Rolling Stone Italia

Steve Piccolo, la spia venuta dall’America per sabotare il pop italiano

Uomo d'avanguardia, membro dei Lounge Lizards, negli anni '80 si è trasferito in Italia dove ha lavorato a pezzi pop di grande successo (presente 'Self Control' di Raf?). «Mi sentivo un agente sovversivo»

Foto: selfie dell'artista

I mondi dell’arte e della musica sono pieni di megalomani. In mezzo a tanti piccoli sbruffoni ci sono grandi artisti. Uno di loro è Steve Piccolo, piccolo solo di nome: membro dei Lounge Lizards, il collettivo avant jazz di John Lurie e Arto Lindsay, poi geniale artista e autore di successi da top 10 come Self Control di Raf, si è sempre basato su un unico punto fermo: sperimentare. Oramai di casa a Milano – un’attrazione fatale nata dagli ’80 – Steve Piccolo sa il fatto suo tanto che le sue intuizioni futuribili sono ancora attualissime.

Come mai dalla New York della no wave ti sei innamorato dell’Italia? Tutto è nato se non sbaglio nel 1981, per il festival Electra 1 dove suonavano anche Gaznevada e Magazzini Criminali…
Fin dalla metà degli anni ’70, quando ho iniziato a viaggiare, ho capito che mi sentivo meglio in Europa che negli Stati Uniti. Sono rimasto a New York fino alla fine degli anni ’80 soprattutto perché in città c’era grande energia creativa, spinta in larga misura dalla presenza di stranieri. Durante quel viaggio a Bologna per Electra ho avuto un’esperienza molto strana. Era la prima volta in città per tutti noi, ma passeggiando per il centro ho avuto la sensazione di conoscere le strade come se ci vivessi da anni. Molto tempo dopo mi sono reso conto che forse era una sensazione dovuta alla struttura molto razionale della storica città romana. Ma in quel momento sembrava strano. Mio nonno veniva dall’Italia, quindi conoscevo già la cultura, in un certo senso.

Quando ho cominciato ad ascoltare roba sperimentale col tuo nome, mi sono reso conto che il testo del primo 45 giri che ho comprato, a 9 anni, è tuo: Self Control di Raf. Mi folgorò: è scuro e parla di eccessi, si sente il tuo tocco. Tutto il primo album di Raf ha la tua firma. Come sei arrivato a collaborare con lui? Eravate amici?
Self Control è stato scritto a Firenze, in un periodo in cui quella città, come a Bologna, si faceva ricerca musicale piuttosto innovativa. Di recente il simpaticissimo ex impresario di club Bruno Casini ha pubblicato un bel libro su quella scena, New Wave a Firenze. Ho conosciuto Raf tramite Adriano Primadei, che suonava la chitarra nel mio gruppo. Quando sono arrivato a Firenze per la prima volta volevo creare una band, quindi ho fatto delle audizioni. Dopo aver ascoltato un sacco di shredding ad alto volume, ho scelto Adriano perché si è presentato senza portare uno strumento. È stata una mossa sfacciata e ha portato a una lunga collaborazione e amicizia.

Raf aveva una band punk e la progressione di accordi di Self Control era in una delle loro canzoni. È semplice, ma originale. Ha avuto la possibilità di portare un demo a Giancarlo Bigazzi, produttore e cantautore davvero importante che non ha ovviamente bisogno di presentazioni. Giancarlo sapeva che era un buon pezzo, ma era un perfezionista incredibile. Ho imparato molto da lui. Ci abbiamo lavorato ogni giorno, forse per un anno, sicuramente molti mesi. Sono stato in grado di inserire il lato oscuro nei testi nelle canzoni in Italia perché la maggior parte delle persone non conosceva l’inglese. Mi sentivo un agente sovversivo, nascondevo strani messaggi in melodie pop dal suono altrimenti molto innocente. La maggior parte dei produttori voleva solo copiare i grandi successi dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Una volta un gruppo di ragazzi della casa discografica e altri produttori famosi mi ha chiesto di scrivere i testi per loro. Avevano solo una condizione: potevo inserire la parola “vergine” in qualche modo? Ho detto certo, perché no? A chi importa essere originali? Puoi indovinare che anno era

Com’era l’industria musicale?
Era un periodo di internazionalizzazione incontrollata, l’interpretazione locale di stili angloamericani non poteva essere fermata, ma doveva essere solo in inglese. Anche perché l’inglese era un mercato enorme, mentre l’italiano era relativamente piccolo. Allora l’industria vedeva l’Italia come un luogo dove trovare canzoni melodiche e orecchiabili, che poi venivano tradotte in inglese. Potrebbe essere stato perché si ricordavano ancora che alcuni dei più grandi successi di Elvis erano originariamente canzoni italiane. Bigazzi aveva centrato il jackpot vendendo Ti amo a Laura Branigan, tramite il suo produttore Jack White, che era tedesco. Questo ha aperto la strada a Self Control. È stato pubblicato in due versioni, entrambe in inglese, e per un po’ sono state entrambe nella top ten nella maggior parte dei Paesi europei. Non credo che sia mai successo di nuovo, né prima né dopo.

Sembrava che fossimo parte di qualcosa che si stava aprendo, quasi a dispetto della struttura di potere dell’industria musicale. Quel periodo fu di breve durata perché la logica dell’industria – che si stava già consolidando in sempre meno major – significava che vendere Springsteen a tutti sulla Terra fosse economicamente più allettante che nutrire molti piccoli Springsteen locali. Gli italiani avrebbero dovuto fare dischi in lingua madre per il loro mercato “etnico” limitato. Quindi in un certo senso Self Control ha infranto le regole.

Non molti sanno che hai collaborato anche con Umberto Tozzi, per la versione inglese di Hurrah!. Un brano difficile, che non avrà molto successo. Come ti sei approcciato a quel brano? Come mai secondo te non ha sbancato come Self Control?
Semplicemente non era una canzone così bella, immagino. Ed io ero bloccato con il titolo: Bigazzi e Tozzi non volevano cambiarlo. Suona stranamente sdolcinato e antiquato in inglese, motivo per cui l’ho trasformato in una sorta di storia di spionaggio, raccontata da un vecchio agente doppiogiochista stanco, con un elmo in testa, un Michael Caine in un dramma storico di spionaggio. L’ho riascoltata proprio adesso, per la prima volta da decenni: i miei testi non erano così male e Tozzi ha fatto un ottimo lavoro con la voce in inglese, sa cantare davvero. Ma l’intera canzone era troppo allegra e non ti fa venir voglia di ballare. Self Control funziona come un pezzo disco, il che è stato un grande vantaggio. Uscì per la prima volta come “disco mix” da una compagnia chiamata Carrere. L’avevamo già registrata, Bigazzi ha investito un sacco dei suoi soldi, ottenendo tutti i migliori turnisti, arrangiatori e coristi, ma nessuna delle case discografiche italiane voleva la canzone… dicevano che non avrebbe venduto. Ah ah!

Passi dalla performance alla musica sperimentale fino al pop e all’Italo disco, campo che vede spesso la tua firma. Penso a Marinero cantata da Milva, che avrà un certo successo e che parlava di un uomo che fuggiva dalla legge e dalla normalizzazione sociale salpando per i mari. Un inno al pirataggio, insomma. Ecco, la tua conversione all’Italo disco ha un po’ questo significato? Sei un pirata del pop?
È buffo. Dopo Self Control ho ricevuto molte offerte per scrivere testi e fare arrangiamenti nel mondo pop. Hai ragione, provenivo da un background di musica jazz e contemporanea, ma all’improvviso questa canzone ha aperto molte porte e sono rimasto affascinato da come si creava la musica commerciale. Mi sentivo come una spia, dietro le linee nemiche in un certo senso. Ma puoi imparare molto, soprattutto su come mixare e arrangiare. È stato anche interessante vedere come lavoravano le persone in Italia. Produttori come Bigazzi erano incredibilmente impegnati in quello che facevano, e c’era tutto quest’aspetto pratico, una sorta di versatilità creativa che stava svanendo nell’industria della musica pop americana.

Veniamo a un’altra collaborazione abbastanza curiosa, quella con i Righeira, per i quali scrivi She Was My Love, un brano atipico contenuto in Bambini Forever, che a differenza di altri pezzi del duo è quasi una perfetta canzone new wave. Quanto c’è di tuo dentro?
Quella canzone è un altro tragico film francese in bianco e nero: “sapeva troppo, perché suo padre era un uomo loquace”. Il fischio e il motivo della campana è così morriconiano. Quei ragazzi erano fantastici, si sono divertiti ed è stato divertente lavorare con loro.

Come mai hai smesso con il mainstream? Forse non è più quello di una volta, aperto a esperimenti?
Forse l’ho semplicemente superato. Giocavo con la musica pop, ma stavo ancora lavorando su musica impro e sound art. Negli anni ’90 improvvisamente divenne una fonte di reddito migliore rispetto allo scriver canzoni. Quello che prima era un hobby è diventato un lavoro e viceversa.

A un certo punto negli anni ’90 ti sei trasferito a Milano e hai ripreso un po’ il filo della musica alternativa con gente tipo Massimo Volume e Gak Sato. Perché questa scelta? Hai trovato l’America in Italia? E curioso che entrambi i tuoi album sono incisi per etichette italiane, Materiali Sonori e Underground Records.
Mi sono trasferito a Milano e ho preso residenza nel 1988. Gli anni ’80 per quanto mi riguarda sono stati orientati sul nomadismo, non risiedevo da nessuna parte, viaggiavo quasi costantemente. Oggi sarebbe impossibile, ci vuole un indirizzo legale, un permesso di soggiorno, almeno per rimanere in Europa. Ma a quei tempi un passaporto americano aiutava davvero: anche se la polizia ti fermava, di solito ti augurava una bella vacanza e nient’altro. Per entrare in Inghilterra, i tizi della dogana chiedevano quanti soldi avevi e dovevi mostrarglieli. Una volta sul traghetto dalla Francia all’Inghilterra non avevo più contanti e l’ufficiale doganale non voleva farmi entrare. Ho chiesto di vedere un supervisore o un superiore o qualcosa del genere, e loro hanno obbedito. Il capo della dogana mi ha guardato e ha detto: «Ehi, sei uno dei Lounge Lizards! Benvenuto in Inghilterra». Mi ha fatto sentire una vera rock star.

Come ti sembrava Milano?
Era ok per molte ragioni. Negli anni ’80 il mondo della musica e quello dell’arte erano ancora divisi, in un certo senso, tra Milano e Roma. Ma col passare del tempo il baricentro si è spostato verso Milano. Oggi tali considerazioni geografiche sono diventate relativamente prive di significato, ma a quei tempi trovarsi in una scena vitale era ancora importante. Milano ha tre aeroporti e la sua vicinanza al resto dell’Europa è un grande vantaggio. Per anni, durante il periodo della Lega, come tutti mi sono lamentato molto della città. Ma negli ultimi anni è migliorata, fatta eccezione per la mancanza di locali seri per la musica, ma non è solo una questione milanese. Sono contento di aver resistito, in ogni caso.

La produzione con i Massimo Volume era a metà tra il mondo della musica popolare e quello della sperimentazione. Penso che l’album Da qui suoni abbastanza bene ancor oggi. È stata anche un’occasione per sfruttare i trick di studio che avevo imparato lavorando con più produttori commerciali, perché lo studio era davvero carino (l’Esagono a Rubiera) e l’ingegnere era brillante, un ragazzo molto creativo di nome Kaba Cavazzuti, e con molta pazienza provavamo tutti i tipi di cose folli, e spesso le suggeriva lui stesso. Si merita davvero il credito di co-produttore in quell’album. Lavoro costantemente con Gak Sato da oltre due decenni. È un buon motivo per restare a Milano. Dà un contributo eccezionale a ogni progetto.

Domestic Exile, il tuo album del 1982 con Evan Lurie e Gerry Lindahl, è stato ristampato nel febbraio di quest’anno, sotto pandemia. Gli artisti sono costretti all’isolamento in tutti i settori, alcuni si sono mossi in streaming, con i relativi pro e contro. E allora mi è tornata in mente un’intervista del 2009 dove parlavi del problema dell’ubiquità della musica anche in termini di inquinamento. È stata una coincidenza o dietro questa ristampa c’è il desiderio di aggiornare quell’esperienza?
La condizione attuale sembra solo esacerbare problematiche che erano già in corso, polarizzazioni e iniquità che si sono solo ampliate da quando ho scritto le canzoni di Domestic Exile 40 anni fa, che parlavano di affrontare il cambiamento, la tecnologia, l’edonismo, gli stereotipi. Ormai tutti hanno parlato e scritto dell’ubiquità della musica e dei rumori, e ovviamente delle immagini. Dal 2009, penso che si vedano molte meno persone che indossano cuffie e ascoltano musica. I buoni ristoranti non hanno musica adesso. Le suonerie sono diventate molto meno invasive. Ma queste sono solo impressioni passeggere.

Lo sfogo incanalato nella musica sui balconi durante il primo lockdown è stato inquietante. Come detenuti in prigione che picchiano sui loro bicchieri di latta in segno di protesta. Era solo triste. Ma forse rifletteva un certo potere persistente che ha la musica nell’alleviare l’angoscia umana.

L’uscita di Domestic Exile è stata del tutto casuale, nel senso che la preparazione per la ristampa è iniziata quasi due anni fa. Il titolo originariamente aveva lo stesso significato del pezzo dei Gang of Four At Home He’s a Tourist. Che viceversa potrebbe significare: viaggiando nel mondo si sente a casa. Va anche di pari passo con il fatto che ho vissuto la maggior parte della mia vita all’estero, lontano dagli Stati Uniti. È come essere in vacanza tutto il tempo. Trascorro molto tempo a Venezia, che è la location massima per questa sensazione every day totally new.

Perché hai lasciato i Lounge Lizards?
Penso che tutti avessero voglia di fare i propri progetti e di non essere legati a un programma regolare di concerti. John si stava anche convincendo sempre più del suo ruolo di leader e frontman, così il gruppo è diventato una collaborazione, un lavoro. Arto ha sempre avuto i suoi altri progetti e da allora ha avuto una grande carriera, come artista e produttore: la sua performance un anno fa all’Hangar Bicocca qui a Milano è stata grandiosa. È in grado di trasmettere un senso di musicalità molto contagioso con mezzi minimi.

Un altro aspetto del tuo lavoro è relativo alla poesia sonora. Hai fondato Erratum, che è uno dei principali punti di riferimento del genere e un notevole archivio online. Com’è nato il progetto?
Sin dai tempi del college ero affascinato da qualsiasi cosa riguardasse il Fluxus, qualsiasi tipo di poesia sonora o poesia visiva. A New York c’erano tanti grandi artisti che lavoravano in quest’ambito e luoghi fantastici dove potevano fare cose. Per non parlare dei primi giorni della musica elettronica e informatica, in cui sono stato anche coinvolto direttamente. Ho fondato Erratum a Milano con Sergio Armaroli come sala d’ascolto e archivio. La mia prima idea come curatore è stata quella di ricollegarmi alla scena sopra descritta, facendo exhibition e performance su grandi personaggi del passato, molti dei quali poco conosciuti in Italia. Siamo stati fortunati, perché anche nel caso di artisti che non sono più in vita, abbiamo avuto ottime collaborazioni con i loro eredi, che ci hanno concesso l’accesso a preziosi materiali d’archivio. Erratum è simile a molte delle cose che abbiamo fatto a New York anni fa, nel senso che è autogestito, autofinanziato attraverso la vendita di pubblicazioni e registrazioni che abbiamo prodotto. Tutti gli eventi sono gratuiti.

La sala è piccolissima, perfetta per spettacoli intimi, assolutamente inadatta per il distanziamento sociale. Il nostro ultimo evento lì, verso la fine del primo lockdown, era una retrospettiva: il pubblico doveva stare fuori nel cortile e io ho mostrato loro tutte le cose che abbiamo fatto durante due anni di programmazione, attraverso la finestra dello spazio. Un po’ deprimente! Molto del materiale che abbiamo prodotto può essere ascoltato/visto online, ma sarebbe fantastico poter riprendere davvero le nostre attività. Ho una lunga lista di artisti che vorrei presentare nello spazio. Ti fa capire quanto sia importante il pubblico per gli artisti, anche se è solo un pubblico di quattro o cinque persone, la loro presenza in qualche modo vitalizza e persino convalida ciò stiamo facendo.

Tra le tue ultime collaborazioni c’è anche quella con Elliott Sharp. Cosa ci racconti di questa esperienza?
Lavoro con Elliott sporadicamente da quando eravamo studenti insieme al Bard College, quindi collaboriamo da più di 40 anni. Con Erratum abbiamo prodotto un doppio CD e un concerto di una partitura visiva creata da Elliott, chiamato Syzygy, che ritengo sia uno dei migliori progetti che abbiamo realizzato. C’è un altro CD in lavorazione, registrato prima del Covid, un trio di Elliott, Steve e Sergio, ma non siamo ancora stati in grado di mixarlo: avremmo bisogno di quelle speciali tute spaziali anti-virus, credo.

Che cosa ti riserva il futuro? Soprattutto: Steve Piccolo lo vede un futuro?
Ovviamente c’è un futuro, semplicemente non sappiamo come sarà. Spero che non torni alla normalità, la normalità ha creato molti problemi ed è stata lei che ci ha messo in questo pasticcio. La cosa strana è che queste malattie zoonotiche si stanno diffondendo e minacciando da molti decenni, ma nessuno sembrava accorgersene o volerlo notare. Fatta eccezione ovviamente per gli artisti: se guardi alla storia del cinema o della letteratura nell’ultimo secolo, ci sono state infinite visioni distopiche, spesso gravitanti attorno a catastrofi virali. Basta guardare le pagine di Wikipedia sui film sulle epidemie virali o sulle pandemie nella letteratura distopica.

Da parte mia invece c’è un altro project space a Milano, chiamato Rabotaroom, aperto insieme alla mia compagna di vita, la curatrice Oxana Maleeva. C’è una bella mostra di Marc Kalinka in questo momento, ma nessuno può vederla. Sono un po’ diffidente nei confronti dell’approccio alla galleria online, mi piace che l’arte sul web sia arte creata per e con il web, se ha senso. Ovviamente qualunque cosa accada, dovremo adattarci. La poesia e il suono lo fanno bene in condizioni difficili, mentre l’arte fisica soffre le distanze. Più va avanti, più mi curo della stampa e delle pubblicazioni web, che possono circolare e non perdono tanto del loro impatto espressivo a causa della mancanza di una sede fisica. In un certo senso, mi fa pensare a periodi di tirannia politica, come la Russia prima e durante la perestrojka, momenti in cui l’arte doveva diventare clandestina, con la circolazione di fanzine e cassette pirata. Guarda questo video: Hakim Bey che legge Pirate Utopias, accompagnato da un certo Steve Piccolo. Ops, quella parola, pirata, è tornata.

Ha collaborato Lara Limongelli (RAM RadioArteMobile).

Iscriviti