Trentacinque anni fa Steve Jordan ha ricevuto una telefonata. Era Keith Richards, voleva che suonasse la batteria in una nuova versione di Jumpin’ Jack Flash che stava facendo con Aretha Franklin. «Charlie Watts mi aveva detto: “Se fai qualcosa fuori dagli Stones, l’uomo giusto per te è Steve Jordan», scrive il chitarrista nella biografia Life. «È stata una gran session. Da quel momento ho sempre saputo che se avessi fatto qualcos’altro, sarebbe stato con Steve».
Richards ha mantenuto la promessa: ha chiamato Jordan per suonare nei suoi X-Pensive Winos e in altri progetti speciali come il documentario su Chuck Berry Hail! Hail! Rock ’n’ Roll. E quando in estate ha scoperto che Charlie Watts non poteva suonare per problemi di salute, Jordan era il candidato numero uno per prendere il suo posto nei Rolling Stones.
«Dopo tutta la sofferenza causata dal Covid», scriveva Watts in un comunicato, «non voglio che i fan dei Rolling Stones che hanno comprato i biglietti del tour subiscano la delusione di un altro rinvio o della cancellazione dei concerti. Così ho chiesto al mio grande amico Steve Jordan di sostituirmi».
Doveva essere una cosa temporanea, ma è diventata permanente il 24 agosto, con la morte di Watts. Jordan ha gestito la responsabilità con dignità e grazia straordinaria per tutto il tour. E una settimana dopo l’ultima data, ci ha raccontato la sua esperienza.
Senti ancora i postumi del tour?
Sì. Ci vuole un po’ per decomprimere, ovviamente.
Come ti sei sentito scendendo dal palco dell’ultimo show, in Florida?
Siamo scesi dal palco, saliti in macchina e via su un aereo. La decompressione prevede diverse fasi, e ci siamo ancora dentro. Ne parlavo l’altra sera con Keith. Gli Stones sono unici. Persino quando sono i musicisti del gruppo a parlarne, si riferiscono alla band come a un’entità terza. Dicono che “gli Stones” hanno fatto questo e quest’altro, e io rispondo: ma gli Stone siete siete voi! Sembra quasi un’altra persona.
Facciamo un passo indietro. Quando sei diventato un fan della band?
Avrò avuto otto anni. Amavo più i Beatles degli Stones. All’epoca dovevi scegliere da che parte stare, mica potevi amare entrambe le band, era proibito. Alla fine il valore delle canzoni ha avuto la meglio. Voglio dire che quando nel 1965 è uscita Satisfaction non si poteva far finta di niente. L’amavano tutti. Non importa se eri un fan dei Kinks o di qualcun altro, a tutti piaceva Satisfaction. Ha abbattuto un muro.
E dopo quel primo momento?
Sono diventato un vero fan degli Stones con Honky Tonk Women. Pensavo fosse un gran pezzo funky. Era funk. Mi piacevano gli intrecci tra chitarra e batteria, è così che sono diventato fan di Charlie Watts. Il pezzo è tutta opera sua, di Keith Richards e Jimmy Miller al cowbell. Non senti nient’altro, non ci sono altri elementi a parte ovviamente la voce. Ma anche prima che entri Mick, Keith, Charlie e il cowbell hanno già vinto. Fine della storia. Boom.
Passiamo al 1978, al vostro primo incontro…
Ho conosciuto Charlie durante la prima puntata della quarta stagione del Saturday Night Live. Ero nella house band e visto che c’erano gli Stones la security era esagerata. Tutti cercavano di avvicinarsi, ma io non ci pensavo perché i New York Yankees giocavano contro i Kansas City Royals. Comunque l’ho incontrato. Una cosa tira l’altra e finisco per chiedergli un autografo della band. Lui torna con un pezzo di carta e ci mettiamo in camerino a parlare di baseball. Diceva che gli sembrava un mix tra cricket e rounders. Io ne avevo sentito parlare, è un gioco che prevede di correre da una base all’altra. Il cricket, invece, si gioca con una mazza. Quindi sì, era una combinazione di quei due giochi. Ma insomma, ero seduto con Charlie Watts a guardare gli Yankees. Non poteva andare meglio di così.
Come sei finito nelle session di Dirty Work?
È stato Charlie a invitarmi in studio nel 1985. Ero a Parigi a registrare con un progetto parallelo dei Duran Duran, una band che si chiamava Arcadia con Nick Rhodes e Simon LeBon. Ho scoperto che gli Stones erano allo studio Pathe Marconi, ed è così che sono finito a lavorare con loro. Charlie mi ha chiesto di suonare, all’inizio ho detto di no, non me la sentivo. Alla fine ho suonato le percussioni o rinforzato alcune delle sue parti. Forse un charleston in più, una cassa. Ero onorato, ma da fan hardcore della band avrei sparato a chiunque avesse suonato al posto di Charlie.
Li hai visti durante il tour del 2019?
Sì. Anzi, ho passato un’intera giornata con Charlie a Chicago. Avevo fatto una clinic e un Q&A al Chicago Music Exchange, poi un’intervista con Reverb, così sono rimasto in città. Alla fine ho fatto il soundcheck con Charlie. Una performance straordinaria. Ricordo di aver pensato: è incredibile che riesca ancora a suonare così, a dare forza alla band, in uno stadio.
Voi non potete capire. Quando suoni in uno stadio devi cambiare qualcosa nel tuo stile. Le sottigliezze che sei abituato a mettere nelle tue parti non funzionano in un posto con 80 mila persone. E se quella è l’essenza del tuo stile, devi rimodulare il tuo approccio senza compromettere la tua musicalità. Perché è quella che ti rende unico e alimenta il suono della band. Sono un sacco di cose a cui pensare, non si tratta solo dell’esecuzione. Quella sera lui è stato impeccabile. Ero sconvolto. Ovviamente non sapevo che era l’ultima volta che l’avrei visto suonare.
Come hai scoperto che c’era la possibilità di sostituirlo nel tour di quest’anno?
Sono stato praticamente l’ultimo a scoprirlo. Non voglio entrare i dettagli. Ma ero sorpreso, innanzitutto perché non sapevo che Charlie fosse in ospedale. Era notizia difficile da mandare giù. Ma l’idea all’epoca era che l’avrei sostituito durante la convalescenza, il tempo di qualche prova e magari qualcosa in concerto. Pensavo che Charlie avrebbe potuto fare la sezione acustica, sul palco B. Pensavo: quando sarà guarito tornerà lui.
Come ti sei sentito? Sedere dietro a quel kit è una bella responsabilità…
Conosco la musica e suono con Keith da trent’anni, perciò so che il motore degli Stones sono la chitarra e la batteria. E Ronnie che arricchisce tutto e duetta con Keith. Mick, ovviamente, è il faro. Tutti insieme lo mettono nelle condizioni di esibirsi per il suo pubblico. La vedo così: quando Mick è a suo agio, si può esprimere in modo ancora più incredibile. La performance è sempre pazzesca, ma quando scatta qualcosa nella band, allora raggiunge vette impensabili.
I fan losanno che durante lo show quel momento prima o poi arriva, ci puoi scommettere. È come quando vai in auto, cambi marcia e inizi ad andare forte. Ecco, con gli Stones è così. È il fascino dei loro concerti. Quando lo senti e ti dici: ecco, ci sono arrivati. Magari succede al quarto pezzo. Alla prima canzone sei travolto da quello che ascolti, ma loro stanno ancora cercando di capire come suona quel palco, come suona il pubblico.
Quando i miei amici mi chiedono com’è suonare con gli Stones, io dico sempre che è come essere legato a un razzo spaziale che decolla. Vai là fuori e il primo pezzo è il decollo. La folla impazzisce e tu stai suonando una delle tue canzoni preferite, una di quelle che ascoltavi quand’eri bambino. È surreale. È un’esperienza bizzarra.
Fammi dire qualcosa anche su Ronnie. Ha un’energia infinita di cui mi nutro anch’io. La cosa più straordinaria è ascoltare le chitarre, quella che Keith chiama “the weave”, la tessitura. Non suonano parti separate, sono connessi. Nessun’altra band è così. Cercano di imitarli, ma nessuno ci riesce. Una delle grandi gioie del suonare con la band, oltre a Mick, è assistere alla tessitura delle chitarre che si forma di fronte ai tuoi occhi. È semplicemente incredibile.
Parlami delle prove. So che la band fa qualcosa come 80 pezzi. È un sacco di materiale…
È una delle cose più belle di quest’esperienza. Le prove sono incredibili perché suoni per cinque ore di fila. Poche pause. Il repertorio è incredibile. Non lo facciamo tutto, saranno 80 canzoni o qualcosina in più. Poi la lista viene ridotta, bisogna scegliere 14 pezzi che vadano bene per il pubblico. Deve valerne la pena, perché i fan spendono un sacco di soldi per vedere la band. Vogliono ascoltare certi pezzi e devi farli.
I miei momenti preferiti delle prove, però, sono quelli con i brani meno noti, quelli che non si sentono tanto spesso: All Down the Line, If You Can’t Rock Me, Live With Me, Sweet Virginia, Dead Flowers, Faraway Eyes, Shattered, She’s So Cold, She Was Hot. Le abbiamo suonate tutte. Anche Moonlight Mile, l’abbiamo fatta parecchio ed è favolosa. Sto ancora cercando di convincerli a metterla in scaletta, anche se non so se ci saranno altri concerti in futuro. Di sicuro ce la metterò tutta.
C’è un sacco di roba, anche Under My Thumb. Non è un pezzo minore, ma è diverso dagli altri e lo suoniamo in modo particolare. È stato eccitante fare quelle canzoni con loro ogni giorno.
Come trovi l’equilibrio tra replicare le parti di Charlie e aggiungere il tuo tocco?
Funziona così… quando una band suona insieme per 60 anni, non fa i pezzi sempre allo stesso modo. Anzi, quando si tratta di questa band, a parte agli inizi, non hanno mai suonato i brani come sono sui dischi. Molti sono stati scritti direttamente in studio.
I Beatles hanno smesso di suonare live nel 1966, quindi non dovevano replicare nulla. Ma quando continui a fare concerti, e registrando i dischi usi tutte le magie dello studio, devi trovare un modo per rifare quei pezzi sul palco. Così loro hanno eliminato un sacco di cose dalle versioni live. La band suona quelle canzoni in modo diverso da quasi cinquant’anni, forse di più. E quindi ti metti a pensare: qual è il mio periodo live preferito? Ho messo assieme le cose dal vivoe in studio, faccio un mix delle due cose. Il mio obiettivo era riprendere alcune parti dei dischi e citare quello che è il miglior periodo live del gruppo. Secondo me va dal 1971 al 1975, gli anni con Mick Taylor, quando Charlie era incredibile. Volevo riprendere un po’ di quell’energia.
Charlie è morto mentre provavate e il tour ha preso una piega diversa. Hai sentito un peso maggiore?
Il giorno in cui ho scoperto che era morto è stato uno dei peggiori della la mia vita. E poi c’era questa cosa che non avevo chiesto io di fare (sostituirlo durante tutto il tour, ndt).
Dalla prospettiva del pubblico posso dirti che quei concerti sono stati catartici. Eravamo tutti insieme per celebrare Charlie e la musica che ha creato.
Sì. Devo fare i complimenti a Mick e a tutta la band per come hanno gestito la transizione e tutto quel periodo. L’hanno fatto con tutta la gentilezza e umanità possibile.
Devi sapere che una settimana prima della sua morte, mi avevano detto che Charlie stava migliorando. Quella settimana le prove erano decisamente più allegre perché eravamo felici per lui. Suonavamo tutto con più leggerezza, senza pesi. «Faremo questo e quest’altro, poi Charlie tornerà e andrà tutto bene». Perciò quand’è morto è stato ancora più scioccante e tragico. A quel punto il tour è cambiato. Non ho letto i social quindi non so cosa si dica in giro. Non lascio che mi influenzino. Non voglio pensare che sia un peso troppo grande, lo era già prima che morisse.
Il primo show è stato un concerto privato al Gillette Field, di fronte a un pubblico ristretto. Un specie di riscaldamento. Com’è andata?
Poco prima del concerto uno dei dottori che ci seguono in tour, Richard Dawood, mi ha passato un messaggio di Seraphina e Charlotte (rispettivamente figlia e nipote di Watts, ndr). Dicevano che erano dalla mia parte, di andare e suonare. L’ho letto un’ora prima dell’inizio del concerto, forse meno. È stato estremamente importante. Solo in quel momento mi son sentito di dire: ok, facciamolo. Non è stato un vero concerto, ma è stato comunque un bel modo di tornare sul palco, di fronte alla gente. Niente di paragonabile a quello che è accaduto a St. Louis.
Com’è stato lì?
Credo d’averlo già detto: la speranza era d’essere in grado di reggere le bacchette per le prime due canzoni. Arrivato al terzo pezzo ho capito che potevo arrivare fino in fondo. E poi c’è un’altra cosa di St. Louis: era la prima volta in cui assistevo a uno show intero degli Stones. Davvero, di solito ero nel backstage o me ne andavo prima della fine per evitare il traffico. Perciò mentre suonavo pensavo: che grande show… ma aspetta un attimo… io ne sono parte! Che roba, davvero.
Dev’essere forte vedere Mick sul palco da vicino. Fa cose pazzesche per la sua età.
Non solo per la sua età, uno può avere 25 anni e non riuscire a fare quel che fa lui. Amo la musica ballabile e creo dei groove su cui lui può muoversi. E sento una connessione quando suono e lui si scatena. Mi fa sentire bene. Poi arriva Keith ed è favoloso.
Col tempo ti sei sentito più a tuo agio nel ruolo di batterista degli Stones? È stato come togliersi un peso di dosso?
Assolutamente sì. Dopo la data a Los Angeles tutti dicevano: «Bene, ci siamo messi alle spalle L.A., ora possiamo rilassarci e godercela». Dall’inizio del tour a Los Angeles la pressione è stata tanta, per via della stampa. La data di St. Louis è andata bene e il mio amico Antoine Sanfuentes della CNN mi ha spiegato come funziona: se la prima data va bene, la seconda deve andare anche meglio, così si crea un effetto valanga di recensioni positive e diventa difficile scrivere qualcosa di negativo. Ovviamente se ci fosse stato Charlie sarebbe stato diverso. Manca a tutti.
Girano voci su un possibile tour europeo nel 2022, per il sessantesimo anniversario.
Avrebbe senso, ma non ne so granché. Come ho detto prima, sono l’ultimo a sapere le cose. Ho fatto il mio lavoro, mi sono concentrato su questi 14 show, e questo conta. Non vado oltre.
Ma ti stai tenendo libero per la prossima estate?
Mettiamola così. Partecipo a molte produzioni che sono incomplete e all’orizzonte ho tanti progetti a cui dedicarmi. Tanta roba. È parecchio complicato. Ma alla fine tutti i pezzi andranno al loro posto.
Quanto mi piacerebbe che ci fosse il tour per i 60 anni.
Da fan degli Stones, penso che dovrebbero farlo. Ma è da vedere cosa ne pensano loro adesso che non c’è più il loro amico, che è stato con loro per 59 anni. Non è una decisione facile, credo. Charlie non manca solo dal punto di vista musicale, ma anche umano. Faceva da mediatore. Ricordo una cena con Jim Keltner, Ringo e Charlie: è il tipo di ricordo che mi sarà per sempre caro. In quanto agli Stones, hanno un sacco di storia. Non provo nemmeno a mettermi nei loro panni.
Dal punto di vista di un fan, il modo migliore per rendere onore a Charlie sarebbe un tour. Dovrebbero continuare a suonare la musica che hanno fatto con lui. E tu hai fatto un ottimo lavoro, a fronte di un compito per niente facile.
Ho messo la musica al primo posto. Quando lo fai, non sbagli mai. Metti l’ego da parte, dimentichi la gravosità del compito che devi portare a termine e ti concentri solo alla musica. Ci metti il cuore. Tutto qui.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.