Stefano Pilia, la musica è musica | Rolling Stone Italia
Uno bravo

Stefano Pilia, la musica è musica

Valore aggiunto di Afterhours e Massimo Volume, ma anche compositore di musica contemporanea. Dalla volta in cui ha suonato con John Paul Jones a quando è stato chiamato per sostituire Bryce Dessner, intervista a un musicista che non conosce steccati tra i generi

Stefano Pilia, la musica è musica

Stefano Pilia

Foto: Matilde Piazzi

Stefano Pilia è una figura incredibilmente preziosa nel panorama musicale italiano. Non solo e non tanto perché lo si è visto in versioni particolarmente interessanti dei Massimo Volume negli anni passati o negli Afterhours, che è un po’ la prima cosa che salta all’occhio e probabilmente anche il primo motivo per portare su queste pagine una lunga chiacchierata con lui.

In realtà però è molto di più, Pilia: è ad esempio un musicista che da qualche anno sta dando alle stampe dischi di musica classica contemporanea particolarmente rigorosi, austeri e matematici, come l’appena uscito Lacinia; è uno di quei non frequentissimi casi di musicisti capaci di passare attraverso mille generi e traiettorie, di essere sia solista ieratico e abrasivo che tessitore raffinato di delicatezze nel contesto di una band, o di una visione consolidata altrui, o di progetti speciali estemporanei. Un talento multiforme, affilatissimo, notevolmente affascinante, che si innesta su una persona che è invece – di suo – incredibilmente alla mano, priva di presunzione e del minimo complesso di superiorità. Sì: accidenti se la musica italiana ha bisogno di persone, e di artisti, come lui.

Allora Stefano, prima di questa chiacchierata ho ascoltato con attenzione il Lacinia che hai appena fatto uscire e insomma ho capito: bene, basta cazzate, basta rock, basta After, basta Mimì, ormai sei diventato definitivamente un compositore serio…
(Scoppia a ridere).

Ecco, appena te l’ho detto sei esploso a ridere, quindi mi sa che hai colto lo spirito della frase.
Eh, mi sa di sì.

Però oh, devo dirtelo. Un lavoro come Lacinia o il precedente Spiralis Aurea sono veramente ambiziosi, rigorosi, per nulla accomodanti; e sono strettamente legati alla sfera della classica contemporanea, oltre al fatto che in molti brani nemmeno suoni, figuri appunto solo come compositore (e tra l’altro, come compositore sei entrato in un catalogo editoriale prestigioso come quello di SZ Sugar). Quindi sì, mi tocca chiedertelo: non è che stai definitivamente scegliendo la strada del compositore serio e illuminato, abbandonando quella dello sperimentatore tra noise ed ambient o in alternativo di affilato valore aggiunto in campo indie rock? Che poi le ultime due strade sono quelle per cui ha un senso tu sia qui sulle pagine di un Rolling Stone, e penso tu lo sappia…
Guarda, in realtà io credo di essere sempre stato prima di tutto un compositore. Cioè, magari prima di tutto no, però è anche vero che io nasco come bassista, e se a un certo punto ho iniziato a suonare anche la chitarra è stato prima di tutto per esigenze compositive: mi serviva quel tipo di colore sonoro, per quello che stavo componendo. Anche lì: ho sempre concepito la chitarra prima di tutto come uno strumento elettroacustico, come qualcosa di funzionale a un insieme, più che uno strumento solista. Trovo che gli strumenti a corde – e quindi appunto ci rimetto dentro il basso – siano ancora dei bellissimi campi di ricerca, per l’infinità di sfumature e possibilità che possono offrire. Non credo insomma di abbandonarli.

Esiste un dualismo tra lo Stefano Pilia compositore di classica contemporanea da un lato e dall’altro quello che suona nei Massimo Volume, o con gli Afterhours, o con Rokia Traoré?
Non lo so. Forse no. Nel senso che anche quando suono in una band sto sempre attento a inserirmi nel modo migliore all’interno di un setting complessivo, come ti dicevo prima. Ho sempre questo approccio un po’ da compositore. Vedi?

Vedo. Peraltro, per stare in una band bisogna avere anche un buon carattere, oltre a saper suonare e ad avere capacità di visione d’insieme. E tu ti sei fatto una palestra discreta, in quanto a carattere, suonando al servizio di personalità molto forti.
Beh sì, dicono che sono molto paziente (ride)… e anche molto gentile, non so, lo dicono in tanti. Il paradosso è che io ho invece un’immagine di me come di una persona con poca, pochissima pazienza. Secondo me, sa parli con un po’ di musicisti che hanno suonato con me ti potrebbero dire che sono semmai uno che si arrabbia molto…

Tipo, con un Manuel Agnelli ti arrabbi? Davvero?
In più di una occasione abbiamo discusso… Litigato mai, questo è vero; però discusso sì, e anche più volte.

Perfetto.
Credo sia anche giusto ogni tanto essere polarizzati, porsi su piani differenti e contrastanti. Non per il gusto del litigare o del far vedere chi conta di più, no, ma perché è qualcosa che può fare davvero bene alla musica: diventa tensione creativa sana. Se le discussioni nascono per motivi legati strettamente alla musica allora sì, sono salutari.

Ho citato Agnelli, potevo citare Mimì dei Massimo Volume, ma leggendo la tua biografia artistica uno può incontrare anche le collaborazioni con Adrian Utley dei Portishead, con John Parish, perfino con le sorelle Katia e Marielle Labèque, poi ovviamente Rokia Traoré, ma in realtà l’elenco sarebbe parecchio lungo. C’è qualcuno che ti ha messo in soggezione?
Beh, prima di incontrare le sorelle Labèque ero effettivamente agitato, anche perché, figurati, dovevo sostituire Bryce Dessner nel loro quartetto, mica uno qualunque. Sì, il mio background da contrabbassista classico è solido, però accidenti… La loro, poi, non è una musica semplice già di suo. Ce n’era abbastanza per non stare tranquilli, credimi. Però nel momento in cui sono arrivato lì da loro sono stato accolto con così tanta fiducia e con così tanta dolcezza che mi sono sciolto subito, ogni preoccupazione è passata. Oppure, mi ricordo quando in tour con Rokia Traoré a un certo punto ho saputo che si sarebbe unito a noi John Paul Jones, che è semplicemente uno dei miei idoli musicali assoluti, capisci? Nel mio olimpo personale c’è lui, c’è Steve Harris degli Iron Maiden, c’è Les Claypool dei Primus, loro e pochissimi altri… Accidenti se ero emozionato all’idea di averlo vicino, John Paul Jones! Poi però giunge il momento del concerto e vedi che arriva, è un vecchietto, ma al tempo stesso è una forza della natura, concentratissimo sulla musica, senza nessuna mania di protagonismo; e poi a concerto finito vedi che si ritrova coi nipoti che erano arrivati lì a vederlo, e lui si mette a parlare con te di quotidianità, di piccole cose della vita… Come fai a non scioglierti? È bellissimo questo lato umano delle cose che si interseca con l’arte. Davvero.

Foto: Matilde Piazzi

Ecco, ferma un attimo: non so se ti rendi conto, ma nell’arco di pochi secondi di risposta siamo passati dalle sorelle Labèque agli Iron Maiden, passando per Les Claypool e Rokia Traoré… Io godo, eh, perché sono sempre stato onnivoro negli ascolti musicali. Ma onestamente mi ricordo che nei primi anni ’90, proprio per questo mio essere sfrontatamente onnivoro, ero o non capito oppure direttamente guardato con sospetto, come uno che prova a mettere il piede in troppe scarpe. Capitava anche a te?
Certo che capitava! E trovo che una cosa bellissima di questi ultimi anni è effettivamente proprio quanto siano caduti certi steccati, quanto sia diventato molto più naturale e normale spaziare molto con gli ascolti, essere curiosi, non chiudersi in recinti.

Questa è la cosa bellissima. Bene. Ora però, di questi anni, voglio una cosa bruttissima. Riequilibriamo.
Posto che a essere bruttissima è prima di tutto proprio la situazione geopolitica, che è sempre più tragica, parlando invece di arte e musica trovo preoccupante che ormai ci siano dei meccanismi che agevolano solo ed unicamente ciò che è trasferibile nel mercato. Il resto sembra sempre più irrilevante, sempre più con poco valore

Domanda: è così anche nella musica cosiddetta di ricerca, nella classica contemporanea, che è un ambito dove tu ti muovi parecchio, anzi, forse sempre di più, a giudicare dalla direzione che sta prendendo la tua discografia?
Anche nella musica di ricerca, sì, anche lì. Tutto sta diventando una sorta di corsa al brand. E nella musica dal vivo, guarda, non bastano più i concerti, tutto deve diventare in qualche modo un evento. Non si è più in mezzo alla musica per piacere, per puro piacere e godimento, ma per definire in qualche modo il brand di se stessi.

Premesso che sono d’accordo con te, voglio però provare a stuzzicarti: non è che a un certo punto il mondo della musica colta contemporanea abbia preso a cullarsi troppo del suo status di entità che deve essere al riparo dalle leggi di mercato, diventando snob, impigrendosi anche artisticamente? Cioè, il mercato può anche fare bene in certi casi. Può diventare uno stimolo utile. Forse addirittura necessario, sano. Un reality check.
Assolutamente. È vero che in certi momenti il mondo della musica contemporanea si è un po’ disconnesso, è diventato troppo autoreferenziale, si è occupato troppo di pensare unicamente al proprio linguaggio, al pubblico che già aveva, perdendo un po’ di quella tensione che ti porta a volerti misurare con un pubblico non dico universale, ma almeno un po’ più larga, più imprevedibile. Ma sai cosa non mi piace? Questa continua ricerca del nuovo. Cioè, attenzione, è una tendenza che contrassegna tutta l’arte del Novecento, per carità, non è un male in sé; non ho nulla contro la ricerca del nuovo, davvero, figurati. Ma inizia a darmi fastidio quando viene venduto come l’unico valore che conta davvero, o comunque quello prioritario. Non per forza è così.

Secondo me a vent’anni non avresti mai parlato in questo modo.
(Scoppia a ridere) Hai perfettamente ragione! Stiamo invecchiando, vero…

Lo Stefano Pilia di oggi forse si diverte di più a chiudersi in studio a lavorare sulle sue composizioni che magari essere in tour con gli Afterhours e i Massimo Volume…
Quando sono in tour con loro mi capita più di una volta di pensare «Accidenti, perché non sono in studio a registrare le mie cose, bello tranquillo»… Poi però quando sono in studio «Accidenti, quanto mi manca essere in giro con gli After: quand’è che parte il prossimo tour?». È bellissimo comporre e concentrarsi sulla propria musica, quando sei tu a crearla in prima persona, ma l’interscambio di energia che c’è col pubblico in un concerto rock resta qualcosa di unico, di strepitoso – è un rito, una forma di rito contemporaneo, e noi come esseri umani abbiamo bisogno di ritualità, soprattutto quando è così viscerale. Insomma, non riesco a scegliere.

Ho capito: stai bene nelle band perché sei l’uomo dei compromessi. Quello che è in grado di stare e navigare benissimo negli opposti, che dice bene di questo, ma anche di quello…
Può essere, può essere (ride).

Però, scherzi a parte, da solista stai andando in una direzione ben precisa. Almeno, questa è l’impressione.
Beh, sì: ora Lacinia, prima Spiralis Aurea, dischi in cui sono diventate sempre più importanti la simmetria e il rigore nella composizione, e che mi hanno portato a mettere in secondo piano la chitarra come strumento suonato in prima persona. Se ripenso ad album bluesy come Blind Sun New Century Christology lì addirittura si partiva da territori quasi stoner, oltre ad avere già di per sé la chitarra come protagonista in primo piano. Anche se in realtà, a ben pensarci, forse proprio lì iniziava un mio processo di progressiva astrazione: del resto il blues è una musica di passione quasi trascendentale, no? Chiaro, ora i riferimenti sono diventati molto diversi, e la mia musica si è fatta più contemplativa, più meditativa. Vero. Del resto si vede anche dai titoli che do a dischi e brani, no?

Accidenti se si vede. Mo’ addirittura metti i titoli in latino, metti…
Come dice la mia compagna Matilde, «sì, bravo, bravo, ora fai pure i titoli in latinorum» (ride). Guarda, io per primo ogni tanto ci penso e mi fa un po’ sorridere questa scelta, cioè, ci rido sopra io per primo, però non è tirarsela o credersi chissà che: è molto più ingenuamente voler mettere l’accento su un certo qual carattere arcaico di ciò che ho creato, e anche il voler situarmi in un non-luogo linguistico come il latino. Una lingua che non è italiano, non è inglese, è… altro. Ed essendo altro, è anche qualcosa che ti può affascinare già solo per il suono, perché ti evoca una sensazione, e non invece direttamente per il significato che ha. Un processo che penso sia interessante.

Afterhours - Noi Siamo Afterhours (Backstage)

Ho capito: rischio di vederti sempre più come compositore che ha la propria musica portata in giro da ensemble classici, con un profluvio di titoli austeri e colti in lingue morte, e sempre meno come chitarrista ambient/noise/sperimentale che si esibisce in prima persona, quando invece è proprio in questa seconda veste che ti ho conosciuto di più e meglio, musicalmente parlando…
Non necessariamente, sai? Proprio di recente ho fatto qualche concerto in solitaria dove portavo sì il materiale di Lacinia e Spiralis Aurea ma al tempo stesso, tra una composizione e l’altra, mi prendevo la libertà di improvvisare, di perdermi, di seguire l’onda del momento… Credo che possedere e frequentare entrambe queste polarità mi faccia in realtà proprio bene come musicista: da un lato affronto un logos compositivo molto preciso, molto strutturato, dall’altro ho ancora voglia di abbandonarmi improvvisamente al caos, di cavalcarlo, di domarlo. Non mi spaventa né uno scenario, né altro. Anzi, credo che questi due estremi si facciano bene a vicenda. L’uno aiuta l’altro. Poi non ti nego che dovessi andare solo in giro con gli ensemble pensando di dedicarmi unicamente a quello la cosa potrebbe diventare un po’ complicata economicamente, ma in realtà avere questa doppia dimensione è parte di me: anche potendo, credo che non ci vorrei mai rinunciare.

C’è però una cosa a cui mi sembra tu abbia rinunciato già in partenza.
Quale?

Ti cito il titolo di un album di Zappa: Does Humour Belong in Music?.
Eh.

Sbaglio, o nella tua musica – che è davvero multiforme e affascinante – se c’è una cosa che manca quello è il senso di ironia, di humour?
È vero. E non ne vado fiero. È una parte importante, che potrebbe assolutamente esserci. Ma sai, io anche se vivo a Bologna da tempo resto sempre un genovese: uno un po’ malinconico, ecco (sorride). In più la musica per me è da sempre prima di tutto una pratica trascendentale, contemplativa: e lì inserire l’humour e l’ironia, beh, non è proprio così semplice…