L’11 novembre 2022 è uscito il Volume II (rigorosamente a numeri romani) di Torso Virile Colossale, dal sottotitolo Mondo Peplum. Le tracce, perlopiù strumentali o impreziosite talvolta da una collaborazione illustre come quella con Rachele Bastreghi, sono dodici come le fatiche di Ercole, ma ascoltarle è tutt’altro che gravoso, se si entra in sintonia con l’idea che siano ciascuna un pezzo di una piccola, grande scatola Lego musicale a tema Antica Roma, in cui cultura e culturismo, sesso e ludi scaenici, classica e psichedelia dialogano come parti integranti di un unico discorso su quanto la storia, riarrangiata dalla musica, ci possa dire ancora molto non solo del presente, ma perfino del futuro.
Nel corso di questa conversazione con Alessandro Grazian, fondatore di Torso Virile Colossale e autore di tutti i brani del progetto, abbiamo cercato di capire meglio l’estetica del mondo, sonoro quanto visivo, che ha costruito grazie all’opera di meticoloso cazzeggio tipica di chi sa giocare con molta serietà. Affidando a titoli come Chi guida l’orgia? e Babilonia violenta la missione di scovare l’universale nel particolare, celebrando le nozze mistiche tra i riff forgiati nel metal e i polpacci avvolti nel cuoio, il musicista padovano ha inventato un genere musicale che non esisteva ancora, atto a fare da colonna sonora a un genere cinematografico che non esiste più.
Pensando agli sforzi produttivi che il cinema italiano ha dedicato al peplum l’uomo della strada può pensare che la questione possa essere anche psicanalitica, partendo dalle difficoltà che aveva e ha il nostro popolo, con un passato prossimo e presente come quelli che si ritrova, di fare i conti con un passato remoto come quello che ha avuto. Forse per questo il peplum ha rappresentato la storia non necessariamente con rigore filologico o con chissà quali effetti speciali, ma con sincera e travolgente ammirazione, indissolubili da un filo sempre teso di autoironia. Come ti è venuto in mente di fare musica peplum?
Innanzitutto devo dire che la scintilla è stata autobiografica. Ho scoperto quel cinema spinto dalla curiosità che avevano generato in me alcune foto di mio padre da ragazzo, che giravano per casa. Nei primissimi anni ’60 – epoca d’oro del peplum – mio padre era stato uno di quei ragazzi, di estrazione molto popolare, che andavano al cinema a vedere quei film e se ne ossessionavano. Ciò li fece avvicinare, da un lato, alla storia e alla mitologia e, dall’altro, alla ginnastica e al culto della forma fisica. Era una forma di culturismo molto empirica, che arrivava dritta dalla California dei Mister Universo. Ho tutt’ora queste foto di lui vestito con dei costumi di scena improvvisati: era una cosa molto innocente. Fatto sta, però, che per molto tempo i suoi amici hanno continuato chiamarlo Maciste. Il resto sembra un mito fondativo romantico: quando trovo questa scatola con le fotografie capisco che l’emancipazione di mio padre era passata anche attraverso questo percorso, e che la mia sarebbe passata attraverso la musica.
Perché proprio la musica?
In casa mia non se ne ascoltava affatto, non c’era neanche un giradischi. Ho sempre sofferto il fatto di non poter vantare, come tanti miei amici facevano, che mio padre mi avesse fatto scoprire, ad esempio, The Dark Side of the Moon. Così è stato il peplum a diventare per me il collegamento culturale con la mia storia personale.
Cos’altro ti ha insegnato quel tipo di cinema?
Esplorandolo, perlopiù la mattina su Rete 4, ho scoperto un grandissimo laboratorio creativo misconosciuto, fondato sull’arte del risparmio come risorsa creativa e fatto di registi, attori, sceneggiatori, addetti agli effetti speciali, maestranze di ogni tipo, che arrivavano a fare 40 film all’anno. Molti di loro colsero questa occasione per sperimentare, quasi altrettanti ne hanno poi preso le distanze.
Com’è andata a finire la storia del peplum?
Più di molti altri generi il peplum ha subito le rivoluzioni di costume della seconda metà del secolo scorso, invecchiando un po’ male, finendo per fare da riempitivo ai palinsesti televisivi. Ma forse proprio per questo ha mantenuto intatta la sua fascinazione.
Come si innesta su queste basi il tuo pensiero musicale?
Ho cercato di unire questo tipo di cinema – che ha un’aspirazione musicale classica e molto ariosa – a una dimensione sonora per così dire muscolare, legata soprattutto alla chitarra elettrica, che è stata il mio primo strumento da ragazzo. Del resto il peplum, che chiuse bottega a metà degli anni ’60, non fece in tempo a vedere neppure gli albori del proto-metal. Questo progetto è nato mentre ne stavo facendo altri, più morigerati, al grido di una parola chiave: esagerazione. Ho provato ad aprire tutti i rubinetti, sentendomi completamente libero per la prima volta.
Ci regaleresti una piccola guida alla visione del peplum, con qualche titolo per te essenziale?
Le fatiche di Ercole di Pietro Francisci ha avuto il merito di fondare il genere, mettendo per la prima volta non un attore ma un culturista californiano di nome Steve Reeves nei panni del dio. Un altro titolo imprescindibile è I giganti della Tessaglia di Riccardo Freda, sul mito degli Argonauti. Poi Ercole al centro della Terra di Mario Bava, interessante perché ha delle derive fantasy e, per finire con un film spiritoso, Arrivano i Titani di Duccio Tessari.
Nel Volume II è ancora più presente un certo tuo umorismo di fondo, che si realizza nel contrasto tra la solennità e la pompa degli arrangiamenti e l’ineffabile ironia dei titoli, come quando, prima di ascoltare Fenici miei, immaginiamo gli schiaffi alla gente in partenza sulle navi pentecontere.
Il peplum aveva una componente ironica più o meno volontaria molto forte. È una lente deformante della storia, anzi di due storie: una ambientata, ad esempio, a Palmira, per mostrarci la vita della regina Zenobia; l’altra all’epoca in cui il film è stato girato, con le sue acconciature, la sua idea di violenza o di erotismo. La posta in gioco nel raccontare il mito antico era talmente enorme che succedeva un po’ di tutto, vuoi perché le scenografie o i dialoghi arrivavano solo dove riuscivano ad arrivare, vuoi perché gli autori si divertivano a produrre dei veri e propri inside jokes. Soprattutto visto con gli occhi di oggi questo cinema spesso strappa un sorriso. Ho fondato Torso Virile Colossale pensando a questa componente, che non è mai canzonatoria, ma funzionale ad affrontare l’impresa dal punto di vista creativo, senza eccessiva rigidità e con molto divertimento. Il secondo disco è pensato sì come un grande giocattolo ma tiene conto di tanti riferimenti che raccontano la nostra epoca, proprio come il cinema peplum, malgrado tutto, raccontava la sua. E i titoli dei pezzi erano l’occasione migliore per farlo.
Nonché l’unica, visto che non ci sono testi. In pratica sei sempre in bilico tra la colonna sonora di film peplum che non saranno mai prodotti e la sonorizzazione di tanti Ercolini mentali girati nelle menti di chi ti ascolta.
Il mio desiderio è che non ci si approcci all’ascolto di questi brani come se fossero scritti in funzione di immagini, cosa che avviene, appunto, per la sonorizzazione del cinema muto. Anzi, quando ci esibiamo dal vivo e proiettiamo delle immagini di film il processo è quasi al contrario: scegliamo le scene in base alle musiche già composte. Ma questo serve più che altro a invitare gli ascoltatori a fare ciascuno il proprio viaggio.
La tua missione è continuare, eroicamente, a infondere vita a un mondo che non c’è più; oppure aspetti al varco la prima occasione di scrivere la vera colonna sonora del prossimo capolavoro neo-peplum?
Il peplum ci ha impartito una grande lezione: la storia del mondo antico contiene tutti gli archetipi dell’umanità ed è per questo una fonte inesauribile. Mi piacerebbe tantissimo scrivere la colonna sonora di un film. Non so, realisticamente, quanto questo cinema possa avere delle chance ancora oggi. È vero che il Volume II è un omaggio più esplicito che mai al cinema peplum. Ma è vero anche che il cinema peplum è un’occasione per riscoprire un immaginario sconfinato, da raccontare anche attraverso la musica. Certi riff di chitarra elettrica non li avrei mai potuti scrivere per delle canzoni, ma solo declinarli su un concept così estremo e così chiaro.
Apple Music cataloga il genere di Torso Virile Colossale come “classica crossover”, ma potrebbe essere anche psichedelica neoclassica o metal post-imperiale. Cosa che presenta il vantaggio di non avere competitori ma anche lo svantaggio, o forse l’opportunità, di dover incontrare il pubblico in modi non convenzionali. Come incontrate il vostro pubblico?
Nel 2017, prima che uscisse il Volume I, ho realizzato una trasmissione radiofonica in nove puntate, che si trovano ancora su SoundCloud, per divulgare il cinema peplum e introdurre il nostro progetto. In coda a ogni puntata veniva trasmesso un frammento di 30 secondi di un brano del Volume I. Una volta uscito il disco è partito uno showcase da testa d’ariete, in qualunque posto ci accettasse: ci esibivamo solo in duo, chitarra elettrica e percussionista.
Un Torso Virile Piccolissimo.
Questo è servito a vendere i primi dischi e creare i primi contatti, tra cui quello coi Musei Civici di Reggio Emilia, i cui responsabili si innamorarono del progetto. Lì portammo per la prima volta la formazione al completo.
Chi suona la tua musica condivide con te le stesse motivazioni? Come vi siete ritrovati intorno a un progetto così particolare?
Li ho un po’ trascinati nelle nave, nel salpare. Sono tutti musicisti che provengono da diversi progetti con in comune un’idea molto creativa di musica e una prospettiva non da puri strumentisti. Non ho mai chiesto loro di vedere almeno 50 peplum prima di suonare, ma molti di loro erano appassionati di cinema, altri lo sono diventati.
Le grafiche della copertina, dei libretti, del poster, che realizzi personalmente, sono un valore aggiunto essenziale dell’esperienza del disco. Fatte le dovute proporzioni con la fetta di mercato che vi segue, vendono bene?
Non conosco i numeri delle vendite del mercato mainstream. Penso che nei grandi progetti dell’industria musicale il supporto fisico, oggi, abbia un peso relativo. In un progetto come il nostro è diventato essenziale. Ai concerti vendiamo tanto i vinili quanto il libro, e ora anche le cassette. Mi piace tantissimo disegnare, almeno quanto mi piace la musica, e ho provato a declinare l’immaginario di Torso Virile Colossale anche su oggetti, come borse e magliette, che vendono bene in una piccola comunità in crescita che apprezza la riscoperta dell’elemento tattile.
La scelta di esibirvi dal vivo in luoghi archeologicamente rilevanti fa pensare al potenziale didattico del vostro progetto. È una linea che vi interessa percorrere in modo strutturato oppure vi interessa più dedicarvi smaliziatamente a chi già in parte condivide i vostri punti di riferimento?
Stanno accadendo delle cose molto stimolanti. Quest’estate abbiamo suonato al Parco Archeologico del Sodo a Cortona, al Museo di Santa Giulia a Brescia, in una villa romana sul lago di Garda. Abbiamo continuato la collaborazione coi Musei Civici di Reggio Emilia, sonorizzando il cosiddetto Portico dei Marmi. Ho tenuto una lezione all’Università di Bologna. Torso Virile Colossale è partito dal basso e contro ogni aspettativa, con tutti i rischi che comporta inventare qualcosa che non c’era, ma abbiamo evidentemente intercettato un mondo che ha bisogno di questo tipo di contenuti, al di là dei tormentoni sui social che ci divertono tanto (“Che gli dei vi proteggano”). E sono convinto che potrebbero essere proprio i luoghi la chiave per far crescere il nostro pubblico.
Possiamo aspettarci allora che una mappa delle esibizioni dal vivo si allarghi come la cartina dell’impero romano, prevedendo reali Estasi a Tor Caldara, magari in un giorno d’estate in cui ad Anzio tira il vento giusto?
Lo sogno, così come sogno di suonare alle cascate di Monte Gelato. Sono luoghi che hanno visto la storia del cinema e che emanano una potenza incredibile: amo andarci in pellegrinaggio. Come ci sono i monumenti tradizionali ci sono anche i monumenti della storia del cinema, e spesso sono fusi nel paesaggio. Un giorno spero di arrivare all’Arena di Pola.
E a Roma ancora no?
Ci stiamo provando ma non è così facile. Non esistono agenzie di booking per i siti archeologici. Servono figure di visionari all’interno dei musei, con voglia di osare e di capire che dietro una frase musicale di una certa aggressività timbrica possa celarsi una cavalcata di bighe falcate o una catapulta scagliata contro le mura di Babilonia.