Tra Space Oddity e Interstellar, Steven Wilson, novello Major Tom, si lancia in un viaggio esplorativo ai confini dell’universo. Viaggio che in realtà allude a una sorta di raffronto tra lo spazio cosmico e quello interiore, il tutto espresso dalle due lunghe suite che vanno a comporre l’album The Overview che uscirà venerdì e col quale si lascia alle spalle l’art pop degli ultimi lavori per tornare a interfacciarsi con il progressive rock di marca Porcupine Tree.
In parte, è solo apparenza. Pur non mancando momenti che faranno sobbalzare dalla sedia i vecchi fan, The Overview pare la summa di un modo diverso di intendere la suite rock, che si allontana dagli stilemi dei classiconi e ingloba elementi di modernità (elettronica, ambient, pop) per offrire un’esperienza realmente progressive, non solo prog. Il disco è inoltre concepito anche come un’epopea cinematografica che promette un’immersione nelle atmosfere cosmiche dell’ottavo lavoro solista del musicista inglese. Il tutto in attesa del prossimo tour, che toccherà l’Italia il 7 e l’8 giugno.
Ricordi il momento nel quale hai avuto la visione di quello che sarebbe stato il nuovo album?
Riesco a ricordare più o meno l’esatto frangente. Per me è sempre molto importante che ogni disco sia diverso da qualsiasi altro abbia fatto prima. Sono sempre alla ricerca di una sfida, qualcosa che sorprenda gli ascoltatori, si confronti con le loro aspettative. E dopo l’ultimo The Harmony Codex non avevo davvero idea di cosa potesse essere. Avevo pensato a una sorta di collaborazione con un artista visivo, un regista, per un’installazione o una mostra di qualche tipo. Ho avuto alcuni incontri con persone che conoscevo e che lavoravano in quei campi. Uno di questi è stato con un ragazzo di nome Alexander Milas che gestisce una società chiamata Space Rocks dedita a unire il mondo dell’astronomia a quello della musica. Ci siamo incontrati un paio di volte a pranzo e a un certo punto, durante una discussione, mi ha chiesto se conoscevo una cosa chiamata Overview Effect.
E tu?
Non ne sapevo nulla. Alexander mi ha spiegato che quando gli astronauti vanno nello spazio per la prima volta e si trovano ad ammirare la Terra da quella grande distanza capiscono quanto sia fragile e bella, ma in definitiva insignificante in relazione all’intero universo. Quindi, per estensione, quanto siano insignificanti gli esseri umani. Alcuni astronauti ne ricavano una sensazione positiva, altri negativa, penso a seconda del tipo di personalità, o di convinzione religiosa. Se sei religioso, puoi vedere in quell’incredibile panorama tutta la potenza di Dio. Se non lo sei, viceversa, puoi accorgerti di quanto siamo particelle infinitesimali nel cosmo. L’ho trovato molto interessante e quasi subito ho pensato: devo realizzare un album, un disco diverso dagli altri. Non avrebbe dovuto contenere canzoni separate, bensì due lunghi brani che mi permettessero di condurre l’ascoltatore in un viaggio che inizia sulla Terra e finisce dall’altra parte dell’universo.
I testi sono in gran parte tuoi, ma c’è anche un importante contributo, quello di Andy Partridge degli XTC. Come è nata questa collaborazione?
Le parole di Objects Meanwhile, una delle sezioni della prima facciata, sono state scritte da Andy. Il motivo che mi ha spinto a questo è semplice: lui è insuperabile quando si tratta di creare immagini quotidiane. È un brillante osservatore. Brillante nello scrivere testi basati sul piccolo mondo quotidiano. Avevo questo pezzo che doveva descrivere piccole soap opera: un marito che tradisce la moglie, un’infermiera che lavora in una casa di cura, un ragazzino che inizia a lavorare per la prima volta in un autosalone… Volevo che tutte queste storie intime fossero contrapposte con l’universo, con i fenomeni cosmici, con i buchi neri che implodono e le stelle che muoiono. Andy ha fatto un gran lavoro, insieme a Ray Davis dei Kinks è il migliore che ci sia quando si tratta di descrivere le vite di persone normali, ordinarie.
Fa tornare alla memoria canzoni come Eleanor Rigby. Universale, ma al contempo incredibilmente personale. Poi però c’è questo rispecchiarsi con la vastità di ciò che ci circonda.
Non si può ignorare quanto sia insignificante la specie umana, soprattutto quando inizi a esaminarla, a vedere i numeri. Voglio dire, il nostro pianeta è uno dei trilioni che si trovano nella galassia, e questa è una dei trilioni di galassie nell’universo. La Terra ha 4 miliardi di anni e noi siamo qui solo da cinque minuti, relativamente parlando. Non è nulla. Eppure, in qualche modo pensiamo a noi stessi come ai custodi, ai padroni assoluti del pianeta. È assurdo. La Terra è stata qui prima che arrivassimo, e presumibilmente continuerà ad essere qui per milioni di anni dopo che ci saremo auto-spazzati via. Volevo ricordare alle persone quanto siamo piccoli e insignificanti e come, in realtà, tutto ciò possa essere una cosa bellissima. Nel contesto dell’universo, la mia vita non significa nulla, quindi posso anche sfruttarla al meglio e godermi il viaggio. Penso che questo sia un messaggio importante.
All’inizio del disco c’è una voce che dice “Ti sei dimenticato di me?”.
È una sorta di entità che avverte l’ascoltatore, come se dicesse: hai dimenticato che c’è molto di più oltre a quello che trovi nel tuo telefono. Oppure: guardate in alto, smettete di fissare il vostro dispositivo digitale e iniziate a osservare il bellissimo pianeta su cui vivete, il cosmo che ci circonda. Avete il privilegio di continuare a vivere. E vi siete dimenticati di guardare in su, nel resto dell’universo.
È un alieno? Un’entità che vuole condurci sulla retta via?
Beh, dipende in cosa credi. Ho un caro amico che è sicuro che gli alieni ci visitino continuamente. Io non ho certezze di quello che credo, ma c’è una forte convinzione tra alcune persone che ci siano altre forme di vita là fuori che ci fanno visita da molti anni. Ma lo fanno mantenendo un profilo basso. Di certo non stanno rendendo ovvio il fatto che ci stanno visitando. Ci sono un sacco di teorie divertenti e interessanti in giro.
Il disco racconta una storia precisa?
C’è soprattutto un concetto, quello di cui abbiamo parlato finora, poi ci sono una serie di vicende individuali. L’album inizia con questa scena, un incontro alieno in una brughiera. La scena successiva, The Buddha of the Modern Age, descrive fondamentalmente tutte le cose che facciamo al pianeta per distruggerlo. Poi c’è la sezione con il testo di Andy, e da lì si va avanti in un viaggio nel quale sempre più la Terra si allontana. Ci sono varie scene e mi piace pensare a questo album come a un film. Un film con una storia singola che ne racchiude molte diverse, molte narrazioni che, a volte, si intrecciano l’una con l’altra e che poi tornano a fare capolino in vari punti.
Il film ci dirà di più?
Sì e no. È un’interpretazione diversa del testo. Ho commissionato al regista Miles Skarin di interpretare i testi. Mi sono messo lì e ho discusso con lui di cosa significhi per me. Ma devo dire che Miles ha fatto molto di più. Molto di quanto non abbia messo in campo io. Volevo scrivere dell’umanità e lui ha realizzato un film che è molto più rigoroso nella sua accuratezza scientifica, per quanto riguarda lo spazio e i fenomeni cosmici.
Prima del tour girerai vari cinema con la proiezione.
Sì, e poi il film entrerà a far parte del tour. La seconda metà dello spettacolo dal vivo consisterà nella performance dell’intero disco, dall’inizio alla fine. L’intero viaggio accompagnato dal film.
Immagino che i tuoi fan più legati al prog si aspetteranno da questo album un tuo ritorno in grande stile a quel genere. Con due suite sullo stile di Supper’s Ready, Close to the Edge, ecc. Forse in parte rimarranno delusi nello scoprire che c’è un modo diverso di concepire la suite rock. Forse più vicino a opere come The Ninth Wave di Kate Bush che ai classici citati.
Non mi interessa proporre musica nostalgica. Anche se questo non vuol dire che non l’abbia fatto in passato. Penso che The Raven That Refused to Sing, ad esempio, sia il mio omaggio definitivo al rock progressivo degli anni ’70. Ma dopo averlo inciso non ho mai più voluto ripetermi. È inutile. Questo ultimo album è per me un disco 100% Steven Wilson. E chi ha familiarità con il mio vocabolario musicale, lo riconoscerà come un passo naturale nella mia evoluzione.
Ma quale è la tua idea di progressive?
Credo ci sia una sorta di disconnessione cognitiva tra ciò che la gente pensa sia progressive e il significato effettivo della parola. E questo è da sempre un problema. La parola sottintende evoluzione, voglia di andare avanti, non guardarsi indietro. Sfortunatamente però, specie per molte persone, per molti fan più anziani, è arrivata a significare qualcosa che deve necessariamente suonare come se fosse stata incisa nel 1972. C’è quindi una contraddizione. Io credo che la caratteristica essenziale di quella che si potrebbe chiamare musica progressive è il suo non-iscriversi alla forma standard della canzone pop, per comunicare agli ascoltatori un senso di viaggio. Un senso di imprevedibilità in cui le immagini, le emozioni, possono fluire in piena libertà. È più vicina a un film, con la musica che può svilupparsi in modi più imprevedibili rispetto a quelli a cui, forse, si è abituati ascoltando solo musica pop e rock standard. E questo è vero sia per la suite di Kate Bush che per le classiche prog suite. L’unica cosa che hanno in comune è il loro senso del viaggio.
In una tua vecchia intervista citavi The Teacher Are Afraid of the Pupils di Morrissey come un grande esempio di prog anni ’90. Non molte persone avrebbero avuto il coraggio di dirlo.
Gran bel pezzo quello, ed è vero, nessuno lo descriverebbe come progressive, ma lo è, in pieno. Forse la differenza la fa la parola: è diverso chiamare qualcosa progressive e chiamare qualcosa prog. Già la semplificazione della parola sottintende una versione riduzionista dell’idea di progressive. Il prog, per molte persone, è qualcosa di molto nostalgico, per nulla “progressivo”. Io il progressive lo sento in Billie Eilish, lo sento in FKA Twigs, lo sento nei Radiohead, nei Mogwai. In tutti questi sento una sensibilità progressive.

Foto: Hajo Mueller
Negli ultimi anni sei diventato una specie di guru del remix, decine di album storici del rock sono passati attraverso le tue cure, rinascendo a nuova vita. Pensi che ciò abbia influenzato il tuo lavoro di musicista/compositore?
È difficile per me capire esattamente in che modo, ma penso di sì, inevitabilmente. Se passo un’intera settimana in studio a remixare un disco degli Who o dei Tears of Fears, e poi il giorno dopo torno in studio e inizio a scrivere un po’ di musica, la mia testa è ancora piena della roba che ho remixato. Non posso onestamente dire che quando stavo componendo The Overview fossi consapevole di qualsiasi influenza musicale. Dal cinema sì, assolutamente. Per il resto ho lasciato che tutti i diversi aspetti della mia personalità artistica si manifestassero. Alcuni di questi sono profondamente radicati nel mio io, altri, sicuramente, provengono dall’ascolto di altri dischi in cui mi sto immergendo in quel momento.
In certe parti di The Overview si sente, ad esempio, che stavi lavorando ai remix dei King Crimson.
Avevo la testa piena di King Crimson. Lo ammetto senza problemi, lo dico chiaramente. Sono sicuro che se c’è un sacco di Crimson nel mio disco è proprio per il motivo che ti dicevo. Ma attenzione, io remixato tante cose diverse, dal pop al rock, dall’indie al prog. Un po’ di tutto. Quindi immagino che anche il resto sia confluito, a livello più o meno inconscio, in The Overview.
Cosa hai provato avendo accesso alle tracce separate di album che hanno fatto la storia della musica? Cosa ti ha colpito di più?
Direi la loro perfetta imperfezione. Mi spiego. Mi viene in mente il suono della batteria in Who’s Next. Parti leggendarie di un disco leggendario. Ma la batteria non è registrata per niente bene. Oppure magari senti una voce isolata e hai l’impressione che non sia particolarmente intonata. Nei dischi che remixo mi accorgo di molte parti non sono suonate o cantate in modo così brillante, o non così a tempo. Ma, wow, che cosa magica accade quando si rimette tutto insieme. Ascolti il risultato complessivo e ti accorgi che, come per incanto, tutto è perfetto. Del resto io ho sempre pensato che la magia scaturisca anche dalle imperfezioni. Nella mia musica mi permetto di non essere sempre perfetto, cerco sempre di aggiungere un granello di errore perché è così facile di questi tempi rendere tutto fin troppo inappuntabile.
Tornando a The Overview, ci sono alcuni momenti molto fascinosi con un parlato femminile…
Sì, sono opera di mia moglie. Volevo una voce piana, senza emozioni, quasi assente, mentre descriveva le grandezze sempre più smisurate di diversi corpi celesti…
E le brillanti parti di basso, chi le suona?
Sono io! Ebbene sì, sono un bassista frustrato e adoro suonare questo strumento. Probabilmente è la cosa che preferisco fare. Se il mio ego non fosse così enorme, avrei potuto essere il bassista di una band. (ride). Per questo disco è stato facile fare molto del lavoro da solo, al basso ma anche alla maggior parte delle chitarre e delle tastiere. Ho coinvolto un batterista perché non so suonare la batteria e altri musicisti per gli assoli. Ma essenzialmente potrebbe essere il disco solista più solista che abbia mai realizzato.
Il finale del disco è molto diverso da quelli pomposi delle suite prog. Permanence è una sorta di requiem ambient per tastiere e sax.
Alla fine del viaggio ci si ritrova letteralmente dall’altra parte dell’universo. A milioni, miliardi e trilioni di anni luce dalla Terra. Lì il tempo non è più rilevante, non ha più senso. E la musica segue questa sensazione, quella di permanenza.
Per te il tempo ha rilevanza? Guardandoti non si direbbe.
Ma lo sento eccome. Per dire: io colleziono dischi, e mi capita di pensare cosa farà mia moglie della mia collezione quando io non ci sarò più. Poi penso che molti dischi che possiedo magari appartenevano a persone che nel frattempo sono scomparse. È una cosa profonda da considerare: le cose che ci circondano continueranno ad esistere per molto tempo dopo di noi, così come l’universo rimarrà al suo posto anche senza la Terra. In quel senso, esiste una vera permanenza del tempo.