Qualche anno fa suonavo in un garage trasformato in sala prove. Era una piccola stanza rettangolare, quasi un corridoio, sommersa di piramidali, cocci di birra e poster di concerti improbabili. C’era anche una maschera di David Hasselhoff, ma nessuno sa dire come sia arrivata lì. In un posto così non c’è niente che non sia speciale: sonorizzare l’ambiente, costruire l’impianto elettrico, accendere la prima volta l’amplificatore, è davvero complicato spiegare la gioia che prova una band mentre costruisce il suo nido, il suo rifugio. Ed è a quel corridoio ricoperto di amplificatori che torna la mia memoria mentre intervisto Stewart Copeland, Adrian Belew, Mark King e Vittorio Cosma, i quattro Gizmodrome, una band nata in Italia e che ora si appresta a partire per il suo primo tour.
Il progetto esiste proprio grazie alla sala prove e alle sensazioni che si provano lì dentro. Libertà, gioia, cazzeggio, è questo che ha portato Copeland e soci a prendere un aereo per venire qui, a Milano, a registrare un disco e ora a preparare un tour. Li aspetto nell’anticamera di uno studio in zona navigli, e il primo ad arrivare sul posto è proprio il batterista dei Police. «Adesso prenderò due caffè, poi mi metterò proprio lì accanto a voi», dice scendendo le scale dell’ingresso, come una di quelle persone che annunciano le proprie azioni. Io, un po’ per rompere il ghiaccio, un po’ per non soccombere all’ansia di dover intervistare in un colpo solo membri di Police, King Crimson, Talking Heads, Level 42 ed Elio e le storie tese, gli chiedo se due caffè siano sufficienti per le doppie prove che lo aspettano.
Nei Gizmodrome, infatti, Copeland non si limita a fare il batterista: canta, suona la chitarra, un frontman vero e proprio. «Certo che mi bastano due caffè!», dice. «Uno per far partire il motore, il secondo per diventare rock ‘n roll. Comunque, adesso capisco come mai Sting e Bono parlano così poco la mattina, e sempre con una voce sussurrata. Those fuckers».
Nel frattempo sono arrivati tutti gli altri. Adrian Belew si nasconde in un angolo a cambiare le corde della sua Parker argentata, Mark King scambia due parole con i tecnici. Vittorio Cosma, unico italiano della formazione e vero e proprio collante di tutto il progetto, è seduto accanto a noi. Il suo sguardo nasconde una gioia enorme. Il mio solo ansia. Che sparisce in pochi secondi, perché Copeland e soci non trasmettono altro che leggerezza, tranquillità. Si passano tra le mani il mio registratore per fare una prova voce, così da permettermi di distinguerli senza problemi durante la trascrizione. Non mi era mai capitato, e devo ammettere che a guardarli sembrano davvero una band di ragazzini.
Il progetto nasce più di 10 anni fa, si chiamava solo ‘Gizmo’ ed era una specie di gioco estivo. Che cosa è cambiato?
Copeland: Ora siamo una band! Per anni non c’è stato niente: nessun progetto, nessun piano, niente etichetta discografica. Poi sono arrivati questi ragazzi ed è diventata una cosa seria, d’alta classe. Tutto è cominciato con una telefonata di Vittorio. “C’è questa etichetta che vuole trasformare il nostro hobby estivo in un disco”. Poi ha aggiunto: “E posso chiamare Adrian Belew”.
Cosma: Il merito è di Otar Bolivecic – Claudio Dentes, produttore di Elio e le storie tese. Un giorno è venuto nel mio studio e gli ho raccontato del mio progettino estivo con Stewart. Si è arrabbiato all’istante: “Cosa? Hai un gruppo con Copeland e me lo dici così? Ma tu sei matto!”. Nel giro di una settimana avevamo il contratto da firmare.
Un contratto discografico prima di essere una vera e propria band.
Copeland: Sì, assurdo eh?
Cosma: Abbiamo finito la line-up al telefono. Ho detto a Stewart che il mio sogno sarebbe stato Mark King al basso. E ovviamente lui aveva il numero.
Avete tutti delle carriere incredibili, ma ho letto in diverse interviste che questo è il progetto in cui vi divertite di più. Perché?
Copeland: Guardati intorno!
King: La cosa più bella è la combinazione tra i diversi membri della band, c’è davvero un’ampio ventaglio di registri musicali. C’è Mr. Belew con il suo stile King Crimson, Copeland con i Police e la sua musica per film. Poi c’è Vittorio, per me una persona nuova. Tutte le grandi band hanno bisogno di una “roccia” come lui.
Copeland: Sì, serve almeno un professionista.
Cosma: Sono io quello professionale, l’italiano!
King: Sì, noi siamo ancora dilettanti. Ma tornando al divertimento, sicuramente la “colpa” è anche dell’Italia. Abbiamo registrato qui e siamo stati benissimo.
Copeland: L’idea è di diventare tutti italiani, la miglior band italiana in circolazione. Soprattutto ora che Elio è fuori dai giochi (risate).
È vero che durante le registrazioni dell’album (a Milano, nello studio di Vittorio Cosma) siete diventati una specie di attrazione locale?
King: Di sicuro non io.
Copeland: Un po’ è vero, eravamo sempre in giro per i navigli. Dobbiamo tornare da Vito! Spero stia bene…
Perché? E chi è questo Vito?
Cosma: Il proprietario di un bar dove andavamo spesso, se non sbaglio ha avuto un attacco di cuore.
King: C’era uno spirito particolare, una sorta di affinità naturale con gli italiani. E con il cibo, diciamoci la verità: Vito non faceva altro che tirare fuori piatti da portata pieni di roba buonissima, ce li portava persino in studio! Sei lì che registri una linea di basso e ti appare sotto il naso un vassoio di prosciutto.
Adesso partirete per il tour vero e proprio. Cosa dobbiamo aspettarci? Sarete solo voi sul palco?
King: No, c’è un altro batterista con noi. Stew canta in molti dei brani, e suona anche un po’ con quella sua “perfida chitarra”.
Copeland: Non sapevo fosse perfida! Suono solo due accordi – La maggiore e Re maggiore -, ma con grande cattiveria. Un giorno imparerò anche il Si.
Cosma: Eh, il Si è più difficile (risate).
Niente batteria?
Copeland: No, faccio tutte e due le cose, anche insieme.
Ma è vero che è stato Dave Grohl a convincerti a cantare?
Copeland: Sì, durante un evento scolastico. La mia idea non è quella di fare il cantante-batterista virtuoso, io voglio diventare Dave Grohl.
Come mai avete programmato così poche date? Annuncerete qualcos’altro?
Copeland: Questa band decide il suo destino giorno per giorno. Noi abbiamo tutti carriere e vite complicate, e ogni volta che ci incontriamo decidiamo sul momento. Diciamoci la verità, nessuno di noi ha bisogno di essere qui. È come dice mio figlio: Se vuoi il miglior batterista in giro, sappi che sarà disponibile per poche ore al mese. Se invece ti accontenti di uno scemo, lui è libero tutti i giorni!
Insomma, un tour così piccolo è un buon segno per le vostre carriere.
Copeland: Sì, io ero impegnato a diventare un compositore per orchestra di successo (ride). Sai, la vera musica! Andava tutto bene, dirigevo la sinfonica di Chicago… poi il rock ‘n roll è tornato e mi ha trascinato di nuovo in sala con una band.
Che cos’ha di speciale la sala prove?
Cosma: L’artigianato. Non ci sono sequencer, basi, è tutto suonato.
Belew: Oggi gli album sono fatti in maniera molto diversa. Si lavora sempre in multitraccia, tutto è intonato digitalmente…
Copeland: Si sono perse tutte le imperfezioni.
King: Io sono cresciuto in un’epoca in cui erano proprio quelle le cose più affascinanti dei dischi! Andavi a cercare come un archeologo: “Ecco, qui John e Paul hanno sbagliato il coro!”. Quando si registrava su nastro e il brano era troppo lungo, si incollavano due bobine diverse e questo generava suoni strani. Un ottimo esempio è Whole Lotta Love dei Led Zeppelin, c’è un punto in cui la voce di Plant si distorce, ed era tutta colpa del nastro. Oggi non succederebbe mai, è una merda!
Copeland: Anche con i Police è successo, la parte operistica in Does Everyone Stare. Stavamo registrando a casa mia, era un disastro di cavi collegati dappertutto. A un certo punto una voce è arrivata attraverso un amplificatore, un’interferenza. Sting è andato fuori di testa, l’abbiamo messa nel disco solo per questo.
A proposito dei Police, è vero che alcuni brani dei Gizmodrome sono di quel periodo?
Copeland: Ce n’è solo uno, ma non l’abbiamo messo nell’album. Sono canzoni davvero vecchie: alcune le ho scritte da solo, al freddo, in qualche stazione abbandonata, con il vento nei capelli e il cuore spezzato. Altre per la pubblicità di una macchina (ride).
Stewart, in un pezzo che hai scritto per Rolling Stone hai definito For Free? di Kendrick Lamar una rivoluzione. Perché?
Copeland: Non è cambiato molto da Chuck Berry, dall’invenzione della rock band, è sempre lo stesso giro di accordi. Stesso suono, stesso ritmo… Non ci sono state grandi invenzioni. C’è il punk, è vero, ma quella è stata una rivoluzione nel taglio di capelli, non nella musica. Ora, finalmente, è cambiato qualcosa. All’inizio dicevo le stesse cose che mio padre diceva prima di me: quella non è vera musica. Poi mia figlia ha iniziato a farmelo ascoltare in macchina, mentre la accompagno a scuola… e devo dire che lo rispetto. Certo, appena se ne va rimetto su il mio Stevie Ray Vaughan, ma la verità è che hanno completamente reinventato la musica. E a quelli che dicono “non c’è nemmeno una batteria vera!” rispondo: è proprio questo il punto!
Cosma: Bowie l’aveva capito, il suo ultimo album deve molto a quello di Kendrick.
King: Ci sono etichette che stanno cambiando davvero la musica, pensa a Brainfeeder. Senza di loro non ci sarebbero artisti come Thundercat, lo adoro.
Copeland: Sì, e riescono anche a pubblicare delle hit! Suonando musica fusion, ti rendi conto? E piace ai 17enni. C’è davvero un Dio.
King: Il batterista di Thundercat ha più o meno i miei stessi ascolti. Non c’è niente di davvero nuovo in quella musica, però…
Copeland: Beh, la roba di Kendrick è nuova. Il groove è diverso, è unico. It’s quantized wrong.
Perdonatemi, ma non capisco.
A questo punto la band inizia a imitare i ritmi hip hop, una specie di beatbox collettivo.
Copeland: Diciamo che non è esattamente a tempo, ma non è un errore. È un fuori tempo del tutto particolare.
Cosma: Secondo me è quasi un cubismo musicale.
Copeland: Sì, e dovresti concludere l’intervista proprio con questa parola: cubismo.