“America’s first female synth hero”. Questo è il (meritato) soprannome che Suzanne Ciani si è guadagnata nel corso della sua lunga carriera. La compositrice americana, ma di origine italiana (la famiglia Ciani è di Mirabella Eclano, vicino Avellino), è stata davvero la prima donna in tutto. La prima a suonare il Buchla, il costosissimo e complicatissimo sintetizzatore modulare (opera del genio di Don Buchla, mentore di Suzanne) che ancora oggi è alla base dei suoi lavori, la prima ad affermarsi come sound designer nel mondo delle pubblicità (suo il celebre suono – sempre costruito con il suo Buchla – della bottiglietta di Coca-Cola che viene aperto e versato in un bicchiere), la prima a comporre una colonna sonora per Hollywood nel 1981 per The Incredible Shrinking Woman di Joel Shumacher.
Tutto nella vita di Suzanne Ciani si è mosso come il moto delle onde. Che fossero sonore, come quelle prodotte dal Buchla o, dal suo altro grande amore, il pianoforte, o che fossero quelle naturali dell’oceano che si può osservare dalle finestre del suo studio californiano dove la compositrice si è ritirata dopo aver scoperto un tumore al seno (poi fortunatamente curato) nel 1992, quando la sua vita da sound designer a New York era arrivata al limite. E proprio come un’onda, l’oceano della vita negli ultimi anni ha riportato Suzanne Ciani nel mondo dell’elettronica grazie a una riscoperta del suo lavoro («una volta si diceva new age, ora dicono ambient», ha scherzato in passato). Oggi questa splendida e vitale settantasettenne ha ripreso in mano il Buchla (questa volta non il suo amato 200, ma il suo figlioccio, il 200E) ed è tornata a girare il mondo tra concerti di improvvisazione elettronica e pubblicazioni recenti e d’archivio.
In Italia arriverà sabato 6 aprile al Cinema Massimo di Torino e lunedì 8 aprile all’Auditorium San Fedele di Milano grazie alla collaborazione tra due realtà avanguardistiche come Jazz is Dead! Festival e Inner_Spaces. Due occasioni imperdibili in cui Suzanne Ciani potrà far risuonare il proprio Buchla, naturalmente in quadrifonia.
Hai scelto per le tue esibizioni la quadrifonia. Cosa ti ispira della spazialità del suono? E come si rende questa possibilità d’ascolto in un mondo pensato per la riproduzione in stereo?
Suono in quadrifonia dagli anni ’60. Il Buchla 200 con cui ho iniziato era quadrifonico; Don Buchla aveva capito che il movimento del suono era parte dell’elemento elettronico che di base è monofonico, ma che muovendosi nello spazio trova la sua vita. Con la mia etichetta (la Seventh Wave) indipendente pubblico solo materiale in quadrifonia. Quando abbiamo avuto la prima release 8 anni fa abbiamo dovuto includere un decoder per rendere quella musica accessibile. Ora le tecnologie sono diverse. Ad ogni modo, quando non pubblico in quadrifonia, mi appoggio ad altre etichette, così la mia rimane purista.
Sessant’anni dopo la quadrifonia è ancora per pochi. Rispetto a quando hai iniziato la tecnologia probabilmente non è riuscita a compiere il salto che si sperava. Sei delusa dal progresso tecnologico?
In realtà sì, pensavo che ora tutti avrebbero avuto un Buchla a casa. (ride) Inoltre è tornato l’analogico, un modo di lavorare dei miei tempi e questo mi sembra assurdo. Credo che nel futuro si lavorerà di più sul controllo spaziale, la musica elettronica è la sola forma d’espressione che può muoversi nello spazio nello stesso momento in cui viene generata. Quando si è sviluppata la quadrifonia non c’era modo di sfruttare quella spazialità a dovere, ma io ero certa che quello fosse il futuro.
In cambio però c’è stata una democratizzazione tecnologica. Però forse il risultato ottenuto è stato quello dell’internet: abbiamo tutta la conoscenza a portata di click, eppur stiamo a veder pornografia o video di gattini.
Io vedo la tecnologica come una piramide alla cui base c’è un’ampia gamma di possibilità, la democratizzazione di cui parli. Dobbiamo però riconoscere che non è tutto su un unico livello e per salire di livello nella piramide servono abilità e conoscenza. Il Buchla per me è al vertice alto di questa piramide. Si potrebbe pensare che è un pensiero elitario, visto il costo dello strumento, ma anche io non potevo permettermelo e per averlo ho dovuto lavorare senza sosta. Bisogna volerle le cose e impegnarsi per ottenerle.
Una domanda che si può fare davvero a poche persone: tu sei stata una pioniera della musica elettronica nel mondo, ma nel momento in cui ti ci approcciavi, sessant’anni fa, ti sentiva pioniera?
Assolutamente sì anche perché quando andavo in giro a suonare con il mio strumento le persone proprio non avevano idea di come venisse generato il suono. Quando suonavo dovevo quindi essere una professoressa dello strumento, essere paziente e spiegare quel che accadeva. Ancora oggi c’è una certa difficoltà a comprendere quel che faccio e quindi ci tengo a comunicarlo, ad essere trasparente affinché i giovani e i curiosi possano capire. La cosa che mi fa strano è che per tutta la vita ho visto la tecnologia andare avanti, ora mi pare come se stia andando all’indietro. Tu che sei giornalista mi sai spiegare perché i giovani stanno tornando indietro a tecnologie di quando ero io ad essere giovane (penso ai sistemi modulari, ma anche ai vinili e le cassette)?
La mia idea è che ci sia una sorta di paura del futuro, un futuro che più che mai ha le sembianze di una black box incomprensibile. Penso a esempio al buzz intorno all’IA. Inoltre credo che si sia sviluppato un modo diverso di guardare alla storia. Internet ha ribaltato la concezione che abbiamo del tempo e della storia, ora tutto ciò che c’è stato è qui, alla nostra portata, indistinguibile dal presente. Non c’è più né passato, né futuro.
Interessante. Credo inoltre ci sia anche un’altra dimensione del fallimento dell’aspettativa tecnologia ovvero un’eccessiva influenza del marketing, un capitalismo che spinge le case discografiche alla creazione di nuovi medium solamente per poter economizzare di nuovo su archivi e library. Ogni nuovo medium comporta nuovi guadagni e quindi bisogna convincere il consumatore che il nuovo medium sia migliore del precedente (come era successo quando il cd soppiantò il vinile). Noi volevamo raggiungere la qualità sonora massima, mentre dal walkman e le cuffiette in poi a nessuno è più importata la qualità. Ora invece mi sembra ci sia un tentativo di ritorno alla qualità. Ascoltare un LP è come fermare il caos fuori, si crea una profonda relazione con quello che ascoltiamo. Ora il futuro non è più andare avanti, ma cercare di essere inclusivo. Per ritornare a quello che dicevi, penso che in futuro si lavorerà molto sulle interfaccia delle tecnologia perché abbiamo bisogno di un punto di contatto mentale e fisico, una conversazione con la tecnologia perché non possiamo semplicemente dire “Oh, lascia che sia la tecnologia a farlo”. Noi vogliamo esprimerci, non ci basta che la tecnologia agisca.
Hai avuto una carriera alquanto singolare: hai iniziato dall’elettronica, poi sei passata al tuo primo amore, il pianoforte, e alla musica romantica e ora le tue mani sono tornate a spippolare sul Buchla. Cosa ti ha riportato all’elettronica?
Prima di ricominciare con la musica elettronica suonata ero a Venezia a scrivere un nuovo album pianistico. Quando sono rientrata a casa questo rinascimento dell’elettronica era in atto e mi han chiamato a suonare con il mio Buchla 200E a San Francisco. E così ho risuonato quello strumento dopo anni e ne sono rimasta scioccata, come fosse un’esperienza nuova e differente. Era quello che avevo sempre sognato: volevo che le persone capissero e ora finalmente accadeva. E così ho iniziato a lavorare con il Buchla, che ti assicuro è un impegno, e quell’album di Venezia non l’ho mai registrato. All’inizio ero preoccupato: alla mia fanbase di musica romantica non interessa la musica elettronica, e viceversa, ma proprio per quello che dicevamo prima – che con internet tutto è qui nel presente – quella fanbase ha ancora la mia musica romantica. Quindi c’è chi vuole che gli autografi copie di Seven Waves o The Velocity of Love (i suoi primi due album, ndr) – la mia musica romantica – e ci sono altre che mi amano per il Buchla. È un’identità dicotomica.
E tu ti senti te stessa in entrambi gli universi? O uno dei due predomina in te?
Io mi sento autentica in entrambi i mondi, sarà che sono una doppia gemelli. Sono abituata ad abitare mondi differenti. Ero stanca del lavoro di produzione che necessità un album in studio, non ne ho voglia ora, e quindi suonare il Buchla live è una libertà. Ognuno di noi cerca il posto in cui appartiene e io penso di aver trovato quel posto grazie a Don Buchla che ha disegnato uno strumento live come questo.
La tua carriera è divisa tra due amori per due strumenti che hai sempre cercato di tener separati tra loro: il pianoforte e il Buchla.
Sono due mondi diversi. La prima volta che mi sono avvicinata all’elettronica in realtà non volevo sentire più il suono acustico, mi sembrava insufficiente, non aveva gli alti, non aveva i bassi, non soddisfaceva il mio orecchio. Dopo tanti nel mondo dell’elettronica ho invece ripreso il pianoforte e pensato ‘Oh, che mondo sonoro incredibile, così sensibile e profondo ed espressivo”. Quando facevo elettronica pensavo non mi sarei più avvicinata al pianoforte, e quando ho ripreso il piano pensavo di non tornare più al Buchla. Vivo così.
Una frase che ripeti spesso nelle interviste è «Mi piace la melodia perché sono italiana».
Sono cresciuta con mio nonno che ascoltava solo l’opera – Beniamino Gili, Enrico Caruso – e penso di aver interiorizzato tutto quella emotività musicale. Fa parte del mio dna italiano.
E la tua parte di famiglia italiana ti ha mai sentito suonare?
15 anni fa ho fatto un concerto per piano nel mio paese, Mirabella Eclano, per la mia famiglia. È stato bellissimi. Ad aprile invece mi hanno chiesto di tornare per suonare elettronica. Chissà come reagiranno! (ride)
Sei stata una pioniera non solo nel suono, ma anche nell’essere una delle prime donne a farsi un nome nell’ambiente elettronico. Sei stata la prima in tante cose, come ad esempio a firmare una colonna sonora di Hollywood.
Per capire se le donne sono davvero considerate guardo le colonne sonore. Il film di cui ho curato la colonna sonora – The Incredible Shrinking Woman di Joel Shumacher – è del 1981. Quella che è venuta dopo è stata Shirley Walker. Poi il vuoto. Le porte erano chiuse, ma ora pian piano si stanno aprendo. Questo dipende da una serie di scelte fatte con coscienza, c’è stato un risveglio, una realizzazione sul fatto che le donne non avessero spazio. E così alcuni spazi sono stati creati. Penso a Berkeley: quando ho iniziato non c’era nemmeno una donna nel dipartimento di tecnologia musicale, ora c’è una donna a dirigerlo. Con questo non dico che la situazione sia davvero pari: le giovani donne spesso hanno ancora gli stessi problemi che avevo io 50 anni fa con uomini che non danno fiducia e pensano sempre di dovergli spiegare come funziona anche quando sono più che preparate.
Ti faccio un’ultima domanda: nei tuoi lavori le onde hanno sempre una centralità. Ci sono le onde sonore, le Seven Waves del tuo disco d’esordio, ma anche le onde dell’oceano che scorgo dal tuo studio. A Life In Waves è anche il documentario a te dedicato.
L’energia. Le onde sono un’energia fondamentale, e sono infinite, gentili e femminili. A livello compositivo sono una forma, una forma d’arte, che adoro: c’è una crescita di energia che raggiunge un picco, e poi un decadimento. È un’architettura fluida e non a blocchi. Penso che le onde siano una forza energetica femminile.