C’è una canzone d’altri tempi a metà del nuovo album di St. Vincent. È dedicata a cantautrici, scrittrici e attrici che hanno aperto la strada alla musicista americana sfidando le regole del loro tempo. È una specie di gospel, con cori femminili e tutto il resto, e perciò suona come un atto di devozione quasi religiosa nei confronti di donne rivoluzionarie. Ci sono Joan Didion a bordo della sua Corvette del ’69, santa Joni Mitchell, Nina Simone nei guai per aver cantato Mississippi Goddam, lo stupro impunito di Tori Amos, Marilyn Monroe che si fa d’eroina, che comunque “è meglio degli abusi”. E poi c’è lei, St. Vincent, che si domanda: e io chi sono in confronto a queste, una reginetta di bellezza sotto benzodiazepine?
Che definizione magnifica. In quelle tre parole, “benzo beauty queen”, c’è il nostro sentirci nani nei confronti dei giganti del passato. C’è la pulsione di St. Vincent verso la bellezza. C’è il racconto in miniatura di piccole debolezze personali. C’è quel po’ d’autocommiserazione che non ci si aspetta dalla più figa in circolazione. Sì, perché negli ultimi dieci anni, Annie Clark è diventata un modello di perfezione quasi alieno. Che sia da sola o con Dua Lipa o David Byrne o i Nirvana, quando la metti su un palco spacca. Nessuna è come lei: è una musicista vera, non una produttrice di meme formato canzone; ha un’etica del lavoro spaventosa; incarna un’ideale di coolness irraggiungibile in un’epoca in cui le dive cercano di convincerci che sono proprio come noi; inscena nella musica e in tutto ciò che le sta attorno, concerti foto grafiche, il rapporto dialettico fra persona (Annie Clark) e personaggio (St. Vincent), rendendo difficile capire dove finisce l’una e comincia l’altro.
Nel nuovo album, che s’intitola Daddy’s Home e uscirà il 14 maggio, lo fa vestendo i panni di un’eroina che sembra uscire da un film anni ’70 di John Cassavetes. Se in Masseduction del 2017 era una donna di potere con indosso tutine in latex attillate che rilasciava dichiarazioni inquietanti e per le mani aveva canzoni spigolose e sintetiche, nel disco nuovo incarna le sue storie in un nuovo personaggio, una sorta di Gena Rowlands dalla bellezza consumata da notti di bagordi sullo sfondo della New York della prima metà degli anni ’70, vivace e pericolosa. E pure la musica s’adegua a questo copione, diventa morbida e flessuosa, prende suoni, melodie, armonie, groove e suggestioni dai dischi a cavallo fra musica bianca e nera usciti in quel decennio. In fondo, St. Vincent continua a cantare sé stessa anche quando non lo fa. Non è diverso da quando, sette anni fa, descriveva con nonchalance una giornata come tante, appuntando in musica che “ho portato fuori la spazzatura, mi sono masturbata”. Anche questa volta St. Vincent racconta una storia personale, anche dolorosa, solo che lo fa vestendo i panni di una midnight cowgirl col trucco sfatto, le autoreggenti smagliate, in testa una parrucca bionda e a casa i vinili di Stevie Wonder, David Bowie ed Harry Nilsson.
C’è stato un periodo in cui Annie Clark andava a trovare il padre in prigione, dove l’uomo ha scontato dal 2010 al 2019 una condanna per abuso di mercato, una truffa da 43 milioni di dollari. «Mi è successo più d’una volta di essere stata respinta all’ingresso», racconta, «magari perché i miei pantaloni erano troppo attillati o cose del genere. Ti assicuro che non vado in prigione vestita di tutto punto, ma lì funziona così. È un sistema burocratico e punitivo: ti fermano all’ingresso e ti rimandano a casa con qualunque scusa, anche se il colore della tua giacca non gli va a genio». Clark ha preso l’auto ed è andata comprare dei vestiti più larghi dal Walmart, una Wonder Woman che ridiventa Diana Prince. Un’altra volta le hanno passato di straforo degli scontrini da autografare: la sua presenza in sala visite non era passata inosservata e quelle ricevute erano gli unici pezzi di carta disponibili.
Daddy’s Home nasce dalla rielaborazione di questi e altri fatti legati all’incarcerazione del padre e non solo. Nel disco vengono esposti, in puro stile St. Vincent, mischiando narrazione senza filtri e rielaborazione fantasiosa, con un senso dell’umorismo rinfrancante in quest’epoca in cui ogni cosa viene trasformata in un dramma. È un disco di piccoli grandi casini, è pieno di gente che s’arrabatta e fra una delusione e l’altra coglie attimi di estasi. È pieno di freak, di gente che si fa domande sulla propria moralità, di voglia di evasione e di storie raccontate con un filo di ironia. La protagonista di Pay Your Way in Pain racconta le sue disavventure quotidiane, ma lo fa mischiando il tono di voce imperioso di David Bowie in Fame e quello lascivo di Prince. Come dice il testo di un pezzo, se la vita è uno scherzo, allora moriamo ridendo.
In qualche modo tutto torna nelle scelte musicali che rendono Daddy’s Home diverso da qualunque altro disco di St. Vincent. Non è uno di quegli album frutto dell’ossessione per il suono vintage, ma è figlio di un’idea precisa: evocare i vinili che il padre faceva sentire alla piccola Annie e che sono stati incisi per lo più a New York fra il 1971 e il 1976. Solo che siamo nel 2021 e Daddy’s Home è stato suonato in buona parte da Clark e dal produttore Jack Antonoff prima della pandemia e poi editato fino a dare l’impressione d’essere il documento d’una band che suona dal vivo in una vecchia sala d’incisione. «Quando siamo entrati agli Electric Lady Studios di New York ho detto a Jack: voglio il suono della downtown di una volta. Lui ha messo le mani sul Wurlitzer e lì io ho capito tutto, ho compreso che volevo un disco dove le chitarre suonano come chitarre e la batteria suona come una batteria. Non l’avevo mai fatto prima».
A quel punto tutti i pezzi si sono incastrati: la bellezza sfatta della ragazza con la parrucca, le strade di New York e le loro bodegas, la vicenda del padre e questo sound sofisticato e assieme grezzo, con in più il timbro ricorrente di un sitar elettrico che crea una strana sensazione di dislocamento culturale. «Daddy’s Home richiama la musica della mia infanzia e il sitar elettrico è lì perché, come mi piace dire, questo disco è per il 17% psichedelico», spiega un po’ ironica e un po’ precisetti. «Volevo a tutti i costi un suono vecchio per raccontare una storia nuova. La New York di quegli anni lì, prima dell’esplosione della disco, ricorda il nostro presente. Vedo molto analogie: ci si metteva l’idealismo alle spalle, tirava un’aria d’incredibile incertezza, si era nel bel mezzo di cambiamenti radicali dal punto di vista culturale ed economico, si abbattevano istituzioni e poteri senza sapere come ricostruirli. Ora come allora siamo dentro un edificio distrutto da un incendio a chiederci: e adesso?».
Ascoltare Daddy’s Home dopo aver sentito uno dei dischi attualmente in top 20 fa impressione. È frutto di un’intelligenza musicale rara. «Quando avevo 8 anni ero fan degli Steely Dan, la più giovane al mondo immagino. Ero ossessionata da The Royal Scam. La cosa non mi rendeva particolarmente popolare ai pigiama party, ma mi ha aperto un mondo di musiche sofisticate. Sofisticatezza non è però sinonimo di qualità. La storia è piena di grandi canzoni fatte da tre accordi. Mettiamola così: negli anni ’70 c’è stata la grande fusione di forme musicali americane come rock, funk, soul, jazz che ha creato dischi assieme sofisticati e musicali. Ecco, io volevo fare qualcosa del genere. Ho riascoltato gli album che sentivo da piccola e mi sono chiesta: com’è che sono tanto belli? Che cosa li rende interessanti? Quali accordi creano questa dinamica fra tensione e risoluzione? Oggi la musica popolare è guidata dai produttori e beat programmati, io ho preso un’altra strada, al linguaggio ritmico ho preferito quello armonico. Siamo tutti quanti il prodotto di quello che ascoltiamo. Se fossi nata trent’anni dopo forse farei musica con un laptop».
In un disco in cui le canzoni ti portano in giro per le strade di New York per poi farti galleggiare nello spazio come in un vecchio vinile dei Pink Floyd, è importante anche il ruolo delle coriste. In passato, Clark creava armonie ri-registrando la propria voce. Per la prima volta ha chiamato un coro. È come se avesse voluto calare il suo canto in un luogo sonoro dove vivono altre voci. «Mi piaceva l’idea che le canzoni sembrassero delle conversazioni».
Nella canzone sulla reginetta di bellezza sotto benzodiazepine in cui St. Vincent si paragona in modo autocritico alle grandi del passato c’è un’altra frase interessante. A differenza loro, canta, lei non si è mai battuta per affermare una verità, si è limitata a mentire. «Mi riferisco a quel che diceva Picasso e cioè che l’arte è una bugia che ci permette di conoscere la verità». Questa cosa ha a che fare col trasformismo di St. Vincent, con la sua missione di reinventare ogni volta la realtà. «Gli artisti non fanno altro che questo, no?». Nel suo caso particolare, la musica sembra sempre recitazione, un film in cui Clark è sia attrice che regista. Ma qual è l’origine di questa voglia di perenne mutazione?
«Forse è perché mi piace ogni volta raccontare la storia del disco in modo visivo, amo personificare la musica. Se è digitale e fredda come in St. Vincent divento una sorta di capo spirituale digitale, se la musica è morbida come in Daddy’s Home sono una donna glamorous che però non dorme da tre notti, un po’ civettuola e un po’ dura, una che potrebbe tornare a casa e dirti: è stata una lunga giornata, passami le pantofole e il bourbon». In ogni caso, dice, la materia di cui è fatta St. Vincent (il personaggio) viene da Annie Clark (la persona). «Mettiamola così. La mia personalità è un mixer, di quelli da sala d’incisione, presente? Ci sono vari potenziometri: uno è l’ego, un altro è il senso dell’umorismo, un altro la vulnerabilità e così via. Ogni volta che questi potenziometri vengono alzati o abbassati nasce una diversa iterazione di St. Vincent. È tutto dentro di me, da qualche parte. St. Vincent è Annie Clark che gioca col mixer».
Questo trasformismo, che ha ereditato da Bowie «l’idea di non guardarsi indietro, di non ripetersi mai», la distanzia dalla narrazione pop contemporanea in cui si chiede all’artista d’essere sempre sé stessa, di presentarsi in modo trasparente per creare una connessione empatica col pubblico soprattutto tramite i social media. «Presentarsi come autentica è anch’essa una forma di performance. Se ci dev’essere costruzione del personaggio, allora cerchiamo di rendere la cosa più interessante di fingere di essere…». Fa una pausa, poi aggiunge un aggettivo di cui non sembra convinta: «di essere normale. Non voglio dire che non sono normale. Ho una vita noiosa come tutti. Dico che esporla come tale sarebbe ipocrita, perché si tratterebbe comunque di una forma di performance».
A volte negli spettacoli da vivo di St. Vincent questa performance è talmente curata da risultare distante. È forse per questo che ogni tanto si getta sul pubblico, corpo e chitarra. È per dire: toccatemi, sono reale. «Ora ti dirò che cosa penso sia reale. Reale è fare il proprio lavoro al massimo delle possibilità e dell’impegno. Metterci tutto. Instaurare una relazione di fiducia col pubblico, costruire un terreno comune in cui in qualche modo ci si trova e si condividono delle cose. Ecco cos’è reale per me».
“Dove diavolo puoi fuggire se il fuorilegge è dentro di te?”, canta Clark nella canzone che dà il titolo all’album. Sta ovviamente cantando del padre, ma in fondo anche di sé e dei protagonisti dei pezzi di Daddy’s Home, persone imperfette che fanno del loro meglio, peccatori. «Mi sono sempre sentita così, una fuorilegge, per tutta la vita. Magari sembro integrata, ma mi sono sempre sentita stramba». Sembra sinceramente lusingata e persino stupita quando le dico che non si capisce come si possa sentire stramba o inadeguata una come lei, che è un mix tra Audrey Hepburn, Kate Bush, Joni Mitchell e l’aliena di Mars Attacks!, una role model irraggiungibile. Quando le chiedo l’origine di questa inadeguatezza esita qualche secondo. «Oddio, non saprei dirti da dove viene, davvero. Non ci sentiamo tutti un po’ alieni la maggior parte del tempo?».
Daddy’s Home finisce con una canzone intitolata Candy Darling. È dedicata all’attrice transgender che faceva parte della Factory di Andy Warhol. Dopo essersi trasferita alla fine degli anni ’60 da Long Island a Manhattan, Candy Darling ha vissuto la New York sporca ed eccitante cantata da St. Vincent. Lou Reed le dedicò una canzone dei Velvet Underground intitolata Candy Says e la citò nel suo pezzo più famoso, Walk on the Wild Side. È morta nel 1974 per un linfoma di Hodgkin a soli 29 anni, nel pieno del periodo d’oro della musica newyorchese evocato da Daddy’s Home. Alcune celebri fotografie di Peter Hujar la ritraggono sul letto di morte, in ospedale: sdraiata su un fianco, truccata, una rosa sulle lenzuola. Bellissima ed evanescente. Una foto di quelle session è finita sulla copertina di I Am a Bird Now di Anohni, che all’epoca incideva come Antony and the Johnsons.
In Daddy’s Home, Candy Darling è descritta come una regina del Queens che lascia dietro di sé una scia di profumo, un glamour girl nel demimonde di downtown o, come ha detto qualcuno, la Dorothy Parker del Max’s Kansas City. «L’ho voluta immaginare così», dice St. Vincent, «mentre prende l’ultimo treno per uptown. La vediamo allontanarsi mentre da dietro al vetro ci saluta, al rallentatore». E con quel gesto estremo redime i peccatori del disco.