Avete presente Er Principe, il personaggio interpretato da Mario Brega in Bianco, Rosso e Verdone? Quello di «questa mano po’ esse fero e po’ esse piuma»? Ecco, mi hanno sempre raccontato che il chitarrista degli Yes, Steve Howe, è un tipo abbastanza umorale e che, di conseguenza, le sue interviste dipendono molto dal momento, dalla domanda o semplicemente da come si è svegliato. Per questo motivo attendevo il suo arrivo su Zoom con un po’ d’ansia e con la speranza di condividere il lieto fine con la Sora Lella.
Distinto e oltremodo britannico, Howe ha invece parlato (invero non di tutto) con grande gentilezza e humour, presentando lo sbarco in Europa del Classic Tales of Yes Tour (a Roma, Milano e Padova i prossimi 5, 6 e 8 maggio), parlando di presente, di passato e della voglia di non fermarsi nemmeno ora che le primavere si avvicinano pericolosamente alle 80. Insomma, oggi la mano di Steve è stata ‘na piuma.
Partiamo dalla stretta attualità. Dopo il tour americano dello scorso anno ora portate questo show antologico in Europa. Cosa dobbiamo aspettarci?
Cambieremo poco per la nuova tranche. Sarà uno show diviso in due parti ognuna di un’ora in cui ripercorreremo la carriera degli Yes, o per lo meno una parte di essa, cercando di mostrare i tanti capitoli della nostra storia. Non ci sentiamo pezzi da museo, quindi non mi piace definirlo uno show antologico. Rispetto alla parte americana, penso che daremo un po’ più di spazio a Mirror to the Sky. Nel nuovo millennio non siamo stati sempre a fuoco, non sono soddisfatto di tutti gli album degli anni 2000, ma credo che gli ultimi due siano degni di una storia come la nostra.
La sensazione è che a un certo punto abbiate capito che il futuro degli Yes potesse essere trovato solo nel passato. Senza per forza di cose essere nostalgici.
Ma io sono estremamente nostalgico e non mi vergogno di dirlo. Quando ho lasciato l’ultima volta gli Asia l’ho fatto proprio perché volevo dedicarmi solo agli Yes e alla filosofia che aveva sempre portato avanti la formazione storica del gruppo. Il pubblico vuole questo, io voglio questo, tutti vogliamo questo. Ai tempi di 90125 gli Yes cercavano di fare gli Asia, volevano arrivare a un certo pubblico e non cambiarono solo chitarrista, cambiarono completamente sound. Io non voglio che questo accada nuovamente. E nemmeno il resto della band. Per questo non parlo di tour antologico, perché non tratteremo ogni era degli Yes.
In un certo senso assomigliate ai Deep Purple. Nonostante le tante formazioni che avete avuto, siete semplicemente gli Yes, quasi come se foste un’idea più che una band.
Di fatto è così. Ogni membro che ha fatto parte del gruppo ha portato qualcosa, anche di molto grosso, ma nessuno è stato più grande della band stessa. Me compreso. Però credo che la band non possa prescindere dal sound che ha creato tra il ’71 e il ’73, non possono esistere degli Yes senza la componente prog. Un po’ come nella musica classica, possono cambiare gli esecutori, ma non possiamo non considerare l’idea che il pubblico ha degli Yes e degli arrangiamenti. Se ci pensi, non è solo una questione di prog, è proprio una questione di dna. Se ascolti gli Who, ti aspetti alcune cose, così come se ascolti gli AC/DC o i Queen. Puoi cambiare, ma sempre all’interno di un paradigma.
Cos’è che aveva e ha una band come gli Yes che altre band progressive non avevano?
Non sono nella posizione di dire se gli Yes abbiano o abbiano avuto qualcosa che altri non avevano. Gli anni ’70 sono stati un periodo irripetibile perché decine di band potevano avere il medesimo successo proponendo spesso cose molto diverse tra loro. Una cosa che ho sempre riconosciuto agli Yes è la forza degli individui. Si è sempre parlato della forza del gruppo, come qualcosa di molto più grande della somma delle parti. Io invece ti dico che la forza degli Yes, soprattutto di quella che viene considerata la formazione classica, stava proprio nella forza dei singoli. Che è poi il motivo per cui non siamo durati a lungo con la stessa line-up. Insomma, quello che forse avevamo in più è stata anche la nostra condanna.
Quanto è stato importante l’arrivo di Jon Davison per il nuovo corso?
Molto e per diversi motivi. Intanto perché a farlo conoscere a Chris Squire è stato Taylor Hawkins, di cui era amico fin dall’infanzia. Se pensi che oggi nessuno dei due è più tra noi, la cosa assume connotati che vanno oltre la musica e che riconducono a entità a noi superiori, quelle circostanze non casuali che devono andare in un certo modo. Al di là dell’aspetto spirituale, c’è poi chiaramente quello musicale: Jon non è solo un cantante straordinario, ma è un compositore di altissimo livello. Quello di assumere il frontman di una cover band degli Yes poteva essere un rischio, soprattutto perché in molti ancora non avevano superato nemmeno l’addio a Jon Anderson. Ho insistito tantissimo affinché lavorassimo su alcune sue idee per Mirror to the Sky. Potrebbe essere mio figlio, ma dentro ha la nostra età (ride). Senza di lui probabilmente oggi gli Yes non esisterebbero più.
Perché prima di entrare negli Yes dicesti no a Keith Emerson e ai Jethro Tull?
Keith era un amico. Avevamo moltissime cose in comune, in particolare l’amore per diversi compositori italiani, in primis Antonio Vivaldi, ma ai tempi in cui mi chiese di entrare nei Nice credevo che non bastasse. Onestamente non sapevo come il mio chitarrismo avrebbe potuto sposarsi con loro. Poco dopo feci il provino per gli Yes e lui formò gli ELP, quindi mi piace pensare di aver fatto la cosa migliore per la storia del rock. Coi Jethro Tull fu diverso, perché Ian Anderson non era interessato al fatto che fossi un compositore, a lui serviva un chitarrista e io ero in cerca di un lavoro, ma non avrei mai fatto solo l’esecutore. Non ero fatto per quello.
Eppure dicesti sì a Lou Reed per il suo debutto da solista, dove sostanzialmente ti limitasti a eseguire i suoi pezzi.
È vero, però devi pensare che ai tempi ero già entrato negli Yes e avevamo già pubblicato The Yes Album, quindi non mi trovavo nella stessa situazione di qualche mese prima. Non ricordo bene come finii a suonare con Lou, ricordo che mi fecero sentire una volta i pezzi e subito dopo me li fecero incidere. Registravamo al buio, c’era solo una piccola lampada accesa. Era tutto molto strano, ma Lou fu davvero carino. L’album andò molto male, ma ero con Rick Wakeman, che poco dopo divenne una colonna portante degli Yes. Quindi come vedi è sempre tutto scritto.
Vent’anni dopo con i Queen andò decisamente meglio. Tanto che hai reso immortale Innuendo con il tuo solo flamenco.
Come saprai, Montreux è un luogo magico per la musica. Soprattutto per quella inglese. Qualche giorno prima di registrare il pezzo con loro, mi trovavo a Ginevra e decisi di noleggiare una macchina per fare un giro a Montreux, perché volevo vedere un po’ di posti che mi ero ripromesso di visitare. Mentre ero a pranzo sul lago, entrò nel ristorante Martin Groves, uno dei nostri tecnici che spesso i Queen chiamavano durante le loro session. «Cosa fai qui? Vieni subito in studio che i Queen saranno felicissimi di vederti». Una volta in studio, Freddie, Brian e Roger sembravano non aspettare altro. Mi fecero ascoltare quasi tutto quello splendido album e poi aggiunsero che stavano cercando qualcuno che aggiungesse qualcosa alla Paco De Lucia nel mezzo di Innuendo. Volevano che improvvisassi qualcosa di spagnoleggiante all’interno del pezzo. A me sembrava una follia, anche perché i Queen non erano gli Yes, Brian May era abituato a riempire ogni buco e secondo me è l’unico chitarrista capace di dirti chi è con la sua musica. Invece è stato uno dei pomeriggi più belli della mia vita.
So che non vuoi domande su Jon Anderson: perché?
Voglio molto bene a Jon come essere umano. Molto meno per tante altre cose. Accontentati di questo.