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Stevie Nicks e l’arte di ballare sulla vita

Intervista a un’artista leggendaria: lo scioglimento definitivo dei Fleetwood Mac dopo la morte di Christine McVie, il femminismo, il figlio che non ha avuto da Don Henley, il rapporto con Lindsey Buckingham, il consiglio che ha dato a Katy Perry, la nuova ‘The Lighthouse’, il prossimo album. «Nella vita non ho fatto altro che ballare di palco in palco, ecco perché sembro più giovane di quel che sono»

Foto: Rich Fury/Getty Images for iHeartMedia

Un istante può durare un’eternità se sei a dieci centimetri da Stevie Nicks e traffichi con la sua camicetta. Sto parlando di Stevie Nicks, la prima donna a entrare nella Rock and Roll Hall of Fame non una, ma due volte, come membro dei Fleetwood Mac e da solista. La Stevie Nicks che conserva la sua mitica collezione di scialli in un caveau a temperatura controllata. La Stevie Nicks che a 76 anni ha mandato in fissa le nuove generazioni recitando in American Horror Story, scrivendo una poesia per The Tortured Poets Department di Taylor Swift e diventando protagonista di un video virale su TikTok in cui scruta intensamente il suo ex fidanzato e compagno di band Lindsey Buckingham mentre suonano Silver Springs del 1997 (e sì, l’ha visto anche lei). 
Ma anche la Stevie Nicks che, chissà come, ha impigliato il lungo anello d’oro a spirale che porta al dito nel tessuto a rete della sua camicetta, chiedendo aiuto all’intervistatrice che ha incontrato da pochi minuti.

Mi chino su di lei per districare delicatamente il filo da ogni spira dell’anello. «Mi è successo anche sul palco», dice. «S’è incastrato nella mantella che metto per Gold Dust Woman, il ragazzo più bello del nostro entourage è corso fuori e s’è inginocchiato per cercare di rimediare. Mi sono sentita una principessa in un film di Cenerentola». Ride. Mi rilasso. Miracolosamente, districo l’anello dal tessuto senza far danni. «Grazie, tesoro», mi dice dolcemente.

Nicks ha passato gli ultimi tre giorni a Philadelphia per chiudere un grosso tour e registrare una canzone di Natale con l’ex stella della NFL Jason Kelce. Stasera ha il suo tipico look total black, eccetto i fermacapelli d’un rosa acceso che tengono a posto la sua treccia alla francese, bionda ed elegante. La sua piccola Chinese crested dog, Lily, entra ed esce dalla stanza sedendosi di tanto in tanto sulle sue ginocchia e fissando un enorme piatto di affettati.

Nelle tre ore e mezza successive nessuno tocca cibo, mentre Nicks mi accompagna in un viaggio pazzesco nella sua vita e, a un certo punto, mi porta in camera da letto per vedere le sue Barbie Stevie Nicks. C’è il prototipo vestito con il suo amatissimo abito nero di Rhiannon e c’è la Barbie ufficiale di Stevie uscita l’autunno scorso. E dire che a lei da bambina le Barbie non piacevano, ma questa ha qualcosa di speciale. «Non avrei mai pensato che quest’oggettino mi avrebbe fatto quest’effetto», dice tenendo in mano la Gold Dust Woman in miniatura.

Nicks è prolifica e grintosa sempre. Si è anche messa alle spalle la sua celebre band. Dopo un tour trionfale con la formazione classica dei Fleetwood Mac, fra il 2014 e il 2015, ci sono stati gravi attriti tra Buckingham e gli altri, Nicks in particolare, cosa che l’ha portato a essere allontanato dal gruppo nel 2018. La morte nel 2022 di Christine McVie, che per Nicks era «un’anima gemella musicale», pare avere messo la parola fine alla storia del gruppo. Stevie dice di aver chiuso per sempre coi Fleetwood Mac. È partita per un tour solista durato due anni, che si è concluso un paio di sere prima del nostro incontro all’Hersheypark, uno stadio da 30 mila posti.

Poco dopo la nostra chiacchierata si esibirà davanti a milioni di persone, ospite del Saturday Night Live per la prima volta in più di 40 anni. Nello Studio 8H canterà il suo inno ai diritti delle donne The Lighthouse, che ha scritto dopo l’annullamento della sentenza Roe vs Wade. Nella versione in studio c’è Sheryl Crow alla chitarra. È un pezzo catartico in cui Nicks si paragona a un faro che guida le donne e le incoraggia a difendere i propri diritti. 
«Sai cosa penso sempre, quando dico SNL?», mi chiede. «Stevie Nicks Live».  

Dove preferisci che mi sieda?

Va bene lì, basta che tu non abbia il Covid.

Non ce l’ho.

Grazie al cielo per un po’ non andremo in tour, posso tornare a casa e non mettere più una mascherina. Sono asmatica, odio quelle cazzo di mascherine, ma le devo usare. So che la gente ti guarda male quando ne hai su una. Se qualcuno osasse guardarmi male, risponderei: «Sai cosa? Sono Stevie Nicks. Se mi ammalo, tutto il mio lavoro va in malora e lascio 40 famiglie senza alcuna entrata economica. Ecco perché ho una mascherina, coglione». Non posso permettermi di prendere ancora il Covid. Sono anziana, mi resteranno una quindicina d’anni da vivere. Voi che ne avete altri 30 o 40 dovreste pensarci.

Quindici anni, sei molto precisa nella tua previsione…
Probabilmente vivrò fino a 95 anni, ma in tutta onestà non ho voglia di diventare così vecchia. Per carità, girerò con un trabiccolo elettrico, farò la matta e continuerò a ballare. Ma non è che io sia così impaziente di arrivarci, è un’età troppo avanzata. Mia madre è morta a 84 anni e mio padre a 80, ma io a 76 sono una persona più giovane quanto lo fossero loro alla mia età. Quindi ho calcolato che arriverò fino a 88, 89 anni.

Stevie Nicks al Saturday Night Live. Foto: Will Heath/NBC/Getty Images

Hai paura della morte?

Non ho paura di morire, ma di non riuscire a fare tutto quanto, perché sono impegnatissima. Per questo sono contenta che il tour sia finito, posso iniziare a lavorare su un album. Da troppi anni non riesco a dedicarmi alle attività creative che pure adoro. Disegno, scrivo canzoni e poesie. Mi piacerebbe creare un profumo, c’è un aroma che amo in particolare. Mi piace disegnare motivi per coperte. Le mie preferite sono quelle in cachemire. Le regalo agli amici nelle occasioni speciali. Ho comprato una coperta per Travis Kelce. Nel 1977, Don Henley e J. D. Souther mi hanno portata in un negozio di Los Angeles che si chiamava Maxfield Blue, che adesso è solo Maxfield. Lì ho comprato la mia prima coperta di cashmere. Ci rido sempre su e dico che quei due mi hanno insegnato come spendere i soldi.

J. D. è mancato di recente, so che l’hai frequentato per un breve periodo.
È stata una tragedia davvero terribile. E poi è toccato a Kris Kristofferson. Oggi la mia assistente è venuta a dirmi qualcosa. Ha iniziato con: «Allora, Stevie…». Ecco, ogni volta che parte con «Allora, Stevie», le dico: «Ti prego, non dirmi che è morto qualcun altro. Vorrei che tu arrivassi, dicessi il mio nome senza mettere quell’allora davanti, perché mi fa pensare che sia successo qualcosa di brutto: siamo tutti anziani ormai».

Stai lavorando a nuova musica?
Ho tante idee per delle canzoni. Anche cover. Telefonerò a chi le ha scritte: «Mi piacerebbe cantare questo brano insieme a te, che ne pensi?». Ho anche tante poesie pronte. Ne ho scritta una su una delle donne protagoniste di uno dei miei telefilm polizieschi preferiti, Chicago P.D. È come una medicina per me, non vedo l’ora di sedermi al pianoforte. Ho scritto anche una canzone intitolata The Vampire’s Wife e credo sia una delle mie migliori di sempre. Come Rhiannon, racconta la storia di un personaggio. Chi lo sa: potrei intitolare il prossimo album The Vampire’s Wife.

Quanta creatività…
Un anno e mezzo fa mi hanno diagnosticato una patologia che si chiama degenerazione maculare essudativa e non è una bella cosa. Vedevo molti colori, grandi macchie viola. Era come essere in trip da acido. Non mi faccio di acidi, non capivo cosa fosse. Adesso, ogni sei, sette, otto, nove settimane, mi devono praticare un’iniezione in ognuno degli occhi. E dovrò farlo per il resto della vita. Esiste anche la degenerazione maculare secca, quella ce l’aveva mia madre. Era una piccola maga della finanza e lavorava come contabile per mio padre. Arrivata a un’ottantina d’anni, ha iniziato ad avere grossissime difficoltà alla vista. In un certo senso, credo che questa cosa l’abbia uccisa: era disperata. E così, quando mi è stata diagnosticata la malattia, all’improvviso ho pensato: sai cosa? Devi finire questi disegni, perché cosa farò se inizierò a perdere la vista? Non lo faccio da anni… ma i miei disegni per me sono importanti quanto le canzoni.

Hai da poco pubblicato The Lighthouse, a cui hai lavorato per due anni.
Quando la sentenza Roe vs Wade è stata annullata, mi sono sintonizzata sul programma Morning Joe e, giuro su Dio, ho pensato che Mika [Brzezinski] stesse per saltare sulla scrivania. Mi ha fatto capire che si trattava di una grave sconfitta. Ricordo che ero così felice, nel 1973, quando è stata emessa la sentenza: era come se fossimo finalmente al sicuro. 
Non si tratta mica di non prendere precauzioni e poi abortire. Sono in ballo tante cose: le cure, le gravidanze extrauterine e tutte le procedure mediche che la metà di noi donne non ha mai fatto e che l’altra metà può permettersi molto più delle altre. Ero terrorizzata dopo aver sentito la notizia e così è nata la canzone. Ho scritto le parole di mattina. Non lo faccio mai, di mattina, non avevo nemmeno bevuto una tazza di caffè, ma ho buttato giù tutto di getto. Poi ho chiuso il quaderno e sono tornata a letto. È tipo Marvin Gaye che cammina in un vicolo malfamato, cantando della vita, e quando gira l’angolo incontra Dave Grohl e i Foo Fighters. A me fa quest’effetto.

La canzone lancia un messaggio importante, soprattutto in vista delle elezioni.

Voglio rivolgermi alle donne dicendo loro: dovete andare a votare. Io non ho mai votato fino a 70 anni, non mi interessavo minimamente di politica. Ero troppo impegnata e poi non mi andava di rischiare di essere chiamata a far parte di una giuria. Me ne rammarico molto.

«Vivrò fino a 95 anni, ma in tutta onestà non ho voglia di diventare così vecchia»

Per le donne è difficile affrontare apertamente l’argomento dell’aborto, specie se ci sono passate. Come hai trovato il coraggio di parlare del tuo?

Non sono stata io a parlarne pubblicamente, è stato Don Henley (che ha messo incinta Nicks quando hanno avuto una breve relazione alla fine degli anni ’70, nda). Mi ha poi chiamata per scusarsi. Ggli ho detto: «Sai cosa, Don? Siamo usciti insieme per un annetto e siamo rimasti ottimi amici. Leather and Lace ci unirà per sempre». Comunque, lo ha rivelato lui, io probabilmente non l’avrei mai fatto. Perché mai avrei dovuto? Comunque è stato tutto assolutamente legale. 
Era tipo il 1977 o il 1978. Don è stato il primo con cui sono uscita dopo la rottura con Lindsey. Avevo preso tutte le precauzioni e all’improvviso mi trovavo in quella situazione. Non capivo. Sono andata dal ginecologo e lui mi ha spiegato: «Hai usato la spirale, ma hai una retroflessione uterina. La spirale ti protegge solo a metà e questo non lo sapevamo». Cosa diavolo avrei dovuto fare? Non potevo avere un figlio. Non sono mai stata il tipo di donna che affiderebbe il proprio figlio a una tata, per nessun motivo. Avremmo dovuto trascinarci un bambino in giro per il mondo, in tour, e io non avrei mai fatto una cosa del genere a mio figlio. Non mi sarebbero bastati nove mesi di pausa: avrei avuto bisogno di un paio d’anni, e questo avrebbe distrutto la band, punto. Ho deciso di abortire. Se la gente vuole prendersela con me per questo, non mi interessa, perché quella era la mia vita e quello che volevo fare fin da quando ero in quarta elementare.

Sarebbe stata la fine dei Fleetwood Mac.
Esatto. E sarebbe stato triste, anche perché in ogni caso non avrei sposato Don Henley. La nostra è stata una storia divertente, ma lui era in una band molto più importante della mia. Erano delle vere e proprie rockstar. Nessuno di loro era pronto a sposarsi e ad avere figli. Quindi sapevo che tutto sarebbe ricaduto solo su di me e non avrei saputo gestire quella responsabilità. E c’è un’altra cosa che mi spaventa molto. Una mia amica ha avuto una gravidanza extrauterina. Ha partorito una bambina che è la mia figlioccia, la mia anima gemella, e la adoro. Ma sarebbe morta, ai nostri tempi: quindi questa bambina che io amo alla follia non sarebbe viva. Perché noi non sapevamo niente di queste cose? Perché non ce ne hanno mai parlato al liceo o all’università?

I Fleetwood Mac nel 1975 circa. Da sinistra, Mick Fleetwood, Nicks, John McVie, Christine McVie, Lindsey Buckingham. Foto: Silver Screen Collection/Getty Images

Ora c’è The Lighthouse e parla di queste cose.
Eravamo in aereo e ho detto a Waddy Wachtel (direttore musicale della sua band, ndr) che non sapevo che titolo dare alla canzone che tra di noi chiamavamo The Power Song. «Che ne dici di The Lighthouse?», ha detto. C’è stato un tempo in cui sognavo di comprare un faro con una scala a chiocciola che arrivava fino in cima, con al piano di sotto uno stanzino con un letto e un bagno, un rifugio dove andare a registrare sola soletta affacciato su una scogliera.
 Così ho detto: vada per The Lighthouse. Sono io il faro, perché sono saggia e ho un sacco di storie. Sono le donne come me che possono raccontare cose alle giovani che hanno 15 o 45 anni. Siamo la luce che guida le navi in porto per evitare che si schiantino. Salviamo vite. E, pensando alle elezioni imminenti, anche Kamala Harris per me è un faro.

Ti sei mai guardata indietro col rimpianto di non avere avuto dei figli?
Mai, forse perché ho capito che, per poter essere un faro, dovevo essere me stessa nei Fleetwood Mac, una band enorme che stava per diventare leggendaria. Non mi ha solo permesso di realizzare il sogno di essere una donna rock’n’roll, ma anche di arrivare ad essere la persona in grado di scrivere questa canzone, un pezzo utile nel mondo in cui viviamo, in questo che potrebbe essere il mio momento di gloria. Potrebbe essere la canzone più importante che io abbia mai fatto.
 Non mi interessava avere una hit, no. Tutti quelli della mia età del resto hanno rinunciato da un bel pezzo all’idea di centrare delle hit. In streaming ha raggiunto i 300 mila ascolti: che vuol dire? Non so nulla di queste cose. E comunque non mi interessano, sono l’unica persona al mondo che non è sempre attaccata al telefono.

Hai la connessione Internet nel telefono?

No, ha solo la fotocamera.

Ti invidio.
Odio quella roba. Una decina d’anni fa, Katy Perry mi spiegava degli eserciti delle varie cantanti e di quanto possono essere cattivi e sgradevoli online. Le ho detto che non ne so niente perché non sono su Internet e lei mi ha chiesto chi sono le mie rivali. Le ho lanciato il mio sguardo più gelido: «Katy, io non ho delle rivali, ho delle amiche. Tutte le cantanti che conosco sono mie amiche. Non c’è competizione. Molla Internet e anche tu non avrai rivali».

Mi sa che sei contenta che i Fleetwood Mac non abbiano dovuto vivere l’era dei social media.
Ah, sarebbe stato terribile. Non abbiamo mai neppure dovuto fare i conti coi paparazzi. I nostri fan ci hanno sempre rispettato e trattato con riguardo. Nessuno ci ha mai inseguiti. Era tutto divertente, mai spaventoso. Non abbiamo mai subito stalking o cose strane. Non potrei mai vivere in quel modo.

Le popstar hanno grossi problemi del genere, in questo periodo: penso in particolare a Chappell Roan.
È evidente che le piace molto la mia musica. Io e un mio amico siamo andati a curiosare nella sua agenda di impegni ed era impressionante, a livello dei nostri periodi più pesanti, ma lei è un volto nuovo ed è giovane. Ho pensato: facendo così la bruceranno, c’è sempre qualcuno pronto a prendere il tuo posto. Ed è un bene che lei abbia detto «Prego, accomodatevi: sostituitemi. Cancello gli impegni, perché non ho intenzione di schiattare per voi».

Anche Taylor Swift è stata molto brava a mettere dei paletti.
Vedi il mio braccialetto? (Indica un braccialetto dell’amicizia che le ha dato Swift, nda) Non lo tolgo da quasi un anno. Lei è molto in gamba, ne ha passate tante. Adesso sta attraversando un buon momento e credo che al suo fianco abbia un brav’uomo. Spero che si innamorino sempre più e che siano felici e contenti. Lui fa le sue cose e lei fa le sue, poi si sistemeranno, si sposeranno e faranno dei bambini, se a lei va. È questo che desidero per lei.

Come pensi che se la stia cavando la vicepresidente Harris, come candidata?

Alla grande. Se Trump perde, salirà sulla sua limousine e se ne tornerà a Mar-a-Lago, magari gli daranno un altro show televisivo, farà tante belle vacanze e giocherà a golf. Si divertirà. Buon Dio, ha 78 anni. È il contrario di Girls Just Want to Have Fun. Non c’è da preoccuparsi per lui. Tornerà a fare le sue cose.

«Sono un faro e anche Kamala Harris lo è»

Sei ottimista circa l’esito delle elezioni?

Molto. Lei mi piace perché ride, è piena di gioia, si è innamorata di qualcuno da non giovanissima, ha una famiglia e la chiamano Momala. La adoro. Ho un rispetto enorme per lei, che è disposta ad assumere un incarico così importante, con tutto quello che sta succedendo in Medio Oriente e in Ucraina. Probabilmente sta dicendo a tutti: «D’ora in poi, per molto tempo, non avrò una vita vera, quindi se non ti cerco, non prenderla sul personale».

Mi è piaciuta molto la tua foto da childless dog lady. Qualcuno però ha fatto notare che non hai fatto un endorsement a favore di Harris. Vuoi farlo adesso?
Penso di averle dato il mio supporto incondizionato definendola un faro. Non mi piace la parola endorsement, ma mi piace il fatto che lei sia la nostra grande speranza di salvare il mondo.

Ti sei esibita alla cerimonia inaugurale di Clinton, nel 1993. Lo faresti per Harris?
Potrei, sì.

Secondo te, perché tante donne ti considerano un’icona?

Ho un problema con la parola icona, mi fa venire in mente una statua greca di una ragazza avvolta in un mantello. Ma mi sta bene, perché ho lavorato sodo per diventare così, qualunque cosa la gente pensi che io sia. Una volta ho scritto una canzone che si chiama Sweet Girl, dice: “Ho scelto di ballare sui palcoscenici di tutto il mondo… sono tante le città che non ho mai visto”. Ed è proprio quello che mi sembra di avere fatto: ballare passando di palco in palco, in tutto il mondo. Ecco perché sembro molto più giovane, perché il mio spirito lo è. Finché si riesce a ballare, si resta giovani. Io ho 76 anni, ma sono molto snodata. È per questo che ballo ancora. (Si ferma e si fa passare una gamba dietro la testa per dimostrare ciò che ha detto, nda). 
Ho desiderato per una vita ispirare le persone. Mi piace raccontare le mie storie, sul palco. Mi rende felice ed è per questo che non smetterò mai di andare in tour. E poi, se lo facessi, smetterei anche di ballare. L’anno prossimo partirò per un tour estivo di 40 date, come facevamo coi Fleetwood Mac. E adesso i Fleetwood Mac non ci sono più, perché quando Christine è mancata i Fleetwood Mac sono finiti. Non possiamo sostituirla.

Farete mai un comunicato per annunciarlo ufficialmente?

Diciamo che ho fatto una dichiarazione ufficiale durante lo show dell’altro ieri.

Quando hai detto che era l’ultima volta che le dedicavi Landslide.

Subito dopo la sua morte, abbiamo realizzato un montaggio video e l’abbiamo mostrato ogni sera. E io ho pianto tutte le volte. Ho detto: «È arrivato il momento di lasciarla andare. Dobbiamo dire addio a Christine: buon viaggio».

Come è stata la tua ultima conversazione con Christine?
Questa è la vera tragedia: non parlavo con lei da un sacco di tempo. I Fleetwood Mac suonavano insieme per un paio d’anni e poi si perdevano di vista. In quel periodo ero in tour come solista e non ci siamo quasi mai sentite al telefono. Lei viveva in Inghilterra. Il fuso orario era un casino, quindi era difficile parlare.
 Poi mi hanno avvisata che stava male. Ho pensato: prendiamo a nolo un aereo e andiamo subito lì. Poi però la sua famiglia ci ha richiamati: «Non muovetevi finché non capiamo come vanno le cose». La sua famiglia è super divertente, come lo era lei. «Se tu e quel tizio alto, Mick, vi presentate nella sua stanza d’ospedale, lei pensarà di essere morta». Comunque, qualche ora dopo hanno richiamato avvisandoci che era mancata. Non ho fatto in tempo a dirle addio. La mia idea era di sedermi al suo capezzale e cantarle Touched By an Angel come ho fatto con mio padre, per due o tre ore o per tutto il tempo necessario per riportarla indietro o per salutarla. Non ci sono riuscita e mi ha fatto molta rabbia».
 La mostra era un’amicizia speciale. Era la mia anima gemella musicale, la mia migliore amica. Noi due abbiamo tenuto a galla la band, mantenendo la pace, indipendentemente da tutto il resto. Non lasciavamo mai che si portassero i problemi in studio, mettevamo fine ai litigi ancora prima che iniziassero, assicurandoci che tutti dessero sempre il meglio. Anche quando prendevamo un sacco di droghe, tenevamo sotto controllo tutto e tutti. Eravamo le guardiane dei Fleetwood Mac ed è per questo che è impossibile sostituirla. Abbiamo rimpiazzato Lindsey due volte ed è andata bene. Nessun litigio, tanto divertimento. Ma Christine era un’altra cosa.

Però è anche vero che avete fatto dei tour senza Christine, fra il 1998 e il 2015.
Sì certo ed è stato bello, perché togliendo dalla scaletta le sei canzoni di Chris e sostituendole con tre di Lindsey e tre mie, siamo diventati un gruppo rock’n’roll più duro. Eravamo un po’ come gli AC/DC ed era divertente.
Quando lei mi ha chiamato e mi ha detto: «Credo di voler tornare», le ho risposto: «Da quando te ne sei andata, siamo diventati una band molto rock. Vieni a vederci a Londra, così capirai se ti va davvero di rientrare. Se lo vuoi fare, allora dovremo tornare a essere la versione originale dei Fleetwood Mac, ma non c’è problema». Così è venuta, ha fatto una canzone con noi, ha suonato l’organo e ha detto: «Lo voglio». Sono ovviamente contentissima che sia successo. 
Siamo state amiche dal 1975 fino alla sua morte e mi manca ogni giorno. Finalmente l’altro ieri sera sul palco, sotto la pioggia e davanti a 30 mila persone, ho capito che era arrivato il momento di lasciarla andare. E di smettere di essere così triste, perché ho pianto ogni singola sera. È stato come dire: «Vai. Non ti tratteniamo più».

Stevie Nicks e Christine McVie nel 1977. Foto: Rick Diamond/Getty Images

Hai visto Lindsey alla commemorazione di Christine?

Christine ha scatenato un uragano sul Nobu, dove si è tenuta la cerimonia. Ha quasi spazzato via il locale devastando la terrazza che avevano allestito, giuro su Dio. È stata una cosa folle. Abbiamo tutti avuto l’impressione che lei fosse lì, è stato davvero intenso. L’unica volta che ho parlato con Lindsey è stata in quell’occasione, sarà stato per tre minuti. L’ho sopportato per fin troppo tempo: non si può dire che non gli abbia dato almeno 300 milioni di possibilità.

Rimpiangi di non aver tagliato prima i ponti con lui?

No, penso che le cose siano andate come dovevano andare. È successo una sera, inaspettatamente, a un concerto di beneficenza di MusiCares. Fino al termine dell’evento non ho detto a nessuno ciò quel che avevo per la testa. Avevo preparato una canzone che avevo fatto con LeAnn Rimes, Borrowed. L’ho fatto per suonarla con lui, perché pensavo che avremmo potuto renderla splendidamente. Ma lui è stato scortese con tutti, anche con Harry Styles. In testa sentivo la voce di mia madre che mi chiedeva: «Davvero vuoi passare i prossimi 15 anni della tua vita con quest’uomo?». E sentivo mio padre, che era molto pragmatico, che mi diceva: «È ora che molli». Detto questo, a mia madre e a mio padre piaceva molto Lindsey. A quel punto mi sono detta: con lui ho chiuso.

Quindi non prenderesti mai in considerazione l’idea di un vero e proprio tour d’addio?

No.

Penso sempre al fatto che, quando è morto David Crosby, Graham Nash, Stephen Stills e Neil Young si sono pentiti di non essersi riconciliati con lui.

È vero, ma loro non hanno mai suonato tanto quanto noi. Abbiamo avuto un sacco di tempo e fatto tante tournée che avrebbero potuto essere il tour della riconciliazione o quello di addio. Sapevo che Christine e io avevamo fatto tutto il possibile per mantenere l’atmosfera serena. Ma ormai si era creata una situazione invivibile.

Ci sono stati sviluppi dopo l’infarto di Lindsey?
Sono sicura che se ce ne fossero, lo saprei. La sua famiglia è soggetta a patologie cardiache, per cui non mi ha sorpresa. Gli auguro il meglio. Spero che viva a lungo e che continui ad andare in studio e a lavorare con altri. Anche lui è un’icona e può insegnare molte cose alla gente. Non si è mai fermato, può ancora fare musica e divertirsi.

Per quel che vale, penso che tu sia un’icona molto più importante, da questo punto di vista.

Non era forse questo uno dei problemi?

Prima di morire, Christine ci ha detto che John non se la passava bene. Hai qualche aggiornamento?
La morte della moglie (all’inizio di quest’anno, nda) è stata un bruttissimo colpo per John. Non parlo con lui da quando Julie è mancata, perché mi ha detto chiaramente che non voleva sentire nessuno finché non avesse superato la cosa. Ero molto amica di John e rispetto la sua volontà. Quando tornerò a casa, dopo il SNL, lo chiamerò per sapere come sta e andrò a trovarlo. Telefonerò a tante altre persone con cui ho bisogno di parlare e che non sono riuscita a sentire negli ultimi due anni.

Recentemente hai accennato alla possibilità di suonare The Chain nei tuoi futuri concerti da solista. La farai in una versione diversa?
Ho ritrovato una versione demo incisa su una cassetta. Era una canzone completamente diversa che sfociava nel ritornello di The Chain. Quando abbiamo registrato il pezzo, loro avevano solo la parte che io chiamo “the monsters are coming” (il bridge, nda) e quel finale grandioso. Così Lindsey mi ha detto: «Hai una canzone pronta. Possiamo usarla?». E io ho pensato: «Certo, perché no?» Gliel’ho data e loro hanno tolto le strofe.
 Poi un mio amico mi ha detto: «Sai che c’è un demo della prima versione di The Chain?». Dopo averla ascoltata ho pensato che era una bella canzone dava modo di fare una versione diversa di The Chain. L’ho già mandata a Greg Kurstin, che è uno dei miei produttori preferiti.

Inseriresti questa nuova versione di The Chain in The Vampire’s Wife?
Certo. Lascerebbe la gente a bocca aperta, perché è una canzone molto diversa. Però si apre in un ritornello che è quello di The Chain. Penso che potrebbe piacere molto. A me piacerebbe. Sarebbe fantastico se uscisse. Quindi sì, fa parte della scaletta di quello che definisco il mio album fantasma.

«Ho un problema con la parola icona, mi fa venire in mente una statua greca»

Quando è uscito l’adattamento televisivo del romanzo Daisy Jones & The Six, hai detto che era come rivedere la tua storia.

Non volevo nemmeno guardare la serie, pensavo che l’avrei odiata. Avevo il Covid quando l’ho fatto. Ero nel mio appartamento a Los Angeles e ricordo di essermi chiesta: sto vedendo la mia vita che mi passa davanti? 
Riley (Keough, nde) non mi somiglia. È molto più spigolosa di me. Io nei Fleetwood Mac non potevo essere come lei. Christine ed io non potevamo permettercelo, perché eravamo le paciere. Keough poteva fare la stronza al 100%, essere spocchiosa e arrogante, perché non faceva nemmeno parte della band e loro non la trattavano bene. Questa era la differenza più grande. Ma il suo personaggio era molto simile a me. Ho subito avuto voglia di chiamarla e incontrarla e l’ho fatto.
Per me Suki (Waterhouse, ndr) era una ottima Christine, sia perché lei è inglese sia per il modo in cui si vestiva. E sai cosa mi è dispiaciuto tanto? Che Christine non abbia visto la serie, perché ne sarebbe stata entusiasta. Ho anche pensato che Billy (Sam Claflin, ndr) fosse spettacolare e cogliesse così tanto l’essenza di Lindsey da far venire i brividi. Aveva gli stessi riccioli e la stessa bellezza oscura di Lindsey. Una delle mie preferite è stata Camila (Morrone, ndr). Ho pensato che Camila e Daisy messe insieme potevano rappresentare un mio bel ritratto.

Mi è piaciuto molto il finale, quando Camila in punto di morte incoraggia Billy a chiamare Daisy.

Sarebbe stato bello vedere cosa sarebbe successo se Billy, dopo la morte della moglie, avesse bussato alla porta di Daisy e avessero deciso di fare un ultimo disco, quello che io ho sempre sperato di incidere con Lindsey. Sarebbe stata una seconda stagione fantastica. Ne ho parlato con Reese (Witherspoon, la produttrice esecutiva, ndr) e con Riley: l’idea è piaciuta molto, ma sono tutti impegnatissimi. Riley sta per diventare una grande star del cinema. Ma magari prima o poi lo faranno. Finché non ho visto Daisy Jones & The Six, non avrei mai pensato che fosse possibile ricreare la nostra vita.

Hai visto Stereophonic?

Cos’è?

È uno spettacolo di Broadway che ha avuto un successo pazzesco e parla di una band al culmine della celebrità che registra il suo nuovo album a Sausalito. In pratica parla di te… e dei Fleetwood Mac.

Davvero?

Già.

Come ho fatto ad arrivare fino a ora senza saperne nulla?

Hai firmato un contratto discografico nel 1966, durante l’ultimo anno di liceo. La tua carriera avrebbe potuto essere completamente diversa, da cantante di fine anni ’60 alla Joni Mitchell o Linda Ronstadt.
Avrebbe potuto andare così. Mio padre aveva un caro amico, Jackie Mills, che lavorava per la 20th Century Fox. Jackie mi ha pagato un volo per Los Angeles e io mi sono presentata con la chitarra e ho suonato tre canzoni. Mi ha detto: «Sei proprio brava, vorremmo metterti sotto contratto con la 20th Century Fox. Ci faremo vivi». Sono tornata a casa e dopo poco sono arrivati dei contratti. I miei genitori dicevano che dovevo finire la scuola, mia madre insisteva che dovevo andare al college. Io rispondevo: «Ok, calmatevi. Non è scoppiata la Quinta guerra mondiale». 
Così abbiamo firmato i documenti, ma nel contratto di Jackie c’era una clausola del tipo key-man clause. Significa che se il responsabile se ne va, porta con sé i suoi artisti. Lui mi pare abbia lasciato il suo posto l’estate dopo il mio ultimo anno di liceo, prima ancora che tornassi a Los Angeles. E così sono stata scaricata. Se non fosse andata così, il contratto valeva per cinque anni e avrebbe coperto il periodo dal 1967 al 1971. Quindi niente Buckingham Nicks, niente Fleetwood Mac. Niente di niente.
Probabilmente avrei vissuto a Laurel Canyon, vicino a Joni, Linda, David Crosby, Stephen Stills e Neil Young. Avrei voluto far parte di quella scena, sarebbe stato molto interessante. Ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che questa sarebbe stata la mia vita. Credo in me. Credo nella Chiesa di Stevie.

Hai in programma ritirarti dalle scene o ti vedi come Mick Jagger, ancora sul palco a 80 anni?
Finché riesco a mantenere un bell’aspetto… Smetterò quando capirò che farlo non è più adatto alla mia età. O forse a quel punto renderei solo più intimi gli show. Sarei ben contenta di andare in tour in tutti i bellissimi teatri gotici degli Stati Uniti e dell’Europa, facendo le mie due ore, magari stando seduta per una parte dello spettacolo. Suonerei anche canzoni del mio repertorio che non ho mai fatto, pur avendo sempre voluto proporle.

Mi piacerebbe vederti eseguire pezzi meno noti, come Kind of Woman.
Quelli davvero minori. Potrei arrivare fino a (canta After the Glitter Fades, nda): “Non avrei mai pensato di farcela qui a Hollywood… per me è l’unica vita / Che abbia mai conosciuto / E l’amore è solo una bella stella lontana / Anche se la vita / A volte è lastricata di bugie”. È una canzone autobiografica, è così che mi sento. Ve la canterò quando avrò 90 anni. Se sarò ancora viva e in salute, non ci sarà motivo di smettere di fare ciò che faccio, perché lo adoro e questa era la mia missione di vita. 
Non è che io voglia lavorare ancora così tanto, tra 10 anni, ma ci sono alcune cose che desidero fare. Voglio viaggiare. Harry Styles ha tre case in Italia: gli piace da impazzire. Voglio andare lì, affittare una casa e restarci per un po’, girarmela tutta. Sono stata a Roma un paio di volte, ma mai abbastanza a lungo per vederla.

Stanno lavorando a un sequel di Amori & incantesimi, il film del 1998 con Nicole Kidman e Sandra Bullock nei panni di due sorelle streghe. Mi è sempre piaciuta la versione di Crystal inclusa nella colonna sonora.
La cosa divertente è che Crystal è stata incisa tre volte. Prima dai Buckingham Nicks, poi dai Fleetwood Mac e, infine, è stata registrata nuovamente per Amori & incantesimi, con me e Sharon (Celani, ndr). Forse dovremmo rifarla una quarta volta. Penso che dovrebbero proprio farmi partecipare alla colonna sonora. Appena arrivo a casa, farò una telefonata dicendo: «Sentite, fatemi fare una canzone per il film».

Ora come ora, quanti scialli pensi di avere?
Ho quelli più famosi. Ho quello di Rhiannon, con le maniche. E la mantella di Gold Dust Woman: ne ho avute due, negli ultimi 40 anni. Ne avevo una per Stand Back e poi ne ho un’altra bianca che ho indossato per molto tempo per Edge of Seventeen, ma è molto lunga e non la metto più così spesso. Ne ho una lunga, rossa, che adoro: è di un tessuto bellissimo. E poi lo scialle blu di Bella Donna. È ancora perfetto, come nuovo. 
A un certo punto mi sono stufata. La gente scriveva che ero una strega: ho chiuso coi vestiti neri e ho fatto smettere anche le ragazze. Margi (Kent, stilista, ndr) ha creato per noi dei nuovi abiti color pastello chiaro: erano gli anni ’80. Ma un giorno ci siamo guardate e abbiamo detto: «Perché abbiamo addosso questi vestiti da uovo di Pasqua? Non ci rappresentano». 
Comunque conservo ancora tutti gli abiti. È roba di seta-chiffon, indistruttibile: è per questo che la usano per fare le vele. È tutto immagazzinato, custodito in contenitori appositi e tenuto sotto controllo, perché un giorno quella roba finirà in giro per il mondo. Mi piace riguardare quelle cose: è come entrare in un armadio magico, tipo Narnia.

Quando è stata l’ultima volta che hai messo un paio di jeans?

Tanto tempo fa. Ho portato solo jeans per un milione di anni. Volevo apparire in un certo modo, con i jeans, poi ho smesso di indossarli. Appena penso che qualcosa cominci a non essere adatto alla mia età, smetto di farla.

Qual è la cosa di cui sei davvero orgogliosa, nella tua carriera, e che la gente non si aspetterebbe?

Sono molto fiera di tutto ciò che ho fatto. I miei disegni sono molto importanti per me e forse l’anno prossimo farò una grande mostra. Poi ho tantissime poesie che non arrivano fino al pianoforte oppure lo fanno, ma mi rendo conto che non sono fatte per diventare canzoni. È una cosa sciocca da dire, ma mi faccio le unghie da sola. Questa è la prima volta che sono bianche, da 20 anni a questa parte: non ho avuto il tempo farle dorate, prima dell’ultimo show. La gente mi chiede: «Chi ti ha fatto le unghie?». E rispondo: «Io, perché sono la migliore manicure del mondo». Nessuno le fa bene come me, quindi perché dovrei andare da qualcun altro?

Da Rolling Stone US.

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