usato tante macchine, anche parecchio vecchie, diverse robe degli anni ’80. Questo sicuramente rendeva difficile rifarlo dal vivo. Tecnicamente parlando, sarebbe più facile portare questo progetto dal vivo col setup che abbiamo usato per Birth Control Pill. Se mai volessimo farlo.

Ma comunque non succederà.
Aaron: È improbabile.
John: Viviamo così lontani che quando ci troviamo l’idea di dover organizzare qualcosa di così complicato…
Aaron: Vogliamo solo creare qualcosa, non essere i cazzo di pagliacci al compleanno di qualcuno.

Beh, Aaron, voglio dire, puoi fare anche meglio di così, no? Non devi per forza fare il clown per suonare di fronte a qualcuno.
John: Ahahaha!
Aaron: Dimmi il tuo nome da clown.

Il mio nome da clown? Boh, Poldo?
Aaron: Poldo?

Perché no.
Aaron: Fantastico, Poldo il clown, lo adoro. Io invece voglio essere Grumble, il clown rompicoglioni.
John: Io sarò Bumble, il clown stupido.

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Mi avete detto che questa è solo la seconda intervista che avete fatto riguardo a questo progetto – e, a proposito, grazie per questa cosa – perché parlarne adesso? Cosa vi ha fatto cambiare idea?
Aaron: Non lo so. Perché no?
John: A volte nella vita si creano dei pattern. Perché non provare a romperli? Non c’è un motivo specifico, a volte ci si stanca di rimanere sulle proprie posizioni e si prova a fare qualcosa di diverso giusto per non risultare così prevedibili.
Aaron: Forse, ora che ci penso, è carino dare alle persone un po’ di informazioni su quel che abbiamo fatto e su cosa stavamo pensando.

Vero? Non è male!
John: Come dicevo, è stato un viaggio musicale talmente diverso rispetto a quello che vedo fare dalle persone che mi stanno attorno.. voglio dire, per come funzionano le cose oggi, lo schema è proprio l’opposto, le persone postano la loro musica immediatamente, appena è pronta. Per alcuni può funzionare così, per altri magari ha più senso conservare la propria musica per un po’ prima di mostrarla a tutti. Il progresso avviene in maniera differente e nel nostro caso, apparentemente, è stata una cosa abbastanza unica. Quindi, parlarne è salutare.

Quando stavate descrivendo il rapporto che avete con la vostra musica, e con questo progetto in particolare, la prima parola che mi è venuta in mente è stata egoismo. Ma in realtà trovo che la parola corretta sia amore. Questo è un progetto d’amore.
Aaron: Sicuramente.
John: Aaron è l’unica persona con cui io abbia mai lavorato che è così felice di fare musica tanto quanto lo sono io. Questa musica è figlia di sessioni di 12 ore di fila, a volte anche 16, non ho mai conosciuto nessuno capace di andare oltre le tre, quattro ore. Amiamo questa musica, ci vogliamo bene l’uno con l’altro, e questo è un viaggio che è fuori dal tempo, fuori dall’industria musicale, fuori da qualsiasi tipo di programmazione. Non ho mai amato il fatto di dover fare le cose come le fanno gli altri. E se tutti fanno le cose in un modo, non è detto che sia quello giusto, è solo una convenzione.
Aaron: Mi piace come l’hai detto.

Anche il modo in cui promuovete il progetto non è convenzionale. Anzi, quasi non lo promuovete per niente…
Aaron: È un po’ come quando vai a giocare a biliardo coi tuoi amici. Non è che lo fai sapere a tutti, no? Lo fai e basta (John ride, nda).
John: È qualcosa che facciamo per rilassarci e perché ci piace e ci interessa. Un po’ come tutte quelle cose nella vita per le quali sviluppi un interesse. In primis, lo facciamo per divertimento.
Aaron: Ecco, farlo è l’essenza stessa del progetto. Invece di, come dicevi prima, aspettarsi qualche tipo di risultato.
John: Quando cominci a fare musica astraendoti dal pensare a quale sarà il giudizio futuro che riceverà, quello è il momento in cui sei totalmente nel presente. Dopo aver lavorato un po’ di tempo così con Aaron, ho pensato che sia assurdo pensare di fare musica che abbia qualche tipo di intenzione o di scopo. È una grossa limitazione. Non giudico gli altri per come fanno le loro cose, ma una volta che ti abitui a fare musica per il solo piacere di farla, è l’altra modalità che comincia a sembrarti strana.
Aaron: A me è sempre sembrato così. Voglio dire, quando faccio musica da solo, non penso mai «questo è per le persone» o «questo è fatto per esser suonato da qualche parte». Quelle sono cose che accadono dopo.
John: Per me, anche per via del fatto che sono entrato nella band quando avevo 18 anni, la connessione tra il fare musica e la presenza di un pubblico è diventata un obbligo molto concreto. E ho dovuto respingere questa cosa sparendo per un po’… avevo raggiunto il limite. La prima volta che me ne sono andato dalla band pensavo «voglio solo dipingere». Volevo solo fare quadri e disegni. E disegnavo perché era un’area di creatività dove non dovevo preoccuparmi di cosa ne avrebbero pensato le persone. A un certo punto volevo fare solo quello.

Questo progetto rappresenta per voi una qualche forma di evasione dalle vostre rispettive carriere musicali?
Aaron: Mmm, no.

Sai, un posto tranquillo, una sorta di terapia.
Aaron: È sicuramente un posto tranquillo.
John: Sì, ma non è una cosa che nasce dalla paura. Credo che questo sia facile da mal interpretare. Non abbiamo paura di far conoscere la nostra musica.

No, non ne faccio una questione di paura, ma di pace.
John: Ah, pace! Sì, assolutamente. Ogni volta che andiamo a casa dell’altro è come se andassimo in una sorta di santuario, un posto sacro dove possiamo vivere di creatività, senza altre interazioni. Che poi comunque ci sono sempre cose da fare, voglio dire quando siamo a Winnipeg dobbiamo comunque uscire di casa per andare a prendere cose da mangiare o che servono per la casa. E quei momenti sono altrettanto importanti. Non è solo questione di fare musica, ho ricordi fantastici di noi in farmacia o al supermercato, vedere il mondo reale per un secondo. Comprare il giornale, camminare per la strada, con gli occhiali da sole…
Aaron: Esattamente.
John: Siamo talmente presi quando facciamo musica, che quando siamo per la strada ci sentiamo come alieni che osservano le persone vere. O forse sono tutti gli altri ad esser alieni e le persone vere siamo noi (ride).
Aaron: Riemergere dalla nostra bolla.
John: Siamo talmente nella nostra bolla che è come passare da una sorta di sogno psichedelico alla vita vera. Tutte queste cose sono altrettanto importanti: rilassarsi assieme, ascoltare dischi, guardare la tv, giocare a dadi… tutto questo è forse ancora più importante del fare musica.

Possiamo parlare anche degli altri vostri progetti musicali?
John: Preferirei di no.

Volevo solo sapere se state lavorando a qualcosa come Venetian Snares o come Red Hot Chili Peppers o uno dei tuoi altri progetti, John.
John: È un problema se non ne parliamo?

Ok, pazienza. Che etichetta dareste alla vostra musica? Sono un pessimo giornalista e ho bisogno di attaccarci un’etichetta sopra. Fatelo voi.
Aaron: Libertà.
John: Magia è la parola che ho in mente, ma non vorrei sembrare uno che se la tira. Live electronic music. Musica del momento.

Ha senso chiamarlo il suono della vostra amicizia?
Aaron: Lo è, è quel che è.

Ragazzi, la vostra amicizia è strana.
John: Ahahaha, non l’abbiamo mai negato.

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