«Tutto è nato per caso a capodanno», racconta Sting, seduto a capotavola della sala riunioni dell’Hotel Bulgari di Milano. Schiena bella dritta, mani aperte come fosse il CEO di un’azienda riunita in consiglio d’amministrazione. «Mi è stato chiesto di suonare Brand New Day a Times Square al concerto dell’ultimo dell’anno, perché credo che sia una canzone molto ottimista. Ho accettato di cantarla dal vivo, ma quel pomeriggio l’ho anche registrata in studio. Quando l’ho registrata per la prima volta avevo 21 anni, quindi mi piaceva l’idea di darle una registrazione più contemporanea». Insomma, un meticoloso perfezionista, che riaggiorna il passato al presente. Non il contrario.
Da quella scintilla si è originato My Songs, raccolta uscita il 24 maggio che molto intuitivamente riunisce canzoni scritte dal musicista inglese (da solista o coi Police) ma ri-registrate nel 2019, mantenendo fedelmente ogni elemento nel mix ma sfruttando tecnologia e tecnica di questo secolo. Normalmente uno storcerebbe il naso – in fondo, è una raccolta nostalgica che mette d’accordo i fan della prima e dell’ultima ora – ma essendo Sting reduce da un album solista e uno incredibile a quattro mani con Shaggy (vincitore di un Grammy oltretutto), direi che stavolta non c’è proprio da storcere nulla. In più, a mani basse, è un disco che si fa ascoltare proprio volentieri.
«Ho scelto molte mie canzoni famose, ma siccome sono più vecchio di quando le ho registrate riconosco che la mia voce è diversa. Ha più struttura, è più interessante. Oggi la mia sensibilità artistica è più sofisticata», cerca di scendere a patti con il tempo Gordon Matthew Thomas Sumner, oggi sessantasettenne. «Quindi le ho registrate di nuovo, le ho aggiornate alla mia voce attuale. E finora nessuno si è lamentato.» Risata collettiva dei giornalisti. Ormai il suo grado di leggenda ha raggiunto una solidità sufficiente da permettersi di riunire in una stanza più testate e concedere 20 minuti di round table (una domanda a testa, tipo guru coi discepoli), figuriamoci se uno trova anche il coraggio di lamentarsi o mettere in discussione una sua scelta. Scelta che, detto tra noi, ha pure motivazioni inattaccabili.
«Per ogni canzone, nel CD ho scritto anche un breve commento per contestualizzarla. Quando l’ho scritta, come, perché, com’era il mondo quando l’ho scritta. Perché oggi con lo streaming uno ascolta canzoni senza un contesto. È come il caffè». Spulciando qua e là le descrizioni dei brani, spesso il ragazzone si sofferma su descrizioni molto precise, quasi tecniche, come se stesse raccontando la genesi dei brani a un suo turnista.
In particolare, Sting sembra avere una specie di feticcio sugli accordi. Ancora più in particolare, su quelli di nona. «L’inizio del viaggio è sempre quando le mie dita trovano un intervallo fra le note. Mi piacciono gli accordi di nona. Vedi, la maggior parte del rock and roll è fatta da accordi di quinta. Gli AC/DC sono incredibili, ma sono sempre quella roba lì, è più chiusa. Accordi come quelli di sesta, nona, quelli diminuiti o eccedenti, sono tutti accordi che aprono la narrativa. Si aprono a molteplici interpretazioni. A me piace raccontare storie, è l’accordo è sempre l’inizio di una storia».
Peccato però che la madre di tutte queste storie, la Fender Stratocaster nera con cui ha scritto gli inni più famosi della sua carriera (tipo Message In A Bottle), ora non è più sua. «L’ho regalata allo Smithsonian» dice un po’ amareggiato, ma anche fiero che l’abbiano chiesto a lui. «Quelli del museo mi hanno chiesto qualcosa di importante, non potevo dargli qualcosa che non mi interessasse. Mi hanno detto: “Guarda, il nostro business è l’eternità”. E lì mi sono convinto. È stata dura, ma almeno ora sono in un museo».