Non c’è band nata dopo gli anni duemila che incarni così perfettamente lo spirito dopato che caratterizzava i suburbs britannici degli anni ’90 come i Fat White Family. Genuinamente e sfacciatamente punk, tanto nello spirito quanto nell’approccio alla musica, sono una pietra rotolante fatta di strafottenza, sudore e violenza. Da quando hanno iniziato a incidere dischi, nel 2013, hanno sfornato una sequenza di inni su argomenti scabrosi e ultrapulp, mescolando rock ruvido e passaggi elettronici, fregandosene della censura, del buongusto e di tutto il resto (tipo parlando di una spinta, metaforica, verso un suicidio di massa di giovani, “Give the kids enough rope / and let them hang themselves” in Bomb Disneyland oppure sognando una storia d’amore con una ragazzina “I’m pleading for you baby / your fifteen year old tongue” in Cream of the Young, solo per citare un paio di passaggi).
E la cosa più incredibile di tutte è che Lias Saoudi e soci hanno dimostrato di poter vendere copie, di poter fare tour in mezzo mondo essendo semplicemente se stessi e facendo quel cazzo che gli pare: cambiando di continuo componenti, distruggendo studi di registrazione e camere d’albergo nella migliore tradizione punk. Mettendosi in equilibrio più volte sul filo sottilissimo dell’auto-distruzione. Sorprende ben poco, quindi, la scelta di Danny Boyle e del suo staff di inserire Whitest Boy on the Beach nella colonna sonora del secondo capitolo cinematografico di Trainspotting. La traccia, che lo stesso Lias ha definito: “Giorgio Moroder producing Donna Summer style”, non è un inedito ma è contenuta nel loro ultimo disco, Songs for our Mothers, uscito a gennaio dello scorso anno.
Chiamo Lias Saoudi al telefono, in un pomeriggio molto tranquillo. Leggendo le interviste che rilascia di solito, mi sarei aspettato un atteggiamento iper strafottente. Invece, trovo il frontman in vena di piacevoli chiacchiere, nel suo duro accento di Uckfield. Rigorosamente a tema Welsh, Boyle, McGregor e affini.
«Come sono stato coinvolto? Praticamente non ho fatto niente!», dice, parlando della soundtrack. «Sai come funziona in questi casi, no? Scrivi dei pezzi, incidi un disco, viene pubblicato, fai dei tour, la gente ti ascolta e finisce lì. Poi tu magari sei lì che stai già pensando alla cose da fare dopo, hai già in mente altra musica, altri progetti e arriva una telefonata dalla tua etichetta: “Hey, scusa, ci hanno chiesto il permesso di usare una tua canzone nel prossimo Trainspotting. Cosa gli diciamo? Sì o no?”. E tu cosa vuoi rispondere a una richiesta del genere? Beh, sì, certo che sì!».
Lias è nato nel 1986, quindi gran parte del fascino dope di Trainspotting l’ha subito di riflesso. «Mi ricordo», dice, «che i miei genitori lo guardavano in tv o in videocassetta, non mi ricordo: quando il film era al cinema io avevo 10 anni, quindi non sono andato a vederlo subito. Sicuramente negli anni successivi, si è trasformato in una sorta di fissazione. Sai, negli anni ’90 la vita era un po’ diversa, erano tempi più duri». Anche la colonna sonora è stata molto importante, quasi rivoluzionaria. Una raccolta che comprendeva generi diversissimi, pezzi molto famosi e tracce semisconosciute. «Una selezione di canzoni di quel tipo, soprattutto per le persone un po’ più adulte, è stata una vera apertura mentale. Ti bastava comprare quel disco per avere uno spettro musicale davvero ampio, non soltanto di quel periodo preciso, ma anche degli ultimi, chessò, 30 anni di musica, british e internazionale. Mettendo assieme tutte queste cose, posso dire che il primo Trainspotting abbia regalato a chiunque un incredibile spaccato culturale di quel periodo».
Conoscendo le esperienze personali di Lias e le sue abitudini, sembra la persona giusta a cui chiedere un parere anche su alcuni dettagli del film, diciamo “tecnici”. In un’intervista al Guardian, diceva di litigare con suo fratello – Nathan, che ha qualche anno in meno di lui, è il tastierista dei Fat White Family – e con i suoi compagni di band per un motivo soltanto: “Drug… Habits”.
«In linea di massima, penso che drogarsi non sia esteticamente così figo, come può sembrare in alcune scene. E, come dicevi anche tu, parlo di cose che conosco in prima persona». A cosa ti riferisci, di preciso? «Beh, tutto il film sembra quasi un lunghissimo videoclip musicale! I colori, i suoni, il ritmo… E anche i protagonisti sono più belli rispetto a quello che succede nella realtà. Anche Ewan McGregor è un belloccio, sempre. Anche quando è strafatto, con gli occhi a palla e completamente sudato ha un suo fascino particolare. Come protagonista funziona, e capisco che è una scelta che devi fare per vendere, ecco. Però, dai, si può dire che in generale sia abbastanza realistico».
Ovviamente, tutta la saga di Irvine Welsh è presente nella libreria di Lias. È tempo per la domanda più classica del mondo: cos’è meglio? Libro o film? «Beh, il libro è molto più crudo, sicuramente si è perso qualcosa nel film. Ma è normale, credo, non puoi portare al cinema proprio tutto». E forse, visto che ha letto il libro, ha anche delle opinioni sul prossimo T2. «Porno (il libro da cui è tratto questo nuovo capitolo, nda) è una storia molto bella, quasi ottimista. E, da quello che ho visto e letto finora, anche al cinema dovrebbe esserci questo stesso spirito. Potrebbe essere un buon anno per un film così, visto il momento politico che stiamo passando qui in Inghilterra. Anche se non si parla direttamente di società e di politica. È una storia di riscatto, però. E può far stare bene».
Il nuovo film di Danny Boyle è in uscita il 23 febbraio, ma se sognate una serata come questa seguite gli hashtag #ChooseToilet e #TrainspottingDue su Instagram, abbiamo messo in palio una proiezione esclusiva anche per i nostri lettori. L’obiettivo è quello di portare al cinema il vincitore del contest (il regolamento completo e le foto di tutti gli altri canditati sono qui) con tutti i suoi amici. Per partecipare è sufficiente postare su Instagram una foto ispirata al film di Danny Boyle, ma lo scatto deve essere rigorosamente ambientato in bagno.