Rolling Stone Italia

Steve Wynn, come guidare una band favolosamente disfunzionale e uscirne vivo

Il musicista racconta la sua vita nei Dream Syndicate, uno dei grandi gruppi underground anni ’80. Lo fa in un’autobiografia, nell’album ‘Make It Right’ e in questa intervista. Scelte sbagliate, mancanza di comunicazione, troppo whisky. E un bellissimo secondo tempo in cui finalmente è diventato se stesso

Foto: Guy Kokken

Tutte le band disfunzionali si somigliano, ma ogni band è disfunzionale a modo suo. I Dream Syndicate ad esempio non si parlavano. Le cose succedevano e loro non comunicavano. I piccoli rancori s’ingigantivano, le fratture s’allargavano, nessuno si chiedeva dov’erano diretti. È il rimpianto di Steve Wynn, che del gruppo è sempre stato il leader e che per la prima volta in vita sua si guarda indietro nell’autobiografia I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True, per ora in inglese e dal gennaio 2025 in italiano per Jimenez Edizioni, e nell’album Make It Right. È anche la storia di uno che ha sfiorato il successo senza veramente inseguirlo e che in definitiva è felice d’essere quel che è: un artista di culto.

Nel caso vi chiediate chi erano mai questi Dream Syndicate, seppiate che sono stati e sono ancora un gruppo per pochi, nato e progettato per essere tale, eroi underground per fattezze e dna. Per quei pochi, però, sono stati una delle grandi band anni ’80, non meno dei R.E.M., non meno dei Sonic Youth, non meno degli U2. E che, ma questo lo dico io, hanno pubblicato uno dei grandi dischi dal vivo di quel decennio, Live at Raji’s.

Sono emersi dal cosiddetto Paisley Underground, la scena californiana di Bangs (poi Bangles), Rain Parade, Long Ryders e compagnia schitarrante, le band insomma che per un certo periodo hanno rivitalizzato il vecchio rock psichedelico con un po’ d’irruenza punk e in certi casi un tocco noir, tra Jim Thompson e Lou Reed. Non era ancora rock alternativo, non era più classic rock. Americani controcorrente, lontani dai trend dell’epoca, sono stati amati in Europa, Italia inclusa, hanno cambiato più volte formazione, si sono schiantati quando la storia li ha irrimediabilmente superati. Wynn l’ha capito ascoltando Daydream Nation dei Sonic Youth: lo spirito del tempo stava altrove, gli altri correvano incontro al futuro, a lui pareva d’essere rimasto fermo.

Negli anni ’90 Wynn ha intrapreso la carriera solista per poi rimettere assieme il gruppo negli anni ’10 con meno alcol e più saggezza. Quest’ultima parte della storia però il libro non la racconta, sarà per il prossimo volume. In quanto al disco, si apre con un pezzo titolato Santa Monica, che è il posto da cui è partito tutto e che ha plasmato la musica e la poetica di Wynn, e si chiude con Roosevelt Avenue, che è una strada di New York, la città dove il musicista vive oggi. In mezzo ci sono ricordi, rimpianti, amori, le solite cose delle canzoni con in più un pizzico di prospettiva sul passato data dall’età. È lo Steve Wynn di sempre e quindi è roba buona.

Quando s’accende la videocamera del portatile lo trovo sorridente e pronto a rispondere a qualsiasi domanda. È uscito da un pezzo dalla Babilonia in minore dei primi Dream Syndicate, fa la musica che vuole e come vuole. Ha 64 anni, mi pare invecchiato e felice. Mi mostra la tazza che ha sulla scrivania con su la bandiera della California. «Dopo trent’anni a New York» dice «mi porto ancora dentro Los Angeles. È lì che son nato e cresciuto. È lì che mi sono formato e ho messo in piedi la mia prima band. Mi piace pensare che col senno di poi oggi farei le cose diversamente. Ma è probabile che farei comunque degli errori, solo diversi».

Libro e disco sono usciti lo stesso giorno. Fino a che punto il primo ha influenzato il secondo?
Il disco ha preso dal libro la dimensione del ricordo e della riflessione su cosa avrei potuto fare di diverso, che è normale avendo passato qualcosa come cinque anni a scrivere della mia vita. Ma in fondo non pensiamo tutti prima o poi al passato? Non abbiamo tutti storie da ricordare, anche se magari non ci scriviamo su 250 pagine? Fatto sta che senza neanche rendermene conto, negli ultimi anni ho composto canzoni legate al libro, canzoni che parlano del passato stando nel presente. Quando me ne sono accorto ho deciso che dovevano uscire assieme, perché il disco mette in musica una storia simile a quella del libro.

Il nuovo album di Steve Wynn ‘Make It Right’ e il memoir ‘I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True’

In realtà il disco è un mix di pezzi nuovi e meno nuovi. Benedikt’s Blues che ora s’intitola Make It Right, Halfway There, Making Good on My Promises e Simpler Than the Rain erano nella colonna sonora di una serie norvegese chiamata Dag. Cherry Avenue e Then Again sono invece pezzi già usciti degli Psychic Temple col feat dei Dream Syndicate.
Beccato, è così e non tutti l’hanno notato. Ora ti dico la verità. La mia idea era assemblare un piccolo disco di rarità e venderlo ai concerti. Alla Fire Records però l’album è piaciuto e quindi hanno voluto pubblicarlo loro. Solo che non volevano presentarlo come una compilation di vecchi pezzi, perciò mi han detto: «Dai Steve, stai al gioco, non riveliamo la fonte delle canzoni». Così abbiamo fatto, senza scrivere granché nemmeno nei crediti. Poi alcuni di questi pezzi sono stati remixati o rimasterizzati oppure abbiamo aggiunto qualcosa.

E c’è What Were You Expecting che sembra una versione ispirata al Leonard Cohen anni ’80 del testo di Apropos of Nothing dei Dream Syndicate. Ci sono delle similitudini nel testo, no?
Sì, e mi piace la tua definizione, ma la verità è che What Were You Expecting è venuta prima di Apropos of Nothing. L’ho scritta per una serie norvegese, una black comedy chiamata Exit. E Roosevelt Avenue è stata scritta con Emil Nikolaisen dei Serena-Maneesh e registrata in Norvegia. Adesso che mi ci fai pensare, credo che il disco sia legato per una buona metà alla Norvegia e il loro amore per il dark forse spiega perché è in parte cupo. La Norvegia è anche il primo Paese ad avere avuto Leonard Cohen al primo posto in classifica. Lì andava forte quanto Michael Jackson e Bruce Springsteen. Lì Cohen era mainstream.

In Santa Monica canti della saggezza acquisita col tempo. Cosa diresti al giovane Steve Wynn?
Guarda, mi riderebbe in faccia, non starebbe ad ascoltare un vecchio. Gli direi però di rilassarsi, di riflettere, di prendere coscienza della gente che lo circonda.

Hai rimpianti?
Forse rimpianto è una parola grossa, però scrivendo il libro ho capito che avrei dovuto prendermi del tempo per parlare con gli altri e capire il loro punto di vista. Pensa a Karl Precoda e a Kendra Smith. Quando hanno lasciato i Dream Syndicate non ci siamo stati a pensare troppo: «È finita, è il momento di fare altro, addio». E invece avremmo dovuto ragionarci su, in fondo sono due persone importanti nella mia vita. Kendra è ancora un’amica anche se non ci vediamo spesso, ma con Karl non parlo da 20 o 30 anni.

Sei ancora in tempo, no? Tu e Karl avevate sì e no 25 anni quando vi siete scazzati, com’è possibile che non vi possiate riconciliare dopo tanto tempo?
Senza entrare troppo nei dettagli, posso dirti che Karl ha scelto di tagliare i ponti col passato. Non vuole avere niente a che fare coi Dream Syndicate e con me. Buon per lui, ora insegna alla Virginia Tech, ha una rispettata vita accademica e considera quella parte della sua vita passata, andata, morta e nulla gli farà cambiare idea. E quindi tornando indietro, direi a me stesso: Steve, telefonagli, fatevi assieme una birra, cercate di capire l’uno il punto di vista dell’altro.

Wynn con la prima formazione dei Dream Syndicate con (dietro, da sinistra) Dennis Duck, Kendra Smith e Karl Precoda. Foto: Lisa Haun/Michael Ochs Archives/Getty Images

I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True è anche la storia d’un gruppo in cui niente è andato come pianificato. Forse perché un piano non c’era. Avviene tutto per caso nella vostra storia. Vi buttate nelle cose. Non c’è modo di raddrizzarle. La vita succede e basta.
Quant’è vera questa cosa e me ne sono accorto solo scrivendo il libro. E sai cosa? Le cose accadevano velocemente. Ti travolgevano. Come quando dopo Days of Wine and Roses ci hanno contattato le grosse etichette: faremo qualunque cosa, dicevano, vi copriremo di soldi, vi daremo un inedito di Dylan, vi faremo lavorare col fonico di Springsteen… E insomma, io fino a poco tempo prima lavoravo in un negozio di dischi, è stata tutta una follia, non c’era alcuna prospettiva su quel che accadeva. Avrei dovuto da una parte godermela di più e dall’altra pensarci razionalmente, ma quando hai 23 anni vuoi andare avanti a tutta velocità, far cose che non hai mai fatto, sperimentare, fare esperienze. Anche perché sai che non durerà per sempre.

Era questo che ti motivava?
Non m’interessava vendere pacchi di dischi, ma continuare a far musica. Non volevo tornare ad essere il commesso del negozio di dischi, per quanto quel lavoro mi piacesse. Pensare che avrei continuato a fare questo mestiere a 64 anni, com’è effettivamente successo, era semplicemente inimmaginabile. E quindi l’imperativo era andare avanti, sempre avanti, comunque avanti.

È anche la storia d’un musicista che ha solo sfiorato il successo, ma che in definitiva è contento dello status di artista di culto.
Sicuro. E se ci pensi, eravamo fatti per restare una band di culto. Ne parlavo di recente con l’amica Vicki Peterson delle Bangles. Viviamo entrambi a New York e siamo più amici adesso di un tempo. Quando parliamo di quell’epoca mi dice che le Bangles volevano arrivare al numero uno, era il loro scopo: «Volevamo essere i Beatles». Noi invece siamo nati per amore dei Velvet Underground, degli Stooges, dei Gun Club, tutte band di culto che all’epoca non ce l’hanno fatta. E guarda caso, siamo diventati pure noi una band di culto. Era scritto. A certe persone piacevamo proprio per questo motivo, eravamo la loro band. E quindi non c’era amarezza se in classifica ci andava John Cougar Mellencamp e noi no. E comunque se ci ripenso mi dico: ehi, siamo andati in tour coi R.E.M. e con gli U2, siamo venuti in Italia tipo nel 1986 e siamo stati accolti come la next big thing. Eccitante, no?

Eravate una band disfunzionale.
Sì e ora non lo siamo più. La cosa bella di quando abbiamo riformato i Dream Syndicate nel 2012 è che ora io, Dennis, Mark, Jason e Chris Cacavas sappiamo bene quel che facciamo, non cerchiamo di andare avanti a qualunque costo, ma cerchiamo di fare i dischi che vogliamo, divertirci, star bene assieme. All’epoca sì che eravamo disfunzionali e infatti invidio i miei amici dei R.E.M. che sono rimasti gli stessi quattro per 14, 15 anni o quanto è, fino all’aneurisma di Bill Berry. Hanno mantenuto le radici a Athens per un bel pezzo e hanno inciso molti album per una sola etichetta. Noi nell’arco di quattro dischi di etichette ne abbiamo avute quattro e pure di line-up ne abbiamo cambiate quattro con quattro manager diversi e quattro produttori. È stata una follia, una turbolenza dietro l’altra, un cambiamento dopo l’altro. Forse è per via di quella sensazione lì, quella di essere noi contro il mondo. Ma comunque, se non fosse successo tutto questo oggi non sarei qui. Non voglio sembrare troppo zen, ma la vita ti porta dove sei.

A proposito di R.E.M., hai mai discusso col tuo amico Peter Buck dei pro e dei contro di riformare la band? Tu l’hai fatto, loro no.
Sì, ne parliamo, ma solo dopo qualche drink (ride). Ammiro la fermezza con cui hanno rifiutato di rimettersi assieme e il fatto che abbiano resistito a tante pressioni. Ma sai, loro quattro si piacevano davvero, te lo assicuro, li conosco bene. La differenza coi Dream Syndicate è che loro han fatto tutto quel che dovevano fare: grandi dischi, successo, tour incredibili, esperienze di vita, il passaggio dagli scantinati puzzolenti agli stadi. Non c’era alcuna ragione per rimettersi assieme. Coi Dream Syndicate invece c’era la sensazione che ci fosse ancora del lavoro da fare. Ci siamo sciolti perché era il momento giusto per farlo, ma ho sempre pensato che meritavamo un finale migliore. Non in termini di successo, ma dal punto di vista creativo. E ora possiamo dire: ok, ci sono quei quattro dischi, ma anche questi altri quattro che abbiamo fatto dopo la reunion e che, onestamente, mi piacciono quanto se non di più dei primi.

Wynn e i Dream Syndicate post reunion. Dietro, da sinistra, Mark Walton, Jason Victor, Dennis Duck. Foto: Chris Sikich

Nel libro ti descrivi da giovanissimo come un solitario perso nei suoi pensieri. È questa una delle cose che t’ha spinto a rifugiarti nella musica? È stato anche un modo di trovare una famiglia alternativa, per te che eri figlio unico?
È così. Ero figlio unico di una madre single. Eravamo noi due, lei lavorava e io passavo un sacco di tempo da solo. Niente fratelli, né sorelle e nemmeno parenti. Ero solo e mi piaceva perché mi dava modo di esercitare la creatività. Ma è vero che la mia famiglia sono diventati gli amici, la musica, la chitarra, i dischi. È così che ho cominciato a scrivere canzoni e a far musica. Per creare il mio universo. Per dire agli altri: ehi, guardatemi, sono il creatore del mio mondo. Volevo sentirmi Dio per i tre minuti di una canzone o per i 45 minuti di un album. Ecco il mio universo, l’ho creato io. C’è dell’ego? Ovvio, ma è per questo che esiste l’arte, per creare qualcosa che prima non c’era. E chissà, se avessi avuto dieci fratelli e sette sorelle sarebbe andata diversamente, sai, per il modo in cui scrivo.

E cioè?
Tendo a scrivere quando sono da solo. In tour, ad esempio, non scrivo mai e questo perché sono circondato dalla gente e faccio esperienze e non sento il bisogno di creare un mondo perché ce n’è già uno e lo sto vivendo. Scrivo canzoni quando sono le 3 di notte, mi sveglio, c’è un silenzio irreale, sono solo e comincio a pensare.

E poi c’è la dimensione del palco: esibirti era anche un modo per sentirti qualcosa di più di un nerd amante della musica, no? Ti senti, ti sentivi diverso sul palco? Una versione più potente di te?
Era così un tempo, ora molto meno. Credo sia una cosa che provano in tanti. Quando passi dall’essere nessuno a uno che la gente viene a vedere cominci a soffrire della sindrome dell’impostore. Ti dici: se solo sapessero come sono veramente, non verrebbero a vedermi suonare. Ero giovane, non ero mai stato in un gruppo, figurati esserne il leader, non sapevo come gestire la situazione e allora ho cominciato a bere di brutto e a immaginarmi d’essere qualcun altro. Anzi, nella mia testa ero proprio un altro. Mi dicevo: se ci sono 400 persone che vengono a vedermi, non posso mostrarmi come sono veramente, devo fare il Jim Morrison o l’Axl Rose, uno di quei rocker fuori controllo. Ho trovato così il coraggio di esibirmi. Comportandomi in questa maniera alla fine però ho sabotato il gruppo.

Ora è diverso, dicevi.
Ora salire sul palco mi viene naturale. Cantare, parlare col pubblico mi piace, mi sento a mio agio. Non provo più il desiderio di diventare qualcun altro. Ho lavorato duramente per diventare me stesso.

Quant’è durata la tua piccola Babilonia rock?
Questo non è uno di quei libri col rocker alcolizzato che alla fine trova Dio o gli alcolisti anonimi e si ripulisce. Non è successo nel mio caso e a dirla tutta non succede mai con nessuno. Diciamo che col tempo ho imparato la moderazione. Non bevo più due bottiglie di whisky a sera, ora va bene un cocktail a fine serata e stop.

So che porterai in giro un one man show legato al libro con musica e chiacchiere. Sarà una cosa tipo Springsteen On Broadway?
Non sarà così drammatico. Racconterò storie e suonerò pezzi del periodo del libro, magari leggerò qualcosa. In Italia, che tra l’altro è il primo Paese in cui il mio libro verrà tradotto, verrò ad aprile.

Ora che non hai più 30 o 40 anni andare in tour è più dura?
In realtà lo apprezzo oggi più che mai. All’epoca mi divertivo, ma volevo solo ubriacarmi. Immagino fosse divertente. Oggi invece mi godo tutto quanto: il concerto, le persone, le città, i pasti, persino i viaggi tra un posto e l’altro. La strada è la mia casa, è la mia vita. Da qui a giugno farò un centinaio di concerti tra l’Europa e gli Stati Uniti. Non vedo l’ora di scoprire dove mi porterà questa nuova storia.

Iscriviti