Trent’anni di Vinicio Capossela. Il 12 ottobre 1990 usciva All’una e trentacinque circa, primo disco del cantautore allora venticinquenne, un debutto ben accolto dalla critica, premiato con la Targa Tenco per la migliore opera prima a pari merito con Passa la bellezza di Mauro Pagani. In seguito abbiamo assistito a una delle più belle avventure del cantautorato italiano, con un Capossela quasi famelico, intento ad arricchire sempre più la sua poetica di nuove e molteplici suggestioni sonore e letterarie. Ma il punto di partenza risiede là, in quelle canzoni nate come provini scarni, registrati su cassetta in un pomeriggio d’agosto del 1989 al Pjazza di Bellaria-Igea Marina, mentre si facevano le pulizie.
Era uno dei locali dove uno sbarbato Vinicio suonava la notte di fronte a “vecchi camionisti un po’ arrivisti, un po’ alcolisti, con la moglie lasciata a casa ad ingrassar, avventurieri di frontiera, che non san passare il sabato sera, senza finire ad ubriacarsi dentro un bar”. Questa la fauna che popola la title track, una parodia dello standard jazz Round Midnight, uno scioglilingua trascinante tra alcol e fantasia, ancora oggi uno dei pezzi più amati del repertorio di Capossela. «Chi ha lavorato in un bar lo sa, attorno all’una e trentacinque si prepara la chiusura, si iniziano a pulire i tavoli e a fare i conti alla cassa», dice lui. «Quella è l’ora della notte in cui è facile immaginare Dexter Gordon fotografato in bianco e nero, Parker, Billie Holiday e tutti i grandi perdenti del jazz che con la loro fiamma illuminano il cielo dei bar. È l’ora delle confessioni, dei sogni che vanno in scadenza. Mezzanotte è altisonante, all’una e trentacinque persino i fantasmi iniziano a demordere. Le reti sono state già tirate, il pescato ha preso la sua rotta. Restano le confidenze e le proposte segrete».
Il suo album d’esordio vive di tutto ciò, ascoltandolo ci si ritrova catapultati nell’atmosfera di un night club fumoso di provincia, con qualcuno che ti sussurra all’orecchio le sue intime scorribande esistenziali, le sue storie di sbronze e notti passate a vagabondare, gli amori finiti, la solitudine, la nostalgia, i desideri che potrebbero non realizzarsi mai. «Fui molto fortunato a trovare il Pjazza e il suo straordinario creatore Roberto Mantovani», prosegue Capossela, che il 31 ottobre celebrerà il suo debutto discografico al Blue Note di Milano, nell’ambito della rassegna JazzMi. «Non era un locale, era un sogno, una specie di piazza mediterranea ricavata in quello che era stato un cinema. Quando Roberto disse che potevamo restare da lui a fare la stagione feci una delle corse all’alba sulla spiaggia più belle della mia vita. Fu una grande stagione. Suonavo a fine serata, quando la clientela era composta più che altro da speranzosi che aspettavano che le bellissime ragazze del bar staccassero. Le mie erano canzoni pre-biografiche. Forse anche i clienti presentivano la loro biografia». Una biografia ispirata da letture. «Amavo il racconto, più che il romanzo: I quarantanove racconti di Hemingway, Storie di ordinaria follia di Bukowski, Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. E poi, Chiedi alla polvere di John Fante, Opinioni di un clown di Heinrich Böll e tutto Ken Parker, il personaggio disegnato e sceneggiato in graphic novel da Berardi e Milazzo».
Prima e dopo c’era la vita vissuta, e all’epoca quella di Capossela era un incessante cercare occasioni per suonare. Al Pjazza, sì, ma anche al Corallo che dà il titolo alla decima traccia di All’una e trentacinque circa, e in molti altri bar dove la musica era amica preziosa di avventori con i sogni in tasca e il bicchiere in mano. «All’inizio eravamo in due, ci chiamavamo Blue Valentine, come il sesto disco di Tom Waits», ricorda Capossela ripensando ai primissimi passi durante gli anni dell’università e al duo formato con la fidanzata di allora. «Eravamo giovani e innamorati, con un gusto per un certo tipo di canzone, e avevamo una vecchia Opel Ascona verde che chiamavamo Valentina. Lei alla voce, io al piano, facevamo pezzi di Luigi Tenco, Édith Piaf, Marlene Dietrich, George Gershwin. Una volta rimasto solo continuai imparando qualcosa di Buscaglione, Carosone, Bruno Martino, Conte, finché un giorno, al piano bar Madonna Verona, che ancora esiste, la meravigliosa Madonna Luisa mi disse: “senta, ma lei non potrebbe suonare e basta, anziché suonare e cantare?”. Fu allora che, visto che le canzoni degli altri non mi riuscivano bene e non avevo repertorio per le richieste, iniziai a scriverne di mie. Almeno non le conosceva nessuno e nessuno era in grado di dire se erano cantate bene o male».
È così che sono nati i brani di All’una e trentacinque circa, le bozze registrate al Pjazza che si sarebbero trasformate in canzoni dopo essere state ascoltate da Renzo Fantini, manager di Paolo Conte e Francesco Guccini che ci ha lasciati dieci anni fa. Antonio Marangolo, arrangiatore dell’album e anche dei due successivi, racconta che «fu un caso se Fantini le ascoltò, ne riceveva a centinaia, di quelle cassette, e le teneva in uno scatolone senza avere il tempo di ascoltarle tutte, ma un giorno aveva un lungo viaggio da fare e così…». Pare, però, fosse stato Guccini a consigliare a Fantini di dare una chance a quel cantautore ancora in erba, lui che già lo aveva accolto e ne aveva apprezzato i provini nella sua casa bolognese in Via Paolo Fabbri 43 dopo un incontro al bancone del bar del Teatro Ariston di Sanremo in occasione di un Premio Tenco. «Fu la mia fidanzata del tempo ad avvicinarlo, le devo moltissimo, io non l’avrei mai fatto», ammette Vinicio.
La timidezza, del resto, è il tratto caratteriale che gli riconoscono i musicisti che hanno suonato nel suo primo album e che abbiamo interpellato per questo anniversario: il succitato Marangolo, il chitarrista Jimmy Villotti e il contrabbassista Enrico Lazzarini. «Ma credo che il disagio nell’esplicitarsi sia un grande movente per scrivere», commenta Capossela. «È ciò che permette poi di stare su un palco davanti a un pubblico, perché tanto si continua ad abitare nella propria interiorità». E nell’estate del 1989, quando Vinicio, dopo aver firmato il contratto con la CGD, sbarca a Villa Condulmer, residenza con annesso studio di registrazione nella campagna trevigiana, per incidere quello che sarebbe diventato il suo album di debutto, la sua interiorità di cantastorie si veste di blues, jazz, swing, di atmosfere malinconiche e dolenti, di ritmi ubriachi, di echi di Conte, Buscaglione, Sergio Caputo. «L’impronta non poteva che essere quella, dato che quelle prime canzoni di Vinicio non erano le classiche canzoni all’italiana, avevano già in sé una struttura jazzistica, e a parte gli archi (violino, viola e violoncello, nda) che arrivavano dalla classica, io e gli altri che hanno suonato nel disco eravamo tutti jazzisti», osserva l’arrangiatore e sassofonista Marangolo riferendosi ai già citati Villotti e Lazzarini, oltre che al batterista Ellade Bandini e a Marco Tamburini (tromba e flicorno), Massimo Pitzianti (bandonéon), Mimmo Turone (Organo Hammond C3) e Peppe Consolmagno (percussioni). «Avevamo una produzione super e Vinicio, meravigliato di quel che gli stava accadendo come un bambino, mi elesse da subito suo fratello maggiore. Successivamente avrei scoperto che avevamo gusti cinematografici simili: conosciamo a memoria il Cyrano de Bergerac con Depardieu e Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli».
Lazzarini, poco più agé di Capossela, ricorda bene quei momenti. «Io e Vinicio eravamo i due giovani del gruppo, suonavo con lui già da un po’. Come scrivo nel mio libro La vita è un’azzurra leggenda, pochi sanno che prima di conquistare la notorietà si era presentato sul palco un paio di volte con lo pseudonimo di Andrej Sel Gemini. Come contrabbassista gli avevano proposto Ares Tavolazzi, ma mi restò fedele e lo ringrazio ancora. D’un tratto ci ritrovammo in questa villa faraonica circondati da musicisti di grande esperienza: eravamo in soggezione. Vinicio, però, ha sempre avuto la determinazione necessaria, non era solo talentuoso, credeva davvero in quel che faceva. E ciò che gli avevano messo a disposizione era uno degli studi più innovativi per l’epoca, con uno dei primi banchi digitali, dove poco prima c’era stato Fossati. A parte qualche sovraincisione, le basi le registrammo dal vivo».
Qualche disguido all’inizio ci fu, spiega Capossela: «Non riuscivo a suonare un pezzo due volte allo stesso modo, così al terzo tentativo di suonare assieme al gruppo mi alzai dal piano e rinunciai. “È tutto bellissimo, dissi, ma io non sono all’altezza, è più grande di me, non ce la posso fare”. E Villotti, senza scomporsi, mantenendo miracolosamente le suole delle scarpe incollate a terra, pur con le gambe accavallate: “Ragazzo, non ti preoccupare, mettiti comodo, hai delle cose da dire e adesso troveremo il modo per farlo”». Il modo si trovò in non più di dieci giorni, rammenta: «Era agosto, per Fantini lo studio di registrazione era l’unico posto civile in cui stare in quel mese dell’anno. In quella villa c’erano stati Ronald Reagan e signora nella famosa visita in cui si erano portati i sanitari da bagno da casa. C’era un pianoforte con la loro foto sopra e un ottimo american bar, che dava un senso alle serate. Lavoravamo dalla mattina e si doveva finire per cena. In piscina c’era uno dei Missoni, con una bellissima ragazza molto giovane e aristocratica. L’ambiente era distante dalla materia delle canzoni, si era come pinguini trapiantati allo zoo. Uno zoo fatto di led luminosi, cuffie, doppi vetri. Però c’era una produzione espertissima e dunque, pensavo, sapranno loro. Non verrà come lo aspettavo, ma verrà. Un disco ha davvero troppi modi per venire fuori. Verrà come gli eventi avranno consentito. Nessuno pareva darsene pena. Ellade Bandini – Bandini come il mio eroe Arturo Bandini (personaggio e alter ego di Fante, nda) – una volta finito disse: “bene, questo è andato, ora bisogna pensare al prossimo”. Tra Fante e Fantini non restava che fidarsi».
Marangolo dice che la sua traccia preferita di All’una e trentacinque circa era stata sin dal principio Stanco e perduto, la prima che Capossela aveva scritto. «Avevo una melodia al piano che risentiva di un brano del primo Waits, eroe della mia gioventù», dice Vinicio. «E avevo un libricino edito da SugarCo con i testi dei primi pezzi di Dylan. Ce n’era uno, I Was Young When I Left Home, molto Woody Guthrie. Non sapendo scrivere testi provai a prenderne uno in inglese già fatto. Almeno l’autore era scelto bene, anche se non era utilizzabile per la Siae, e provai a cantarlo sulla melodia. Più tardi la mia ragazza mi lasciò, la sola macchina che avevo finì distrutta in un incidente, l’amico che mi aveva prestato casa decise di sposarsi e io mi trovai in strada e in bolletta, così, mestamente, dovetti tornare alle colline perdute da cui ero partito. A parte che mia sorella non aspettava un figlio, tutto il resto del testo ce lo mise la vita. Fu la prima canzone che notò anche Fantini, produttore che aveva cuore, oltre che fegato».
Parla con l’umiltà che solo i grandi artisti sanno avere, il cantautore oggi 54enne. Anche quando gli chiediamo come ha vissuto i paragoni con Conte e Waits, vicinanze innegabili, ma che rischiavano di sminuire quanto di personale avesse da dire: «Il “contismo” di quel primo disco è dovuto più al suono che alla composizione, visto che ebbi la fortuna di essere prodotto da Fantini, che mi affidò ai musicisti che per anni avevano fatto il suono di Conte. Fu una nave scuola d’eccezione, che però aveva una sua rotta: io ci salii a bordo come un mozzo che scende in sala macchine a vedere come si fa, e in sala macchine c’erano grandi maestri». Quanto alla sua matrice waitsiana: «Il primo stimolo in ogni forma di arte e pure di artigianato è l’emulazione, si inizia cercando di riprodurre le opere e i giorni dei maestri. Ma essendo raro avere maestri di prima mano, ci si rivolge a maestri dell’immaginario, che niente hanno a che fare con la propria vita, perché, parliamoci chiaro, non fosse stato per Tom Waits probabilmente non avrei scritto nulla, ma anche se fosse stato per lui». E chiarisce: «I maestri sono quelli da cui si va a bottega, quelli che almeno una pacca sulla spalla te la danno, che poi s’informano su come è andata a finire. Questo a me è successo nella grande famiglia del jazz ubicato in Emilia, quello che Villotti ha ben descritto nel suo Gli sbudellati. In più c’è stato un vecchio pianista di Bagnolo (RE), che era stato in America e che tutti chiamavano maestro, suonava gli standard in maniera ben poco scolastica in un posto col piano e con il bar, e volentieri ti passava due rivolti di accordi. E ancora, Tony Castellano, un pianista magnifico che la mareggiata della vita aveva portato da New York a Bologna, e poi a casa mia. Gente che cercava di lasciare qualcosa dietro di sé, che su ogni pezzo di carta ti lasciava una traccia. C’era tutta una generazione, in quella musica, che prendeva come una missione il passare il testimone».
Roba d’altri tempi, lo sa bene Villotti, che durante le registrazioni di All’una e trentacinque circa fu per Capossela un altro fratello maggiore: «Ci accorgemmo subito che Vinicio aveva un talentaccio dentro lo spiritello che lo animava. Nel periodo delle registrazioni, la notte rimanevo sempre a parlare con lui ed Enrico in una sala di quella splendida villa, si chiacchierava fino alle 4 o alle 5 del mattino. Vinicio aveva dubbi sul suo futuro e io gli consigliavo di avere pazienza, che aveva ottime qualità per riuscire. Il suo successo mi ha dato ragione».
C’è da dire che Capossela nel 1986 Waits lo aveva visto dal vivo proprio al Tenco. «L’evento peggiore della mia vita fu assistere alla sua apparizione, mi rese un disadattato. Non era solo per la qualità della musica, è che a vederlo c’erano tutto il cinema e la letteratura che avevo amato: da qualche parte esistevano e non si sapeva dove scovarli, e in lui c’erano. Ma soprattutto c’erano generazioni scomparse, quelli che saltano sui treni, la grande depressione… E c’erano mio nonno e i vecchi tignosi come lui con cui faceva bisboccia, con cui aveva fatto la guerra, solo che non li potevo collocare, perché la grande scenografia dell’America cancellava tutto, compresa la lingua in cui esprimersi. Rimaneva una cosa grande, che non si sapeva dove trovare: l’epica». Ed è a caccia di quell’epica che il giovane Vinicio era stato già prima del suo esordio discografico. «Non ho mai sofferto come a 20 anni, un’età in cui non ci si sente all’altezza della gioventù: manca l’epica e quella ce la si inizia a mettere quando è già passata. Io la cercavo da tutte le parti e mi mettevo a sua disposizione, che un dio mi cogliesse là dove mi andavo a ficcare. Mi ero dato tempo fino ai 25 anni, per provarci. Poi ho letto Tondelli e lì ho trovato la stessa epica ambientata nel posto ristoro della stazione di Reggio Emilia, il medesimo posto dove finivo nelle domeniche di nebbia e freddo, gli stessi treni della pianura. Narrare storie di nottambuli e solitari non significa niente, tutti siamo stati nottambuli e solitari, ma trasferire la vita nel racconto e soprattutto far sì che il racconto valga la pena, questo è un passaggio molto più difficile».
La gavetta precedente alla pubblicazione di All’una e trentacinque circa era coincisa con quella ricerca poeticamente ambiziosa e anzi, l’aveva nutrita. «Suonavo dove potevo, se non c’era il piano me lo portavo. Un pesantissimo Fender Rhodes, dono di un maharaja del mondo dei locali da ballo, the marvellous Filiberto “Paolo” Degani che il Covid si è portato via qualche mese fa. Mi fece entrare nel mondo dello spettacolo dalla parte del sottoscala, permettendomi di fare il barman. Non avevo nessun rudimento, ma comprai una giacca bianca e un manuale. I nomi dei cocktail suonavano benissimo. Almeno il bar c’era. Il piano Rhodes lo mettevamo su una jeep per suonare mentre le ragazze distribuivano biglietti omaggio. Aveva un gran senso dello spettacolo, Degani. Finivamo sempre inseguiti dalla polizia municipale, come i Blues Brothers. Che in effetti esistevano, erano di San Giovanni in Marignano e si chiamavano Dino e Umberto Gnassi, trombone e sassofono». E pian piano le canzoni affioravano. «Non c’era uno studio dietro, non si ragionava per comporre un affresco, erano pennellate singole, versi sciolti».
Ecco, allora, il Capossela “stanco e perso su una strada” (Stanco e perduto), che al tempo si proclamava pianista autistico perché girovago, che “urlava ai lampioni” (Scivola e vai via), che bucava la moquette con “cicche disperate” (Pongo sbronzo), che vibrava di “vecchi amori” che “vivono soltanto nelle chiacchiere di notte”. Ed ecco, ad avvolgere tutto come in un jazz club zeppo di fumatori, gli eleganti arrangiamenti di Marangolo e, pure negli episodi più vivaci e ballabili, una disarmante malinconia. O “melancolia”, come preferisce chiamarla Capossela, sentimento che non è mera brama di qualcosa o di qualcuno che è assente, è qualcosa di più, sostiene lui: «Una specie di influsso. Nella medicina antica era uno dei quattro umori di cui si componeva la sostanza vitale, veniva dalla bile e quindi dal fegato, un organo particolarmente sollecitato dalla vita. Tutti i dispiaceri e i demoni sembrano passare dal fegato: il cuore li avverte e il fegato li elabora e poi ne porta traccia. Nei Balcani le canzoni del demone si chiamano sevdalinke, da sevdah, bile nera: è un demone vitale, che costringe alla vita. È il demone che ti fa accendere sigarette per arginare il buco che si è aperto nel cuore, per colmare un assenza che raramente è riferita a una persona, ma è piuttosto la nostra assenza dalla vita in cui vorremmo trovarci e che non sappiamo dove cercare. Si è nel buio, si procede a tentoni, si intravedono abbagli e ci si costringe alla strada».
Parole di un artista nonché scrittore, che guarda il se stesso di 30 anni fa sulla copertina di quel primo album che gli cambiò la vita, firmata Raffaella Cavalieri e Roberto Serra. «Se non sbaglio scattammo quella foto e le altre all’interno del disco a Modena, dove vivevo. Con quel paradosso tipico della gioventù volevo apparire più vecchio e malconcio di quanto non fossi. Ma Fantini, più esperto dei fatti della vita, me lo disse chiaro: per diventare più vecchio ci sarà il tempo, e anche per i danni. Ora hai una bella gioventù, non nascondiamola».