La gente fa un sacco di domande a Stewart Copeland, ma raramente hanno a che fare con gli anni trascorsi in Medio Oriente. «Quando sei una pop star, ti ritrovi spesso a parlare dei tuoi fatti personali con un microfono puntato addosso», spiega l’ex batterista dei Police. «Ti cheidono chi sei, che cosa ti piace. È roba interessante, certo. Ma la prima domanda dovrebbe essere: da dove vieni?».
Quando qualcuno prova a fargliela, quella domanda, ne esce confuso. «Finisce spesso così: “Come, cosa?”. Cairo, Beirut, la CIA? Sono tutte cose irrilevanti per la mia identità, per quello che faccio e lo scopo che ho su questo pianeta. È una strana storia parallela».
Copeland la racconta in My Dad the Spy, il suo nuovo podcast su Audible. È un viaggio nella vita di suo padre, Miles Copeland Jr., musicista, imprenditore e agente segreto della CIA (è stato intervistato da Rolling Stone US nel 1986). Parlando con storici e con i suoi famigliari – la sorella Lorraine e il fratello Miles Copeland III, già manager dei Police –, il batterista scopre che il padre è stato coinvolto in assassinii, colpi di stato e molto altro.
Dalla sua casa a Los Angeles, Copeland ci ha parlato del podcast, dell’infanzia in Medio Oriente e dell’eredità del padre.
Hai sempre desiderato raccontare la storia di tuo padre?
Io e i miei fratelli ne siamo sempre stati affascinati, perché è davvero strana. Non ci preoccupava all’epoca, ma guardando indietro uno pensa: perché diavolo sono cresciuto a Beirut, in Libano? Mio padre era un uomo interessante e un grande narratore. Se hai ascoltato il podcast, sai che tutte le sue storie erano pazzesche e non sapevamo mai quali fossero vere e quali no.
Nell’ultimo decennio, però, i libri di storia che trattano di quel periodo hanno un certo impatto su quello che accade in quelle parti del mondo. Molte delle cose scoperte dagli storici si sono rivelate vere, come il raid di Damasco, quando mio padre ha aizzato una folla per attaccare la casa di un diplomatico americano – casa Copeland – e organizzato una falsa rivolta che è stata sedata dai carri armati. E giacché erano in giro, si sono presi le radio e il palazzo, una sorta di colpo di stato in due passaggi.
Ora, questa è sempre stata la terribile storia della buonanotte a casa Copeland. I banditi circondano l’edificio e iniziano a sparare, poi qualcuno grida: «Oh dio! Non dovevano essere armati!». E gli agenti della CIA sono rannicchiati sotto il tavolo della sala da pranzo, mio padre chiama il suo contatto a Beirut per dirgli: «Sono tutti armati là fuori». Poi c’è la sua frase più famosa: «Devo mettere giù, adesso, stanno sparando a me personalmente!». È una storia divertente, ma è successo davvero? Questa domanda ci ha portati a fare il podcast, a usare Audible e le nostre risorse per capire se c’è un fondo di verità. Con nostra grande sorpresa, c’è.
Hai intervistato tantissime persone per questo progetto. Quanto è stata complessa la ricerca e quanto ne sapevi prima di iniziare?
Devo dire che gran parte del merito è di Ian Callahan, il produttore dello show e il principale autore delle ricerche. Gli abbiamo raccontato i nostri ricordi e le storie che sentivamo a cena, lui è andato in giro e ha trovato persone che erano coinvolte in quelle storie e ha messo insieme i pezzi. Ho imparato molto facendo lo show. Non sapevo tutto quello che era accaduto quando [il primo ministro dell’Iran] Mossadegh consolava lo Shah. Sapevo molto del [presidente] Gamal Abdel Nasser in Egitto e della Siria. Ma c’erano tante cose che ignoravo ed è stato grande trovare storici in grado di gettare luce su quello che ci raccontavano a cena.
Tuo padre era famoso per abbellire le sue storie, spesso diceva: «non lasciare che i fatti rovinino un bel racconto». Nel podcast scopri che non ha davvero suonato con Glenn Miller. Ti ha deluso?
(Ride) Tra tutte le storie che raccontava l’unica falsa era proprio quella! Ne sarebbe orgoglioso. Sai perché? Era uno snob del jazz. Stan Kenton, Dave Brubeck, Buddy Rich e tutti gli altri. Mi ha deluso scoprire che mio padre ha dedicato solo poche pagine dei suoi scritti alla sua carriera nel jazz, anche perché era l’unica cosa che mi interessava. Ho una tromba. La sto guardando adesso. È una Conn Coprion del 1942, una tromba top di gamma. Era sua. Ridacchierebbe scoprendo che è proprio questa l’unica parte della sua illustre storia a finire cancellata. «Grazie a dio», direbbe.
Hai scoperto che tuo padre lavorava nella CIA quando avevi 17 anni. Cosa ti è passato per la testa?
Era comunque qualcosa che sentivo vivendo a Beirut, si parlava sempre di cose del genere. Non è stata una sorpresa. La verità si è rivelata strada facendo in maniera incrementale. Poi da un giorno all’altro è diventato ufficiale. Il caso Kim Philby è stato la vera sorpresa. Ma non per il mio amico Harry, suo padre è sparito e si è scoperto che era un infiltrato della Russia. Ha aperto gli occhi a tutti.
A mio fratello Miles non piace che abbia messo la parola “spia” nel titolo del podcast, perché mio padre non lo era. Era un comandante di stanza. Non era uno di quei troll col colletto alzato.
Ok, ma non c’è titolo migliore di My Dad the Spy.
In realtà c’è. Il titolo di lavorazione era Spy Daddy.
Crescere in Medio Oriente ha influenzato il tuo modo di suonare la batteria?
Profondamente. Guardavamo per un’ora a settimana The Voice of America, un programma pop in cui suonavano i Ventures e i Beach Boys. Anche la BBC aveva una cosa simile, un’ora di musica pop con Manfred Mann, i Beatles e gli Stones. In quanto americani all’estero, la nostra identità nazionale era molto importante. All’epoca, nel Terzo Mondo, l’America era luminosa, brillante, nuova e buona. Ci identificavamo in quelle cose e non nel caos che ci circondava. Non ci rendevamo conto di essere al centro dell’Impero Ottomano. Quelle terre erano attraversate da soldati. In quelle fortificazioni si combattevano le crociate. Io ne ero consapevole perché mia madre, che faceva l’archeologa, ci faceva fare dei picnic in quei posti. Giocavamo a crociati e saraceni invece che indiani e cowboy. Nel nostro caso, i saraceni vincevano tutte le battaglie e scacciavano i crociati.
E intanto, mentre ignoravamo la cultura che ci circondava, questa influenzava il nostro DNA. Per qualche strana coincidenza, anni dopo, mentre facevo il dj a Berkeley in California, la radio in cui lavoravo ha ricevuto il disco di Lively Up Yourself di Bob Marley. Ho pensato: ehi, aspetta un attimo, io questa musica la capisco! Era il classico ritmo baladi degli arabi. È uno degli elementi fondanti del reggae, in cui il si enfatizza il terzo quarto della battuta e si ignora il primo quanto più possibile. Il che significa che nel 1978, quando i Clash hanno avuto l’idea geniale di provare a suonare il reagge, e nei punk club erano tutti fissati col dub, per me era facile suonarlo perché ce l’avevo nel DNA. È così che la musica araba ha influenzato i ritmi dei Police.
Hai detto che essere il più giovane di quattro fratelli e fare il batterista hanno qualcosa in comune. È interessante…
Sì. Mi confondeva quando i Police litigavano, all’epoca… sì, è successo davvero, ma lo facevamo con amore. Eravamo giovani e instabili. Ma la gente era convinta che fosse una questione di invidia o di ego. Sì, c’erano dei conflitti, ma non era mai quello il punto. Litigavamo ferocemente su altre cose, come chi decide la direzione del gruppo. Discutevamo di profondi principi artistici, cose a cui è giusto tenere moltissimo. Ma gelosie del successo… non esiste, scherziamo? Arrivavamo in un posto e c’era la folla, buttavamo Sting fuori dalla limousine e facevamo il giro per evitare la gente.
È come essere il fratello minore. Il nostro illustre leader era il fratello maggiore. Per lui stare al centro dell’attenzione era la cosa più naturale al mondo, ecco perché andavamo d’accordo. Faccio un’ipotesi: scommetto che Andy era il figlio di mezzo. Non ne ho idea, ma scommetto che è così.
Tuo padre è stato reclutato da “Wild Bill” Donovan, il capo dell’Ufficio dei Servizi Strategici. Che cosa vide in lui?
Aveva il dono della parlantina, era un tipo divertente in un mondo di aristocratici della East Coast. Era figlio di un dottore, un jazzista di Birmingham, Alabama. Per emergere in mezzo a quei tipi di gran classe doveva avere una gran personalità.
Che cosa avrebbe pensato dell’attuale politica estera americana?
Disastrosa. È morto prima dell’invasione dell’Iraq, ma aveva capito che ci sarebbe stata. Diceva: andranno in Iraq, non glielo abbiamo impedito. Sai, quando lavorava mio padre non c’erano soldati americani sul terreno, non c’erano centinaia di migliaia di morti. Forse uno o due nel mondo dello spionaggio e della realpolitik, ma non le centinaia di migliaia di oggi. Per lui l’11 settembre era un atto supremo di terrorismo, un modo per far male a un avversario palesemente più forte di te. Per i terroristi era una sorta di atto poetico. Mio padre avrebbe visto la reazione all’11 settembre in questa luce. Tipo: aspetta un attimo, è vero che dobbiamo acciuffare quel tipo, ma non fare due guerre. Sarebbe stato inorridito.
Il punto, e lo dico da persona cresciuta nel Medio Oriente, è che il presidente degli Stati Uniti ha ammazzato più americani di Osama Bin Laden. Per non dire dei 100 mila iracheni che ha ucciso. Sì, siamo stati noi. Non confesseremo mai quel che abbiamo fatto, lo stupro di un intero Paese. Non ci giudicheremo mai per quell’atto.
Nel podcast chiedi scusa agli iracheni morti in guerra.
Sono fratelli. Gli arabi sono miei fratelli. Sono cresciuto con loro. Non somiglio a loro, non parlo la loro lingua, ma mi ci identifico così che qui in America ci si identifica con i fratelli neri, che amiamo e ammiriamo. Noi siamo loro.
Ora che c’è Donald Trump il giudizio su George W. Bush si è ammorbidito. Come la vedi?
È strano. Il carattere di un Presidente è fondamentale. Non si può far finta di niente e dire: “Le sue politiche però sono buone”. Non ne so abbastanza di politica, ma pare che George Bush sia un bel tipo, premuroso, onesto, una brava persona. Ma ha fatto grossi errori. Credo che ogni Presidente cerchi di fare del suo meglio e debba prendersi le sue colpe. Nessuno però ha la sfera di cristallo, nessuno può prevedere il futuro. Insomma, per giudicare così duramente George Bush devi essere dio. E io non lo sono.
Dopo il podcast, le ricerche, le interviste hai cambiato idea sul lavoro di tuo padre?
Sarò di parte, ma sto dalla sua parte. Il suo lavoro consisteva nel mantenere il flusso di petrolio non verso l’Unione Sovietica, dove c’era la Guerra fredda, ma verso le fabbriche d’America. Era la sua missione e l’ha portata a termine.
Parlando di musica, come va col tuo studio, il Sacred Grove, in questo periodo di pausa?
È estremamente pulito come immagino siano le scarpiere di tanti americani costretti a stare a casa.
L’ultima volta che ci siamo parlati mi hai detto che lo show degli Oysterhead al Bonnaroo non si sarebbe tenuto a causa della pandemia. Ora è stato ulteriormente rimandato. Ci avevi preso.
Difficile prevedere che cosa accadrà. Il primo show che dovrei fare è previsto in gennaio in Polonia, col progetto Police Deranged for Orchestra. Tutta una serie di concerti sono stati via via rimandati al 2021 e vale anche per gli Oysterhead. Il 2021 sarà il 2020 in ritardo di un anno. Ma al momento è tutto in forse. Sembrava che in Polonia le cose si fossero un po’ sistemate, poi proprio questa settimana c’è stato un picco.
Non c’è modo di sapere come andranno le cose. Stai scrivendo molto a casa?
Sì. La prossima estate ci saranno le prime mondiali di due mie opere ad appena un mese di distanza l’una dall’altra. Una sarà al Deutsches Nationaltheater di Weimar, in Germania, l’altra in Italia, in alcune grotte sopra il Lago Maggiore. È stato un periodo intenso.
Farai altri podcast?
In questo caso specifico avevo qualcosa di interessante da dire, ma sì, è un mezzo divertente. Sono contento che Audible abbia proposto il mio podcast, fra i tanti del suo incredibile catalogo, per una nomination ai Grammy per gli Spoken Word. E già che siamo in modalità autopromozione, vi dirò che in Inghilterra sono nella top 5. La mia rivale, lì, è Meghan Markle.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.