Intervistato da Rolling Stone per una cover story del 1977, Jeff Bridges s’era messo a suonare per il giornalista Tim Cahill una strana canzone intitolata Kong. L’aveva scritta ispirandosi alla creatura protagonista del remake di King Kong che stava girando. Quasi 50 anni dopo, tutti potranno ascoltare quel pezzo e altri 10 registrati da Bridges e da un gruppo di amici dei tempi del liceo che se la cavavano bene con la musica. Il disco si chiama Slow Magic, uscirà il 13 aprile e rievoca il cameratismo sballato di certi mercoledì sera passati da Bridges a suonare con gli amici.
L’album è anche la dimostrazione delle doti di Bridges come cantautore, in un contesto più libero e psichedelico rispetto agli album rootsy che ha pubblicato nell’ultimo quarto di secolo. E in Kong e Here on This Island ci sono dei monologhi recitati dal compianto Burgess Meredith, meglio conosciuto dal pubblico moderno come il Pinguino della serie televisiva Batman degli anni ’60.
Ci parliamo in collegamento via Zoom dalla sua casa di Los Angeles. Bridges indossa un maglione molto simile a quello del Drugo. Parla dell’album ricavato da una cassettina, dei suoi folli anni ’70, di come si è messo alle spalle il Covid e il cancro, del futuro della sua carriera e di molto altro.
Mi è spiaciuto sapere che la tua casa è andata in fumo.
Era la casa di famiglia al mare. Giusto un paio di giorni prima dell’incendio abbiamo portato i ragazzi da Santa Barbara a Santa Monica e ci siamo passati davanti. Adesso non c’è più niente, tutti gli edifici con cui sono cresciuto, l’emporio e tutti quei bellissimi ricordi sono svaniti.
Non sapevo cosa aspettarmi da questa musica. Ho sentito i tuoi dischi più recenti, ma questa è roba forte.
Ti piace? Son contento.
Uno lo ascolta e pensa che sarebbe stato divertente essere lì con voi.
Succedeva per via del mio caro amico Steve Baim. Ci vedevamo tutti i mercoledì sera a casa sua, facevamo delle jam con delle regole da seguire. Non erano ammesse cover, si poteva cantare e si poteva improvvisare con la voce inventando cose, ma non era consentito preparare prima i pezzi. All’epoca scrivevo canzoni e a volte invitavo da me i ragazzi per suonarle. Poi, girando Pazzo pazzo West!, ho incontrato questo tizio, Ken Lauber. Gli ho fatto sentire alcuni brani nella mia roulotte e lui m’ha detto: «Dai, registriamoli». E c’è un’altra persona a cui devo molto, Keefus Ciancia. Dopo Crazy Heart, che T-Bone Burnett ha prodotto alla grande, gli ho detto: «Bone, ho delle canzoni: ti va di tornare in studio a farle?». Così sono ritornato lì con la stessa band che aveva inciso Raising Sand (il disco di Robert Plant e Alison Krauss, nda) e durante quelle session ho conosciuto Keefus, che suonava le tastiere e curava le musiche di True Detective. Qualche anno dopo abbiamo fatto insieme una cosa intitolata Sleeping Tapes.
Che sarebbe poi il tuo disco ambient e spoken word.
È una cosetta strana che abbiamo fatto in presa diretta, nello stesso spirito di quelle jam del mercoledì sera. Ci siamo divertiti e allora Keefus ha proposto di andare in studio e vedere cosa sarebbe venuto fuori. Gli ho portato i pezzi che avevo scritto ed è impazzito. Gli ho fatto ascoltare l’album, che era su una cassettina, e gli è piaciuto tantissimo. Senza dirmi nulla l’ha mandato al suo amico Matt Sullivan, che ha una label che si chiama Light in the Attic che si occupa di ristampe. L’ha apprezzato e ha deciso di farne un album. All’inizio pensavo scherzasse.
Ti faccio una domanda stupida: cosa penserebbe il Drugo di questa musica?
(Ride) Oh, la apprezzerebbe come i suoni delle balene!
Vero. È perfetta da ascoltare in vasca da bagno.
Metti questa roba in loop, man.
Una volta Dylan ha detto che il suo modo di scrivere canzoni è più confessionale che professionale. Magari era così anche per te.
Per me è qualcosa di misterioso. A differenza di molti genitori che lavorano nello spettacolo, mio padre, Lloyd Bridges, desiderava che i figli entrassero in quel mondo che a lui piaceva tantissimo, ma io non ero mica tanto sicuro. Ero preso dalla musica, dalla pittura e da tante altre cose. E lui: «Jeff, non essere ridicolo, una delle cose belle di fare l’attore è che ti chiameranno per fare tutte quelle altre cose che ti appassionano tanto». Felice di avergli dato retta, Crazy Heart è la dimostrazione che aveva ragione. La musica è sempre stata l’espressione di qualcosa che ribolle dentro di me ed emerge in modi strani. Se ci penso, la pittura, la ceramica, la recitazione e la musica sono in fondo simili. Devi solo lasciarti andare, lasciare che le cose escano fuori da sole. È così che mi approccio a tutto quel che mi appassiona.
Rileggendo la cover story che hai fatto per Rolling Stone negli anni ’70, è chiaro che stavi attraversando un periodo di autoanalisi. Facevi Erhard Seminars Training e praticavi la deprivazione sensoriale. E in questa musica ci sono tracce di quell’indagine interiore, no?
Sono cose che mi interessano ancora, alla fine la musica e tutte le altre esperienze creative che ho sono un tentativo di rispondere alle domande: qual è lo scopo? Che cosa sta succedendo qui?
C’è qualcosa che ascoltavi e che ti ha ispirato i momenti più strani dell’album? Mi riferisco a quelli più violenti e sperimentali. Io ci ho sentito l’influenza di Captain Beefheart.
Adoravo Beefheart. E sai chi è Moondog? T-Bone ha usato un po’ di cose di Moondog nel Grande Lebowski. Lo vedevo quando da ragazzino andavo a New York, credo sulla Avenue of the Americas dalle parti della 60esima. Dall’altra parte della strada rispetto all’Hilton c’era questo tizio gigantesco, alto più di un metro e 80, vestito da vichingo, che distribuiva opuscoli. Pensavo fosse un senzatetto, lo vedevo lì tutte le volte che andavo a New York. Un giorno sono entrato in un negozio, ho preso in mano un disco e ho detto: «Ma è quel tipo!». Ho girato la copertina e c’erano le note di copertina di Leonard Bernstein che dicevano che quel tizio che vedevo sempre era un grandie. Sono diventato un fan e l’ho seguito per tanti anni. Faceva musica elettrizzante. Quand’ero bambino, mio fratello Beau, che ha otto anni più di me, sentiva il primissimo rock’n’roll: Little Richard, Chuck Berry, Buddy Holly, quella gente. È stato un periodo eccezionale. Tutto fantastico, roba di prima qualità. Ma vuoi mettere la mia epoca, coi Beatles e Dylan? Dai, amico. Riesci a immaginare come fosse andare al liceo e vedere uscire il nuovo dei Beatles? Una bomba. Fortissimo.
Il primo singolo, Obnoxious, mi ha ricordato i My Morning Jacket. Li conosci?
Più di nome che per la musica.
In qualche modo li hai anticipati.
È roba un po’ doo-wop. Gli accordi sono semplici… La minore, poi Fa…. molte canzoni hanno questa struttura.
In quel pezzo menzioni il Quaalude, una droga che le generazioni successive non hanno provato.
Sì, ma è passato tanto tempo. Ricordo che mi piaceva, era divertente. Ma giravano anche droghe tremende come la polvere d’angelo e roba del genere. Non mi ricordo, ma era un po’ come essere ubriachi, ma in modo diverso. Non ricordo bene com’era il Quaalude.
Il brano Slow Magic è grandioso, con un’atmosfera quasi alla Van Morrison. Cosa ricordi di quel pezzo?
È una canzone che mi è rimasta impressa e ne ho fatta anche una versione più recente. Ho formato una band chiamata Abiders. Non c’è niente di meglio che suonare con una band, davvero meraviglioso. Ho fatto un sacco di tour con questi ragazzi, gli Abiders, e ho inciso un altro album con loro. Poi mi sono ammalato di cancro. E poi al centro per la chemioterapia mi sono preso il Covid, al confronto del quale il cancro sembrava una cosa da niente. Non avevo più un sistema immunitario, credevo di essere a un passo dalla morte. Ho pensato: «Cazzo, ci siamo, tocca a me». E invece sono guarito. E poi… ho iniziato a spulciare la mia lista di brani e mi sono detto: «Cavolo, ho 75 anni. Non so se ho l’energia per entrare in studio, forse potrei semplicemente pubblicare tutto questo materiale, senza fare troppo il prezioso». Così mi è venuta l’idea di far uscire questa serie di brani chiamata Emergent Behavior. È tutto materiale grezzo, ci sono alcune registrazioni dal vivo con gli Abiders e cose fatte da me con GarageBand: l’ho pubblicato sul mio sito. C’è anche un’altra versione di Slow Magic.
Kong è davvero ispirata a un’idea che avevi per un sequel del film?
Quando giravo King Kong mi hanno convocato nell’ufficio di Dino De Laurentiis. Ho pensato: oh oh, sono nei guai. Lui mi fa: «Jeffy». Mi chiamava così. «Due parole sole, Jeffy: Kong-a Two». E io: «In che senso?». E lui: «Kong-a Two». Allora ho detto: «Ah, un sequel!». Mi ha risposto: «Pensaci». Così ho iniziato a ragionarci e mi è venuta un’idea folle. Non avevamo ancora girato il grande finale del film con lo scimmione che cade dal grattacielo e si schianta al suolo, così ho pensato: «Cosa succede se quando King Kong si schianta a terra si scopre che è un macchinario?». C’è tutto questo petrolio a terra che brucia. Da lì il sequel: il personaggio di Charles Grodin prende la carcassa di questa macchina e inizia a portarla in giro, a ricostruirla, ad animarla, e intorno ad essa e nascono delle religioni che la adorano. Ma poi arrivano i cazzo di alieni che dicono: «Questa è roba nostra».
L’ho proposto a Dino e lui mi ha guardato con un’espressione gelida, pareva una statua. Non gli piaceva per niente. Allora mi sono detto: ci farò una canzone e chiamerò il mio amico Burgess Meredith che ha scritto, diretto e prodotto il mio secondo film intitolato The Yin and Yang of Mr. Go, lo farò venire a incidere una specie di radiocronaca tipo disastro dell’Hindenburg. E così abbiamo fatto. Probabilmente è la cosa più professionale lì dentro. È materiale grezzo.
Burgess doveva essere un tipo in gamba per riuscire a stare al passo con te, anche se era molto più vecchio.
Era amico dei miei genitori ed era bello tosto. È stato lui a farmi conoscere le camere di isolamento. Era un caro amico e un talento incredibile. E quella poesia che dice nell’album? Non è bellissima?
Mi ricorda un po’ Vincent Price in Thriller. Tu hai anticipato anche quello e di qualche anno.
È una poesia notevole.
Quindi hai conservato questa cassetta e non l’hai persa in tutti questi anni?
A un certo punto l’ho digitalizzata e caricata nel mio computer, perché non so dove sia finito l’originale, l’abbiamo cercata, ma non siamo riusciti a trovarla. Ma la vita è così, si perdono le cose.
Hai in mente di suonare questi pezzi dal vivo?
È buffo come gli impulsi vadano e vengano. La musica mi ha abbandonato per un po’, ora sta iniziando a tornare e non so cosa succederà. Ho lavorato parecchio su GarageBand per scrivere e mixare del materiale nuovo. Non so cosa farò. A questo punto è tutto da vedere.
Probabilmente il disco, soprattutto riascoltato in questa versione rimasterizzata, suona meglio che mai alle tue orecchie. Che effetto ti ha fatto riascoltarlo?
Sono rimasto entusiasta del lavoro della Light in the Attic per la copertina, il booklet, la masterizzazione e il resto. Uno dei fili conduttori della mia musica è il mio caro amico John Goodwin, che è un bravissimo autore. Ha scritto la canzone Light Blues, che è nel disco. Ed è uno dei suoi pezzi meno noti, certi suoi brani sono davvero straordinari. Da lì sono poi arrivate tante canzoni che abbiamo scritto insieme. Quando mi esibivo con gli Abiders, a dire il vero, circa la metà dei nostri pezzi erano di John Goodwin.
Mi spiace che The Old Man sia stata cancellata, mi piaceva un sacco quella serie.
Già. La cosa migliore per me era la gente con cui lavoravo, Jon Steinberg, lo showrunner, e John Lithgow. Oh Dio, è stato meraviglioso lavorare con loro. È un peccato, ma faccio tante altre cose, serve del tempo per dedicarsi a musica, pittura, ceramica, giardinaggio, sono felice di averne per fare tutte queste altre cose che mi interessano.
Negli ultimi anni ne hai passate di ogni. Stai pensando alla pensione o vuoi continuare finché riesci?
Col mio caro amico Bernie Glassman ho scritto un libro intitolato The Dude and the Zen Master. A proposito di pensione, Bernie diceva che «è come andare da un gommista e farsi montare dei pneumatici da fuoristrada». È così che penso che sia andare in pensione: metterò dei pneumatici diversi e andrò verso le colline, per vedere cosa c’è oltre.
Quindi, forse, un po’ ci pensi.
Sì, ma non nel modo classico. Ho sentito un’altra definizione dell’andare in pensione. Andare in pensione significa smettere di lavorare, giusto? E, in un certo senso, io non ho mai lavorato. Ho inventato una parola per descrivere questa cosa: plork, combinazione di play e work. Nel recitare c’è sempre un elemento di gioco. Quindi cerco di avere sempre questo atteggiamento nella vita. E quindi, qual è la mia definizione di pensione? Io sono in pensione da quando sono nato. Ho sentito un tennista famoso dire che «è come laurearsi, ecco, mi sto laureando».
È sempre stata dura trascinarmi alle feste o convincermi a fare qualunque cosa, che fosse un film o altro. Opponevo resistenza perché sapevo cosa significa: se faccio una cosa, non riesco a dedicarmi ad altro, oltre a dover stare lontano dalla famiglia. E quindi ho sempre fatto resistenza e oggi ne faccio ancora di più, perché ci sono un sacco di altre cose che voglio fare. Sono ancora disponibile a girare dei film, ma devono colpirmi, stimolarmi, intrigarmi.