«Non preoccuparti, non ti stai perdendo molto», dico a Stewart Copeland nei primi secondi dell’intervista, quando Zoom fa le bizze e non gli permette di vedere la mia faccia. «D’accordo», risponde lui, «ma tu sei italiano, e come faccio a capire cosa mi dici se non ti vedo agitare le mani?».
Ci facciamo una bella risata e, quando il video finalmente parte, mi accorgo che cammina senza sosta all’interno del Sacred Grove, il suo studio di registrazione di Los Angeles. Deve aver messo il cellulare su uno di quei bastoni da selfie, perché l’inquadratura frontale è perfetta, eppure non credo proprio ci sia un cameraman che lo sta riprendendo. Continuerà a camminare in tondo per tutta l’intervista, fermandosi solo quando sarà arrivato il momento di salutarci.
L’occasione per chiacchierare con il batterista dei Police è Police Deranged for Orchestra, album uscito nei giorni scorsi in cui, quarant’anni dopo l’uscita di Synchronicity, il loro ultimo disco, Copeland affronta in studio e dal vivo alcuni dei pezzi più noti della band da lui fondata assieme a Sting. Grandi successi come Roxanne, Don’t Stand So Close to Me e Message in a Bottle vengono “de-arrangiati” ed eseguiti da un’orchestra sinfonica e da una rock band di cui oltre allo stesso batterista fanno parte Armand Sabal Lecco (basso), Rusty Anderson (chitarra) e Amy Keys, Carmel Helene e Ashley Támar (voci). Un progetto che si sviluppa anche dal vivo, con concerti che a breve toccheranno anche l’Italia: il 12 luglio a Udine, il 14 a Perugia, il 16 a Trento, il 24 a Gardone Riviera, il 25 a Firenze e il 27 a Taormina.
«Sono decenni ormai che faccio concerti con orchestre», racconta. «Mi hanno suggerito di dedicarmi alle hit invece che solo alle colonne sonore o ad altre composizioni che mi sono state commissionate. Ero partito con alcune versioni strumentali di oscuri pezzi dei Police e il responso del pubblico è stato talmente entusiastico che ho deciso di basare un intero spettacolo sui successi della band. Le vecchie canzoni, con la loro storia, hanno il potere di emozionare. Noi sul palco viviamo per questo. Il fatto che il pubblico conosca quelle canzoni e ci sia cresciuto aumenta notevolmente il loro impatto. Ecco perché le faccio. Per questo progetto ho ripreso in mano i master delle registrazioni e, attraverso le varie piste delle session originali, mi sono accorto che a suo tempo avevamo tenuto da parte molte idee che non avevamo poi utilizzato: per esempio assoli di chitarra o linee di basso che ho utilizzato per questo nuovo album e che si ascolteranno anche dal vivo».
In ciascuna delle sei città italiane toccate dal tour, assieme a Copeland e alla sua band ci sarà sul palco una diversa orchestra sinfonica. Tutti musicisti che non hanno ancora avuto l’occasione di provare i pezzi assieme al bandleader. «Questo è il miracolo dell’orchestra», spiega Copeland senza fermare la sua rapidissima camminata. «A Udine, per esempio, incontrerò i musicisti alle due del pomeriggio. Proveremo per due ore, due ore e mezza, e poi saremo pronti per il live di quella sera. Il motivo per cui riescono a farlo è che ho messo tutto sugli spartiti. Ciascun musicista sa cosa deve suonare e come deve suonarlo perché sulla pagina trova l’articolazione e le dinamiche. Questi musicisti sanno leggere la musica ed eseguirla perfettamente. Un’altra cosa molto positiva è che, quando queste orchestre saliranno sul palco, avranno eseguito le canzoni non più di un paio di volte, durante le prove, e quindi sarà tutto ancora molto fresco e si percepirà l’emozione che deriva da questa freschezza. È diverso da quando una band prova per sei settimane prima di andare in tour».
I live con orchestra sono diventati da anni un genere musicale a sé. Gli Who sono appena passati da Firenze, per esempio. «Io li ho visti fare Tommy alla Royal Albert Hall ed è stato grandioso, anche se ovviamente Zak Starkey non valeva Keith Moon. Ci sono anche spettacoli di questo tipo che non mi sono piaciuti, ma non farò nomi». A questo punto ci viene la curiosità e insistiamo. «Ok, ok: il tour orchestrale dei Sex Pistols era pessimo!», dice e davanti alla nostra faccia sbalordita si ferma per un attimo e conclude: «Me lo sono appena inventato». Rispetto agli Who e ad altre band che rileggono in chiave sinfonica il loro repertorio, chiarisce che «in generale mi prendo più libertà, più impunità, perché provo un senso di proprietà del materiale. Spingo le cose avanti: non è solo Roxanne, ma è Roxanne con tutte le improvvisazioni che eravamo abituati a fare sul palco. Gli album dei Police venivano dal lavoro di Sting, di Andy e mio. Qui ci sono le mie visioni di queste canzoni, con il mio stile».
A proposito di Sting e Andy Summers, avranno ascoltato questo nuovo album? «Non so se l’hanno ascoltato, ma sono al corrente della sua uscita. Sting mi ha molto incoraggiato, a lui piace quando fanno le sue canzoni. Non gli ho mandato i file audio ma gli ho mandato una copia di questo», dice Copeland mentre inizia a sfogliare un enorme librone. All’interno, spiega, ci sono tutte le trascrizioni delle parti dei brani. «Gli sarà andata insieme la vista ma la cosa l’ha colpito molto». Chissà, forse verrà a vedere uno dei concerti, dato che spesso è in Italia. «Certo! Vive vicino a Firenze, e dato che suoneremo proprio là…».
Se tra gli obiettivi del nuovo album c’è quello di portare la musica dei Police al pubblico di oggi, Copeland sostiene di non riuscire a individuare le influenze del trio nei suoi colleghi del 2023. «Mi accorgo semmai delle differenze», spiega. «Ma è sempre stato così: quando sentivo dire, per esempio, che i Men At Work somigliavano ai Police, mi accorgevo delle differenze e non delle somiglianze. Forse non sono la persona più adatta a fare questi confronti».
Fin da quando erano in attività, dei Police si è sempre detto che erano una band unica. C’erano dei contemporanei con cui sentivano di avere un’affinità? «I B-52’s, i Damned, i Talking Heads e i Blondie», risponde in quest’ordine. «C’erano davvero grandi band in quel periodo ma non trovavo in loro particolari affinità con i Police, anche se c’erano delle idee che ho rubato da tutti loro: è quel che fanno i musicisti. Poi queste idee non si riescono a individuare perché le ho nascoste in maniera intelligente. Ci siamo tutti ispirati a vicenda, anche se nessuno di loro faceva il nostro strano reggae e noi non abbiamo mai fatto niente che somigliasse ai B-52’s»
Un grande fan dei Police era Taylor Hawkins. Il suo ricordo di Stewart Copeland pubblicato sulle pagine di Rolling Stone è stato molto toccante. Inevitabile chiedergli cosa pensi della scelta di Josh Freese come suo sostituto nei Foo Fighters. «Taylor è venuto qui al Sacred Grove e ha picchiato sulla batteria proprio qui, come Neil Peart», dice mentre mostra le batterie e i seggiolini su cui si sono accomodati i batteristi dei Foo Fighters e dei Rush. «Abbiamo fatto delle belle jam, anche con Stanley Clarke e altri ancora. Si possono cercare su YouTube, sono gratis, non l’abbiamo fatto per scopi commerciali. Josh Freese è un Foo completamente nuovo. Mi piaceva molto il modo in cui suonavano con Taylor e adesso sono un gruppo diverso. Musicalmente è la scelta perfetta. Mi ha sorpreso perché pensavo che avrebbero scelto un personaggio del tutto nuovo, che nessuno conosceva, mentre Josh è noto per aver suonato con un sacco di musicisti, dalle band heavy metal ai Devo. Ma poi ho capito che l’hanno preso per fare una cosa diversa. Quando Andy Summers è arrivato nei Police, aveva suonato con tutti, ma voleva essere nella band, essere sulle copertine dei dischi. Per Josh è la stessa cosa, i Foo Fighters non volevano un session man, ma uno che fosse un membro della band. Ha tutte le caratteristiche per essere quello che cercavano: ci sa decisamente fare come musicista, si sa comportare, è un’ottima persona, e sono molto contento all’idea di vederlo suonare con loro».
Nel prossimo autunno, Stewart Copeland pubblicherà anche The Police Diaries, un librone fatto di estratti dai suoi diari scritti tra il 1976 e il 1979, con aneddoti, scansioni, fotografie e altri materiali relativi agli anni precedenti al grande successo dei Police. «Ho ritrovato quel materiale e ne ho tirato fuori un coffee table book in cui si potranno vedere la mia pessima calligrafia, i miei scarabocchi, ma anche tutte le ricevute degli studi e dei locali dove abbiamo suonato, quanto ci hanno pagato, quanta gente c’era, se abbiamo suonato bene o male. Ho scelto di raccontare “gli anni della fame” dei Police perché mi sono sembrati la parte più importante della storia. Più tardi, quando siamo diventati un gruppo di successo, i palazzetti e gli stadi mi sembravano un po’ tutti uguali. All’inizio, quando eravamo noi due e Henry Padovani, io e Sting ce la siamo passata tutt’altro che bene, ma ci siamo legati l’uno con l’altro. E non avevamo ancora pezzi come Roxanne, per non parlare di Every Breath You Take. In compenso avevamo le mie pessime canzoni. Quando poi è arrivato Andy, che aveva suonato con Kevin Coyne, con Joan Armatrading, con Kevin Ayers e con altri ancora gli ho chiesto: “Perché hai lasciato una carriera più o meno sicura per far parte di una band finto punk che non andrà da nessuna parte?”. E lui, ricordandosi di un altro con cui aveva suonato, ha risposto: “Non lo so, che dici? Avrei dovuto fermarmi a Neil Sedaka?”».
«Poi non è che con Andy le cose siano subito andate bene. Il primo barlume di successo è stato quando ho pubblicato qualche canzone con lo pseudonimo di Clark Kent, infatti non perdo occasione di ricordare a Andy e Sting che la prima volta che li hanno visti in televisione è stato quando siamo andati a Top of the Pops per cantare Don’t Care. Sting aveva una maschera da gorilla. Insomma: all’inizio erano la mia backing band».